Non credo svanirà mai il mio amore
per gli autori cui tengo particolarmente. Non credo che le librerie strapiene
che arredano la mia stanza, che fungono da santuario magico, non dimostrano
come in anni e anni di letture, spericolati viaggi, escursioni nel cuore più
profondo degli abissi, caterve di libri di autori che amo, ho amato e amerò per
il resto della mia esistenza. Le mie ancore di salvezza, nonostante un po’
invecchiati negli anni, ma senza dubbio ancora bellissimi, affascinanti,
ammalianti, anche se obiettivamente con quella particolare luce che
sprigionavano i loro romanzi, ogniqualvolta mi siedo sulla poltrona ed apro un
loro libro. Con i miei autori preferiti non mi preoccupo di niente, solo di
dove questa volta sarei capitata. Ma con Irene Nemirovsky i miei spericolati
viaggi mi hanno sempre indirizzata in luoghi che mi è sembrato di assistere,
toccare. Con una moltitudine di ricordi, squarci di vita lontana, passata in
cui chiunque può riconoscersi, riconoscere il tono pacato di chi l’ha scritto,
l’anima dilianiata e in tumulto. Mirador è, come sostiene la stessa autrice,
Elisabeth Gille, nonché figlia dell’autrice, una memoria sognata, una dolce
rimembranza in cui l’etenità ha compiuto un lungo viaggio e rievocato l’irrevocabile.
Osservando l’esperienza personale della Nemirovsky come discostando una tenda
invisibile, rapiti dalla vertigine della distanza che mediante scrittura
smorzano gli effetti di un passato violato e irrecuperabile.
Titolo: Mirador,
Irene Nemirovsky, mia madre
Autore: Elisabeth
Gille
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 18 €
N° di pagine: 360
Trama: “Mirador” non è una semplice biogradia di Irène Nèmirovsky. È la scrittrice stessa che, attraverso la voce della figlia, Elisabeth Gille, ci racconta in prima persona di sé e della propria vita. E rievoca con accenti intimi e originali la Russia lacerata e suggestiva dell’infanzia e dell’adolescenza. Poi, dopo l’elisilio seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, sono la Francia e Parigi lo scenario in cui Irene spicca il volo e diventa famosa. Infine la provincia francese è il teatro che vede svolgersi l’ultimo atto della sua esistenza, che è anche l’ultimo atto di una borghesia colta ma incapace di cogliere i segni premonitori della tragedia che si sta abbattendo sull’Europa e che troppo tardi si accorge della furia che travolgerà milioni di persone, come la stessa Irène, deportata nel 1942 ad Auschwitz, dove morì di tifo un mese dopo.
La
recensione:
Come
avrebbe potuto sopravvivere a lungo, mi dicevo, in quella città orribile, tutta
fatta di bronzo, granito e marmo, appiattito al suolo da un cielo che
somigliava a una pietra tombale.
Della Nèmirovsky ho letto tutto. Proprio tutto.
Persino i suoi romanzi minori. Oramai è chiaro, non c’è più alcun dubbio. Si è
trasformata in una assoluta certezza, quel porto sicuro in cui amo naufragare
quando mi pare e piace, che non ha mai avuto paura di esprimere su carta ciò
che attanagliava la sua anima appassionata ma semplice, ed insieme ad un certo
talento per la letteratura, la scrittura acquisì il talento di scrutare a fondo
chi le stava accanto che spesso era di alto lignaggio, scaraventati però senza
alcuna remora in una bufera rivoluzionaria da dove sono emersi strizzando gli
occhi come piccoli gufi a cui è stata strappata un’ala, disorientati da
pericoli schivati, spettacoli sanguinosi o scene di terrore. Senza aver vissuto
tutto ciò sulla propria pelle, non capendo fino in fondo se non dopo averlo
visto. La Nèmirovsky espresse tale tema fondamentale con gli occhi di chi tutto
questo lo subì, ma non in maniera violenta. Ma dotata di un animo sensibile,
parsimonioso, mediante scrittura riportò tutto questo. Riconobbe questo Male
assoluto. Figura pallida, fredda, ostica e distaccata che non lasciava
prevalere alcuna emozione. Attorniata da figure che cercano beneficio nel
rievocare il ricordo, la guerra, l’ingiustizia, gli assalti, le persecuzioni. I doni della vita, Il calore del sangue,
Jezabel e tutto ciò che ne seguì furono quelle risposte migliori che hanno dato fondo, vita a certi orrori. Certe
