A destare la mia attenzione fu il silenzio. Questo romanzo ha riposato sulla soglia di una finestra luminosa dall’aria luminosa e vaporosa in un costante fracasso a cui la mente ci ha fatto l’abitudine già da un pezzo. Poi, improvvisamente, quella parte di me che resta all’erta anche quando l’altra riposa si rese conto che stava succedendo qualcosa di nuovo e si allarmò. Il rumoroso, insolito spettacolo messo in scena in questi giorni fu indetto da un’autrice giapponese che, fra il quieto e l’ordinario, offrì al mio sguardo la struttura di un’esoscheletro letterario che necessita di una rifinitura ma che nonostante tutto ha raggiunto il mio cuore. Una minuscola barchetta si stanziava dinanzi alla frastagliata cresta di un monte roccioso, lontanissimo da me, immerso nella luce, la cui anima presto o tardi si sarebbe levata nell’etere fra le voci altisonanti di altre voci, altri suoni.
Titolo: Un bosco di
pecore e acciaio
Autore: Natsu
Miyashita
Casa editrice:
Mondadori
Prezzo: 19, 50 €
N° di pagine: 209
Trama: Una palestra
vuota, un grande pianoforte aperto e le dita di un uomo che toccano i tasti
facendone uscire una melodia dolce, una melodia che è un fremito di rami e uno
stormire di fronde, un odore di bosco sul far della sera. Tamura ha diciassette
anni e in piedi, solo, nella palestra deserta, ascolta rapito quei suoni. È una
folgorazione. L’uomo non è un pianista, ma un accordatore. Sta chino sul
pianoforte con i suoi attrezzi e si piega sulle viscere di legno dello
strumento per trarne una musica che a Tamura parla di un mondo lontano, dei
boschi della sua infanzia di cui ha una lancinante nostalgia. È l’inizio di una
passione, e di un’ossessione. Tamura frequenta la scuola per accordatori e
inizia a lavorare sodo: studia materie difficilissime e dedica ogni momento
libero alla ricerca di quel suono magico che aveva udito un giorno nella
palestra della scuola. Un suono in grado di evocare un mondo intero, il bosco
in cui i suoi odori, la luce filtrata dal verde, il vento tra le foglie, l’acqua
sotto le radici, il canto di una ghiandaia e il languore nel cuore del
protagonista. Un suono familiare che però gli sfuggirà a lungo, non riuscendo
egli ad accordare legno e corde nel modo esatto. Perché per saper accordare la
musica è necessario avere un talento e quel talento è qualcosa di similissimo
all’amore.
La
recensione:
La musica
non è fatta per competere. Puoi anche entrare in competizione con qualcuno, ma
si sa chi sarà il vincitore: chi ne ha tratto beneficio!
Cosa sappiamo effettivamente della musica? Qual
è la sua provenienza? Cosa fare per scavare a fondo nella sua anima, per
scrutarla attentamente? Quella della musica è una delle tante argomentazioni
spirituali di cui non si ha una vera e propria risposta. Perché scrivo questo? Perché
a certe risposte dell’anima non c’è fondamento. L’uomo è sempre l’uomo e i suoi
mali sono gli stessi. Eppure è capace di distinguere ciò che è dotato di un
anima e ciò che non lo è, un fatto davvero eccezionale. Sortisce un certo
effetto, ma non sappiamo di più. Non sono un’esperta in questo settore. Il solo
responsabile è l’anima. Ed io amo parlare di cose o forme che possiedono un
anima..
Questo romanzo, così come tanti altri
romanzi che ho letto in passato, possiede un anima. L’anima di chi legge, di
chi sente, vede, ascolta, i cui messaggi furono sferzate negli occhi per i
quali non vidi una vera e propria origine. Quasi sempre rimandati nei casi in
cui si ritiene necessario un intervento letterario.
