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domenica, dicembre 11, 2022

Gocce d'inchiostro: Invito a una decapitazione - Vladimir Nabokov

I romanzi di Vladimir Nabokov hanno sin da sempre destato un certo fascino in me. Sono sempre stati un polo d’attrazione, e quindi la migliore soluzione per accrescere questo interesse è ridurre la distanza e leggere qualche altro romanzo, uno dei tanti nella lunga lista dei libri ancora da leggere, la migliore che potessi mai sperare, così bello che non va inteso come facile, perché è destino a volte attribuire alle parole una certa semplicità, ma anche nelle circostanze più positive, soprattutto in un posto come la Russia stanliana, dove la vita sembra quasi per lasciare lo spirito di un uomo comune, dove una lunga e attenta riflessione sul senso del tempo e della conoscenza causarono sconquassi alla salute – alla mia -, senza contare il manipolo di sensazioni constatate …. Chi l’avrebbe mai detto che questo romanzo fosse così potente? Tutto ciò che lessi nel giro di una manciata di giorni subì un certo effetto, molte delle quali riconducibili a quello che esprimerò in questa recensione, anche se le parole, in questo caso, servono ben poco. Ma inevitabili, poiché coscienzioso e consapevole, vergato da parole che sono il massimo della fiducia, della bellezza dell’arte, in una transitoria perdita di coscienza che colpisce forte, col suo ammaliante carisma, evidenziando con semplicità il Bene perfetto e illusorio.

Titolo: Invito a una decapitazione
Autore: Vladimir Nabokov
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 18 €
N° di pagine: 222
Trama: Il protagonista di questo romanzo, Cincinnatus C., ha un difetto: è opaco, nel senso che i suoi pensieri e le sue sensazioni non sono trasparenti agli occhi di coloro che lo circondano, perciò produce "un'impressione bizzarra, come di un ostacolo oscuro e solitario in un mondo di anime trasperenti le une alle altre". In quel mondo, che non è un paradiso, come gli altri sarebbero inclini a pensare, ma il suo beffardo capovolgimento, l'opacità non è solo un difetto, ma una grave colpa, forse la più grave: è segno che rivela la "turpitudine gnostica" del singolo. In quel mondo si viene condannati a morte non per ciò che si fa, ma per ciò che si è. Scritto nel 1934 a Berlino un romanzo chiaroveggente che ha per oggetto la società totalitaria.

La recensione:

 

<< Nonostante tutto, io, in senso relativo, esisto. In fin dei conti ho avuto dei presentimenti, ho avuto dei presentimenti di questa fine. >>

  