persecuzioni, certi sopprusi, risposte vere che è impossibile contestare, non
poter coglierne nemmeno la minima parvenza di tranquillità. E così,
attanagliata fino a quando il tifo la condusse fra le braccia fredde della
morte, la figlia, Elisabeth Gille richiamò a se lo spirito della madre,
osservandola con gli occhi di figlia ma anche di lettrice, instaurando quel
giusto legame che mettesse in sintonia il suo mondo – quello dramamtico,
sofisticato e solenne della Nèmirovsky, e quello tenero della sua autice. Un po’
restia a lasciarsi andare, ma coraggiosa ad aver accolto nel suo grembo un
gioco di richiami stilistici e narrativi in cui è stato possibile riconoscere
qualche stralcio della sua narrazione. Mirador è innegabilmente una dichiarazione
d’amore dell’autrice alla sua amorevole madre. Una testimonianza fedele,
parsimoniosa, ricca, sofistica, tenera in cui prevale un certo sentimentalismo,
l’epicità di alcune situazioni in cui i ricordi, la bellezza dei sogni, ciò che
è estremamente relativo all’identità umana, che è solo una parvenza di
mutamenti sentimentali, stati d’animo che sono state proiettati dinanzi agli
occhi del tempo, disfando le rigide frontiere del passato, conservando le
geriarchie di famiglie che vivono in condizioni ingentissime. Tentativi quasi
inutili di sopravvivere, che appiattiscono al suolo e che, nonostante la
diversità di stile, mi è stato possibile riconoscere la sua voce, coprendo la
mia anima a tal punto che la Nèmirovsky ha alimentato una scintilla che ardeva
già. Il rumore dei suoi pensieri sovrastava ogni cosa, e l’atrocità di certe
situazioni, certi eventi implicarono nella realizzazione di un trattato storico,
realistico, sociale che suggeriscono svariati elementi spirituali. Un tributo bellissimo e immaginifico che è
una tenera violenta immersione nel passato, colma di passione, sentimentalismo
che mi rese bruciante fin sopra le ossa. Nient’altro che lo specchio dei
desideri di ogni lettore che si rispetti ami la Nèmirovsky, desideroso di
sapere maggiormente di lei e del suo vissuto, non per questo meno reale di quel
che credevo, mostratosi così evidentemente nella stanchezza e nello sforzo di
pomeriggi solitari, intensi nel riporre nero su bianco, in pagine di diario,
quanto ciò visse l’autrice e la sua famiglia. Uno spettacolo orribile,
ripugnante che, fra il fragore di un mondo che si dovrebbe assopire
inarrestabile, regolato da consuetudini e leggi immutabili, mi ha fatta sentire
adirata, addolorata, triste al pensiero soggettivo di una regina spietata, imprescindibile,
intransingente e crudele che avvelena chiunque.Vaghi ricordi delle letture precedenti, mi
attraversarono la mente: la tenera dolcezza con cui l’autrice si approcciò alla
scrittura, ai libri, riluttante a non poter custodire qualcosa che ci impedisca
di barricarci dietro solide barriere pur di vivere nel miglior modo possibile. In
pagine di memoria in cui vi ho scorso il principio della fine, la nascita di
una dinasti che giorno dopo giorno si avvia sempre più nella miseria, nel
lastrico, e la sua fine, alimentata da episodi, sogni o speranze che coincidono
con quello di condivisione e unione dell’autrice. Questo << mirador >> cioè torre
di pattuglia a cui si riferisce il titolo fornisce un introito sostanzioso e
discreto nel farci un’idea alquanto chiara sul processo impuro della vita,
miscelati mediante aspetti puramente biografici da cui tuttavia si può scorgere
una certa “ironicità”. Sebbene sia del tutto assente, ma intesa come
destabilizzante, nociva. Un sogno di sangue, gloria, pianti e sorrisi che ha
tenuto chiunque immobili, incollati alle pagine di una storia che è lo specchio
della vita dell’autrice. Un piccolo universo raccolto e gentile, che in un
brusco istante si è formato attorno a me.
Valutazione
d’inchiostro: 5
Non appena avrò approfondito l'autrice, lo comprerò! Non conoscevo!
RispondiEliminaNemmeno io, e si è rivelata una bellissima sorpresa 🤗🤗
EliminaNon conosco l'autrice, ma sembra brava; ottima recensione; grazie
RispondiEliminaA te ☺️❤️☺️
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