Originariamente, la lettura non procedeva
spedita come credevo. Un lavoro ben ponderato, riflessivo, efficiente, è solo
una parte dell’intera opera. Ci sono stati temi trattati che hanno fatto
vibrare il mio cuore di una melodia tutta sua, che man mano che si procede con
il suo ritmo lento e sincopato hanno sortito un certo fascino che via via è
andato a scemare. E per questo credo che Un
bosco di pecore e acciaio sia una storia molto dolce da conservare, tenere nascosto, ma il cui amore che Tamura riserva al suo amato pianoforte
stona con l’anima del romanzo in se. L’idea di associare il tutto a una melodia
dal suono enigmatico, esprime qualcosa di terribilmente nostalgico. L’inverno,
l’aria secca e umida sono alcuni di quegli elementi che coincidono con Tamura,
piccolo grande poeta giapponese che da sempre desidera perseguire il suo sogno:
diventare un pianista. Quasi una farfalla che fatica ad uscire dal barattolo,
ma che se indirizzata a poter trovare quella giusta vibrazione – limpida,
ampia, lontanissima dal terrore agitato – affinchè essa possa spiccare il volo,
risplendere, libera di sprigionarsi.
Oramai sono abituata a questi esperimenti e
questo romanzo, a dire il vero, subentrò repentinamente mediante la chiamata
dolce, intensa, quieta. Bello come un sogno ma certo come la realtà in cui la
musica è il vero e proprio effetto scatenante. Innesca un meccanismo di
autodifesa, di benessere e pura magia. È una medicina per l’anima che su di me
ha avuto un effetto secondario perché non è entrato nell’immediato nel sangue
come invece è stato per Tamura, che ha assorbito in maniera quasi ossessiva.
Una lettura molto dolce e carina che non
considero indimenticabile o necessaria, ma che in un certo senso ha alimentato
in me l’amore già forte in partenza che io ripongo per il Giappone e per Murakami
Haruki a cui mi fiondo quasi sempre spedita, senza pensarci per più di un
secondo. Parlare però con Tamura e la sua autrice ha sortito effetti che non
credevo: ha relegato infausti pensieri in una zona remota del mio cervello. E non
uscendo proprio allo scoperto, piuttosto ascoltando ciò che avrebbero dovuto
dirmi, e che hanno poi egregiamente fatto, con coraggio e sicurezza nel riporre
irreversibili squarci di anima al prossimo, mettere a nudo se stessi,
conferendo quelle giuste e adatte nozioni per cui è stato così importante
imboccare una strada, quella della musica classica, e il rapporto intrinseco che
si è instaurato. E quello che ci fa presente l’autrice è che ognuno di noi va
alla ricerca di una melodia, di una parte del nostro spirito in cui l’anima può
sentirsi beata e che, come il mito di Orfeo, rappresenta in un certo senso il
nucleo di questa collaborazione che ne evidenziano i motivi. E, in particolare,
cercare qualcosa che è sempre difficile ottenere: la libertà. Abbattere qualunque
barriera, valicare qualunque muro affinchè si possa rimediare sulle mancanze
del passato. La musica conferisce bellezza, conforto, parsimonia, finchè ogni
cosa vada al suo posto.
Allegoria della stessa musica, del
paesaggio ritratto in copertina o, addirittura, del titolo posto, nonché riflessione
sul talento, sull’anima, sull’emozione, sulla creatività colmo di una certa
determinazione, che tuttavia cozza con l’aura drammatica e malinconica che
trapelano dalle sue pagine.
<<
Si vive anche senza talento. Però, da qualche parte dentro di noi, ci crediamo:
quello che non vediamo nemmeno dopo aver superato le diecimila ore, forse lo
vedremo impiegandone ventimila. Piuttosto che vedere presto, non è più
importante vedere altro e grande? >>
Valutazione
d’inchiostro: 3 e mezzo
Vedo che non é andata tanto bene; mi spiace; grazie per la recensione
RispondiEliminaA te :)
EliminaBoa noite. Obrigado pela dica maravilhosa, fico feliz com seu maravilhoso trabalho de divulgação.
RispondiElimina🤗🤗
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