Leggere la vita: ogni giorno, ogni santo giorno, ecco che cosa faccio, per cui << vivo >> nel mio modesto ambiente famigliare. Se c’è una consolazione nel logorarsi dinanzi allo scorrere inesorabile del tempo è che io, come essere umano, sono esattamente come tutti gli altri. Come te, che stai leggendo queste poche righe, come la mia vicina di casa, come una lontana amica che non vedo da tantissimo tempo ma sento sporadicamente, creature fatte di sangue e ossa unite dal medesimo destino. Però, come fratelli, con gli innumerevoli momenti di discordia e letizia, insofferenza e appagamento, le liti e le risate, le cadute e le alzate, siamo legati a un filo invisibile, poiché unica massa composta da diversi strati di conoscenza. Anime vagabonde che errano lungo il sentiero insidioso della vita e che, ciascuno, con un comportamento diverso nell’abbracciare questa strada. Prendiamo Cincinnatus, ad esempio, questo piccolo grande uomo, qui, seduto dinanzi a me: specchio in cui ho potuto riflettermi e cui credo si siano rispecchiati altri lettori, prima di me, visione insensata di brutti sogni, sedimenti di delirio, assurdità da incubo caduto in un sonno profondo da cui è impossibile svegliarsi. Fenomeno da baraccone in un mondo irrimediabilmente festante, cui ho nutrito un certo interesse, che in genere avviene molto dopo, sin dalle prime battiture, ma la cui vita, il suo modo di muoversi come uno spirito errante, angoscioso in cui il Tempo stesso sembra farsi beffe di lui, non basta per riassumerlo brutalmente. Poiché intrappolato in una società totalitaria e totalizzante che impedisce di condannarci come individui diversi, l’uni dagli altri, contraddicendo qualunque forma doppia, qualunque ambivalenza a dispetto della società circostante. Così eversivo perché diretto al rovesciamento di qualcosa, sfaccettato e irriducibile ad un banalizzante schema, che distingue conformità e divergenze in un linguaggio teso e nuovo.
Malgrado il nostro tempo a disposizione sia stato poco, molto poco a dire il vero, malgrado l’incomprensibilità di questa condanna che lo abbia rintanato a finire i suoi giorni in un’angusta cella, io e Cincinnatus divenimmo parecchio intimi, e quando ripenso a lui – sebbene i giorni che hanno scandito il tempo in sua compagnia e quello in cui scrivo questa recensione sono oramai lontani -, comprendo come a volte sia bello buttarsi nel bel mezzo di qualcosa di cui non sai il suo epilogo. Sono stata fortunata ad incontrare molti anni fa l’autore, con lo splendido Lolita, e, adesso, a distanza di qualche anno, con Invito a una decapitazione che mi indusse a comprendere quest’uomo come emblema di sogni e speranze represse dinanzi allo scorrere inesorabile del tempo, in cui ogni cosa però reca piacere allo spirito, colma quel genere di gaiezza che conoscono i bambini. Intrappolato nella solida barriera del Tempo che apparentemente si arresta, sospeso fra due dimensioni, procedendo lento al consueto tatto, raggirando le anime di ognuno con i suoi scopi, così viscosa, appiccicosa e incerta. Ed assieme a Cincinnatus, mi sono sentita intrappolata in una specie di barattolo, agognando la libertà, la salvezza, tastando la bellezza di quello che è apparentemente un bellissimo sogno ma una lenta litania, un lento agonizzante smembramento dell’anima in cui ci si affatica a ritrovarsi, sempre in questa visione surrealista di cui parlo, in mezzo a piccole incrinature che hanno disgraziatamente sviluppato putredine, miseria, disintegrazione, coalescenza.
Si casca, dunque, a pezzi, perché da ciò che sostenne Nabokov nella prefazione, si trattava del suono di un violino sprigionato nel vuoto e di cui pochi avrebbero compreso effettivamente. Poiché questa è una metafora opaca in cui non sono evidenziati i sentimenti, sebbene la scrittura adoperata sia piuttosto semplice, all’infuori di qualcosa di logico. Assurdo, universale in cui le leggi, la società che detengono un certo potere sono un labirintico mondo senza fine in cui chi legge non riesce a raccapezzarsi a causa dell’atmosfera ovattata, oppressiva, ossessiva in cui siamo immersi, in cui sembra davvero impossibile sostenere uno spazio proprio in un mondo dominato dal controllo totale bolscevichiano.
Ho lasciato che le suole delle mie scarpe si consumassero, nell’andare avanti e indietro ed essere sballottolata da un posto a un altro, da un ricordo a un altro, perché Cincinnatus era quel genere di compagnia che avrebbe richiesto tempo per comprenderlo, non curandosi della possibilità – sarebbe potuto succedere – che io e lui non ci comprendessimo. Non curandosi di nient’altro se non del buon compenso che avrebbe predisposto la conoscenza dell’ora esatta in cui si sarebbe apprestato a valicare i cancelli della morte. Poiché l’esistenza vissuta è così indefinibile, sostanza intangibile in cui il solo rumore udibile è quello dei pensieri che si susseguono l’uno con l’altro. Il mondo assume così aspetti oscuri, indefiniti divenendo sciagura, sgomento, follia, errore, attenzione. L’epoca presente, un’istantanea di fotografie che ritagliano una dovizia di ombre, torrenti di luce, il lucore di una spalla abbronzata, un insolito riflesso, le transizioni fluide da un elemento a un altro. Forse il frutto di un’arte nuova il cui mondo avrebbe assunto aspetti, contorni netti, sinuosi, umidi e rapidi?
Di Vladimir Nabokov fortunatamente ho ancora tanto da leggere, poiché questo viaggio – così come qualche anno fa accadde con Lolita -, si rivelò bellissimo, profondo, indimenticabile, nonostante abbia sedimentato nei meandri della mia coscienza con una patina appiccicosa di rammarico e sofferenza. La ricerca del Sé, della propria identità esigono qualcosa di meno semplice e prosaico delle tante parole adoperate, sebbene ci sia spesso ritrovati in bilico fra sogno e realtà, motivo per me di grande fascino, ammaliamento, semplicemente perché mettono in rassegna qualcosa ma anche perché donano vita a qualcosa che sta lentamente per appassirsi. E sono consapevole della potenza che celano certe parole, soprattutto quando comprendono romanzi apparentemente semplici ma che sono sbocchi nell’anima. E che dispiacere quando, sin dall’inizio, compresi che a Cincinnatus sarebbe spettata la morte, qualunque cosa, qualunque tentativo avrebbe compiuto. Un bellissimo sogno divenuto poi incubo, così fulgido in confronto al mondo spento di pandemie e annientamenti vari, tanto più prezioso di quel che credevo possibile.
 

Mi vergogno, la mia anima si è coperta di vergogna – questo non avrebbe dovuto accadere: solo sulla corteccia della lingua russa poteva germogliare una simile colonia fungiforme di verbi – ah, come mi vergogno che la mia attenzione sia catturata, la mia anima sia bloccata da questi concitati dettagli che si fanno largo, per dire addio, ricordi di ogni sorta vengono a dire addio…

 

Valutazione d’inchiostro: 5

2 commenti: