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lunedì, ottobre 07, 2024

Sette libri in sette giorni: 8°

 Quello di pormi delle sfide, leggere una miscela disomogenea di romanzi che avrebbero non solo reso entusiasmanti giornate ordinarie e monotone quanto smaltire la mia lunghissima TBR, è una buona opportunità per comprendere e scoprire nuovi autori, nuove discipline impartite dalla lettura di testi apparentemente semplici, ma anche risposta a quel naturale desiderio di saziare quella sete insaziabile di sapere che generalmente si trascina e mi trascina in ogni dove. Non compaiono spesso questa tipologia di sfide in questo salotto virtuale sebbene di sfide io ne abbracci a bizzeffe, ma le ferie hanno funto da espediente per incontrare quegli spiriti che mi si sono attorniati, mi hanno preso per mano e condotta in luoghi in cui non credevo poter vivere. Vedere con i miei occhi. In una settimana ho così visto spiriti di tutti i tipi, fantasmi di vecchie dai capelli bianchi e lunghissimi, animali o creature marine che a volte hanno invaso i corpi di pescatori quanto fuori da barche gigantesche, ho visto tante cose strane e ne sono uscita a bocca aperta. Nella maggior parte dei casi contenta, entusiasta e sbalordita di aver visto tutto questo, incurante di ciò che mi avrebbero riservato. E ora che ogni cosa si era conclusa, ora che posso finalmente parlarvene mi domando se a modo mio sia stata fortunata a leggere questi testi in questo periodo….Lo sono stata, una lettura più bella dell’altra a eccezione di qualcuna che vedrete posta qui, come un punto interrogativo alla fine di una domanda, e nell’insieme svolgendo quelle funzioni che hanno avuto voce mediante una logica diversa da quella che avevo previsto.


Titolo: Tata Matilda

Autore: Christianna Brand

Casa editrice: San Paolo Edizioni

Prezzo: 8, 5o €

N° di pagine: 160

Trama: Inizia così Tata Matilda, il primo libro della trilogia di Christianna Brand, la storia di una incredibile tata che usa la magia per tenere a bada i tremendi bambini che le sono affidati e per cambiare la loro vita per sempre. Quando Tata Matilda apparve per la prima volta, più di quarant'anni fa, affascinò i lettori di tutte le età. Viene oggi riproposto alle nuove generazioni in edizione economica. Christianna Brand (pseudonimo di Mary Christianna Lewis, nota anche come China Thomson e Mary Ann Ashe,1907-1985 o 1988) è nata a Malaya e ha trascorso l'infanzia in India. Ha ricevuto la sua educazione in un convento francescano che ha dovuto abbandonare nell'adolescenza per motivi economici. Prima di dedicarsi alla scrittura ha svolto diversi lavori, come modella, ballerina, commessa di negozio e governante. Il suo primo romanzo, Death in High Heels, fu pubblicato nel 1941. Un anno dopo debuttò con il suo personaggio più famoso, l'ispettore Cockrill della Polizia della contea del Kent, nel romanzo Heads You Lose. L'ispettore apparirà in sette dei suoi romanzi polizieschi. Il personaggio di Tata Matilda è ripreso in due romanzi successivi, Nurse Matilda Goes to Town (1967) e Nurse Matilda Goes to Hospital (1975).

La recensione:

Da quando la Walt Disney ci fece conoscere Mary Poppins, ci fece scoprire il segreto dietro la parola disciplina, diligenza, rispetto, si scoprirono nuove modalità di approcciarsi al prossimo. C’erano superstiti, bambini ribelli i cui genitori spaventosamente spaventati concepivano oramai come casi persi quei figli che non sarebbero mai più stati educati a dovere, avrebbero dovuto poi pentirsi e dire << per favore >> nel momento più appropriato. Altri avrebbero dovuto sedere composti a tavola, o lavarsi le mani prima di consumare i pasti perché i genitori non obbligano quanto educano a comportarsi in un certo modo. Adottare un certo comportamento soprattutto in relazione con la società per mettere alla prova chi si sarebbe rivelato vittima o carnefice di un meccanismo anarchico che avrebbe influito sul mercato reazionario di molti. Anche ai tempi di Mary Poppins, quello in cui concise la nascita del suffragio femminile, ebbe e svolse un certo ruolo per tutti i dogmi o paradigmi del passato e chi avrebbe adottato una condotta ligia e rispettosa ai doveri avrebbe trovato buoni riscontri.

Dovunque ci si voltava, le istitutrici, le governati, le tate divennero nuove figure, in alcuni casi facilmente sostituibili alla figura del genitore, e quelli che non sarebbero riusciti a domare i propri figli avrebbero visto il loro mondo rovesciato, portato in mezzo a un dirupo e scomparire dinanzi ai loro occhi sbalorditi. Mary Poppins avrebbe istigato e usato metodi che avrebbero messo alla prova i fanciulli e decidere come e perché educarli, nel momento più opportuno.

Da allora, la figura della tata non fu più la stessa; le tracce di un tipo di educazione impartita da sconosciute e che ai più piccoli genera disagio era dovunque, e l’invisibile carica di dolore, sofferenza a sopportare qualcosa che era pressochè intollerabile si accumulava riempiendo l’aria, appesantendo ogni silenzio e rendendo inevitabile l’evitabile. Come l’autrice di Mary Poppins, anche tante altre scrittrici dopo di lei,fecero di queste tate delle figure esemplari per far sentire la loro voce, impartire un certo tipo di educazione la cui natura era strettamente legata a quella dei sogni. Alla natura innocente di giovani perlopiù vivaci e non malvagi, quanto desiderosi di attenzioni.

Con Tata Matilda non mancheranno i convenevoli, difficoltoso qualunque tentativo di spendere non più di qualche parola, pronta a correre lungo una strada che era invasa da sette bambini ribelli e scalmanati. Arrivò  quando meno me lo aspettavo, proprio mentre stava per concludersi una settimana di puro relax, partecipai alla lettura condivisa indotta su Facebook con un certo fervore, una cosa più intensa di quel che credevo e raccolto un tempo ideale per volare nella Londra vittoriana di fine ottocento, stavolta senza dubbi o perplessità accolsi la storia di Christianna Brand vedendo e associando mentalmente le diapositive del film. Il film con Emma Thompson, alla pari della Andrews, invitava  a guardarci dentro e riconoscere come, sebbene siamo individui estremamente diversi fra noi, siamo masse finite in un universo infinito, e dunque, nel primo capitolo, tra la presentazione dei bambini e l’avvento di questo << ciclone tata >>, mi rallegrai nel pensare o nel credere di poter abbracciare le medesime sensazioni riscontrate col film. Senza capire il vero significato di questi miei sentimenti, né perché le mie aspettative fossero così alte, sebbene mi sia sentita coinvolta in una storia non propriamente sconosciuta, conferito nel poter innamorarmi anche del personaggio letterario. Le vicende ritratte dalla  Brand non espugnano niente di particolare o impressionistico da esigere qualcosa di più di un semplice ritratto di una istitutrice, figura sospesa tra sogni, fiabe, filastrocche e fantasie basati su principi piuttosto solidi, ed io ho avuto la possibilità di riconoscere la medesima persona che aveva impersonato la Thompson nel 2005 riconoscendone il legame. Non discostandosi, nemmeno di poco,  dalla donna vanesia ma comprensibile e coinvolgente che conobbi. Le pagine di questo romanzo, infatti, mi hanno permesso di vedere scenari che ebbi già visto, dare maggior spessore a personaggi o situazioni nel film accennate, trascinando  lungo un viaggio mozzafiato e brillante, dovuto dal  simbolismo che si cela dietro alla figura di Tata Matilda: le istitutrici erano le migliori medicine possibili per famiglie che non hanno tempo o intenzione di badare ai propri figli. E, pur quanto indomabili o dai modi animaleschi, sottomessi al volere di una donna potenzialmente enigmatica e magnetica.

La sera in cui accadde tutto questo, la brutta Tata Matilda venne a trovarmi fiera e orgogliosa della sua presenza. Una manciata di pagine hanno reso solido l'antico rito affettivo, solidale, commemorativo che mi trincerarono, come molti altri, dietro un mondo appartato, accogliente, magico, nel quale avrei voluto viverci. Pur quanto semplice, carino, ma freddo e altezzoso, il mio cuore non ha potuto vivere più di qualche giorno circoscritto fra i meandri di un tesoro nascosto che scintillerà solo per qualche ora Sembra una soluzione o una frase fatta ma la sua lettura è stata fin troppo breve, veloce. Lo suggello con la consapevolezza che mi ha fatta sentire un po’ frustrata per non aver visto ciò che già sapevo, ma, dal punto di visto emotivo o letterario, inconsciamente e resistente ai dogmi imposti dalla società, stranamente confortata dall ostruzionismo di una neo mamma, segno che forse il profeta del profitto è capace di contenere nel palmo della sua mano sentimenti normali e umani sia perché si impara ad amare chi ci dedica del tempo sia per il valore che attribuiamo a certe cose.

Tata Matilda fu scritto con uno stile spiritoso che consente al lettore di vedere e capire l’assurdità del comportamento umano senza mai compromettere la serietà della trama, quando evidenziare come il mondo concreto è solo un’illusione e il male fisico e morale deve essere combattuto con la forza della mente e della preghiera.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: La ballata del caffè triste

Autore: Carson McCulllers

Casa editrice: Einaudi

Prezzo: 13 €

N° di pagine: 155
Trama: In uno sperduto villaggio del profondo Sud degli Stati Uniti, Miss Amelia, una donna matura e indipendente, dai tratti spigolosi e mascolini, si guadagna da vivere con il suo emporio ma soprattutto producendo e vendendo liquore di contrabbando. La sua esistenza cambia con l'arrivo del cugino Lymon, un nano capace di ingraziarsi l'intero paese, e di convincere Amelia a trasformare l'emporio in uno scalcinato caffè, punto di ritrovo per la comunità. La felicità di Amelia è però di breve durata: il ritorno dell'ex marito Marvin, cacciato di casa per ragioni non chiare la prima notte di nozze, e ora appena uscito di prigione, innesca una spirale di conflitti e violenze che cambierà la vita della donna e dello stesso villaggio.

La recensione:

Non ho mai potuto celare o nascondere per l’America quella ammirazione, quel fascino che solitamente mi ispira ogni qualvolta vi faccio ritorno. Mi è sempre sembrato di vivere un’avventura affascinante, eccessivamente immersiva anche se remota, lontana anni e anni di distanza, per niente interessata a nascondere nulla di chè quanto mostrarsi per com’è, con quello sfondo rurale, giallognolo, per le sue storie di vita quotidiana.

Era stato così, per caso - davvero è stato per caso?!? -, quando incontrai John Steinbeck, che su un carretto non propriamente stabile e rumoroso già prossimo ad un giro di paese, si inoltrava cautamente lungo una strada che avrebbe coinvolto alla dimora di qualche famiglia più vicina, cercando a tentoni quel poco ed indispensabile per sopravvivere. Storie che pullulano di vita stessa e che altri non sono che proiezioni di un mondo desolato e rovente descritto con una sequenza di negazioni e sottrazioni.

Fu così, quindi, con grande piacere ed emozione, fatta di sorpresa ma anche di inquietudine, come sempre dinanzi alla conoscenza di qualcosa o qualcuno di cui non si ha un’idea chiara, che poi, durante una settimana di ferie, sdraiata comodamente su una sdraio a crogiolarmi al sole, aprii una finestra virtuale su un mondo che aveva le medesime fattezze dell’America descritta da John Steinbeck e mi resi conto che questa volta non stavo leggendo un suo libro bensì quello di una sua concittadina che descrisse…. esattamente quelli stessi viaggi, fatti dall’autore americano, nei primi anni 50.

Il libro, esile ma palpitante di emozioni, mi catapultò dinanzi a una realtà in cui feci subito come mia e da cui avvertì il bruciore di emozioni e sentimenti iperrealistici, ossessivi, consumati dalla vita stessa, la vita di ognuno di noi, sempre pronta a regalarci un’emozione dietro l’altra. Ma aspri, amari, persino imbevibili come il caffè ma digeribile se addolciti da qualcosa. Questo piccolo libro raccontava la vita stessa, quella dell’autrice e dei suoi compaesani, il cui valore e la sua qualità sono determinati dai sentimenti che si riversano in chi ama, sa amare e ricambiare.

Era uno strano sentimento, questo, ma era il mio! E la vita, seppur amara come il caffè, sa anche essere dolce, ma da cui non deriva la felicità - così occasionale e facilmente innegabile nella solitudine e nella diffidenza -, quanto la consapevolezza umana. Siamo tutti figli di uno stesso Dio e pur quanto tentiamo di scovare la felicità, in un universo sommerso dalla sofferenza, essa è effimera ma raggiungibile nella bellezza di certi attimi, momenti che bisogna assaporare, gustare come un buon caffè, saggiare il suo effetto scivolando nell'insoddisfazione, nella tristezza, nell’impasse ma anche spettatori di variazioni di luce. Luce e oscurità. Tenebre e ombra, perché solo grazie alle anime che si attorniano in questo universo, la sua autrice dona una visione più precisa, più chiara. Mediante il coinvolgimento della massa, l’allegria percepibile, la realtà ci scivola addosso coinvolgendo emotivamente, generando sintomi e dettagli di cui il lettore se ne appropria, esplorando ogni cosa con precisione e realismo in svariate zone di transizione umana.

Quanto a parlare di storia americana, popolani, contadini, e dar loro un’identità più definita e mai influenzata da elementi artificiosi bensì da un secolo di vita a fianco di fazioni e leggi vari, John Steinbeck scrisse secondo me dei veri e propri capolavori. Non alla pari ma molto vicina, Carson McCullers, ricorrendo a nient’altro che al ritrarre quella fetta di società, quella cerchia di popolazione che strizza l’occhio alla storia dell’America, ritrae la storia di tutti, simbolo dell’anima umana. Per una come me, che ama la letteratura con la L maiuscola, gli elementi che caratterizzano questa bellissima Valle furono sorprendenti. A parte la magnificenza del paesaggio, questo luogo dimenticato persino da Dio e l’introduzione di una ragazza che l’autrice mi aveva invitata a comprendere, aveva una specie di magnetismo che non ha un inizio né una fine, in quanto inizia dal niente e finisce come suggellando l’impossibilità di cambiamento, l’immobilità del Sud, e il cui occhio attento dell’autrice fa vece nel controllare il comportamento del prossimo. Disamina discutibile – o forse no – di ciò che potesse essere accettato o << bevuto>>  o su come un buon elemento non potesse mutare in qualcosa di assolutamente insopportabile.

Così come con i romanzi di Steinbeck, questa Ballata del caffè triste è divenuta parte di me. Convissi con persone fatte esclusivamente di carta e inchiostro che nel giro di qualche pagina erano divenute persone, più intimamente di quanto mi sarei aspettata. Tanti cambiamenti, tante sorprese, tante angoscianti situazioni, opera che ho accolto nel mio cantuccio personale quasi inconsapevolmente. Proiettato in un mondo attrezzato e completo di amicizie create, inimicizie sancite, provato da spacconi, codardi, uomini umili e cordiali in cui il grembo familiare è l’unico luogo in cui rifugiarsi nel momento in cui la riservatezza, il diritto di far sentire la propria voce, violano la nostra sfera personale.

Uscire da tutto questo è stato difficilissimo. Una volta entrata fu piuttosto arduo tornare alla vita di tutti i giorni. Non potevo chiedere di meglio. Poiché questo spaccato di vita espugnava tematiche attualissime che si mantiene nel tempo poiché è insidiato nella modernità, nell’inospitalità di un luogo nel quale i conflitti dell'anima non si ricompongono. Ma ci si orienta nel mondo affinchè la realtà la comprenderemo maggiormente. Perché il dovere dello scrittore è di essere ovunque e di saper raccontare. In una visione priva di fronzoli, franca, fondamentalista dell’America, invito al mondo poiché fonte inesauribile di riflessioni e meraviglia. Testimonianza diretta, quasi ricordo pescato dalla nostra coscienza, di un paese che lentamente si avviò lungo la distruzione,  e a cui si lasciano andare, inevitabilmente. Consapevoli di non poter mutare gli eventi. Figure cresciute nel grigiore, nel terrore in cui la vita è ammantata di polverose ragnatele, i giorni si susseguono di sordi dolori e insoddisfazioni. Una certa prosperità per il futuro, ma un luogo in cui il passato non ha perso la sua dolcezza e la sua linfa.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Il diavolo in corpo

Autore: Raymond Radiguet

Casa editrice: Feltrinelli

Prezzo: 9 €

N° di pagine: 160

Trama: Scritto dal giovanissimo diciottenne Radiguet e pubblicato due anni prima della sua morte, "Il diavolo in corpo" narra la storia, in parte autobiografica, di un adolescente che scopre l’amore. Ambientato ai tempi della prima guerra mondiale, ha per protagonista un ragazzo che diventa l’amante di una giovane donna, Marthe, poco più grande di lui, promessa sposa di un soldato al fronte, Jacques. È un’iniziazione sentimentale e sessuale febbrile e perturbante, dall’esito tragico. Una passione sondata con sguardo penetrante dall’autore, che scandaglia i contraddittori impulsi dell’adolescenza di fronte al sesso e alla responsabilità dell’età adulta. Il romanzo, che fece scandalo alla sua uscita, ebbe un clamoroso successo come prototipo del bestseller erotico. Diventato un classico della letteratura francese d’inizio Novecento, è stato portato anche sul grande schermo nel film di Claude Autant-Lara con Gérard Philipe (1947) e ha ispirato in misura più libera quello di Marco Bellocchio del 1986.

La recensione:

Vita e morte. Amore e sesso. Non c’è poi così tanta differenza, no? Cosa ci impartiscono certe letture? Non è tempo di prendere nuove consapevolezze, andare oltre? Non è tempo di dare una nuova voce a chi ha dato fin troppo credito a certe cose, che sono state ingurgitate e divorate fin troppo frettolosamente? Da un pò, da quanto tempo leggo ma con altri occhi, sollevo queste domande, interrogo la mia anima confidando di scovare presto una spiegazione e quando ciò avviene, nel mio santuario magico in mezzo a gruppi di anime che mi circondano, è un ottima occasione per riflettere. In un certo senso, questa è la magia insita dei libri. Leggo non solo perchè mi piace farlo o perchè senza non potrei vivere. Leggo perché mi piace acculturarmi, informarmi, sapere, e quando nella mia testa vorticano innumerevoli domande, come il fumo che circonda il capo di certi personaggi nei cartoni animati, in cuor mio so che il domandarsi è motivo di conoscenza. Da un quarto di vita, la mia vita, sto in mezzo ai libri, col naso sempre immerso in una storia, e tutto quello che mi spinge a fare, a credere, a scrivere dipende dalle storie che vivo. Dalle sensazioni o emozioni che esse trasmettono. Leggere diviene, giorno dopo giorno, occasione per raccontarsi, esprimersi, guardarsi dentro e quel tesoro di diversità che mi attrae sempre non scompare lentamente quanto sfolgora luminoso come una bellissima stella.

Non si può riassumere in parole ciò che provo. Posso solo dare un’idea, ma con i libri, certe storie in particolare, mi ritrovo a pensarci. Voglio dire, se non le avessi lette, adesso non sarei qui, a riporre il mio pensiero, nero su bianco, a soggiogare il mio spirito con forze che fanno da quadrato alla materia di ogni cosa, facendomi giungere così alla conclusione che da un testo, da un racconto c’è sempre qualcosa da raccontare. Qualcosa da imparare, di nutrirsi.

Nel tempo la mia coscienza, che si bea di queste cose, è mutata. Nella scelta delle mie letture tento quasi sempre di essere ponderata, di non leggere semplicemente per il gusto di farlo quanto per acculturarmi, come dicevo. Ma ci sono però ancora tante letture il cui fascino mi è sconosciuto, incuneato in luoghi in cui non avevo mai visitato o visto, divenendo nell’insieme un agglomerato di cemento. La modernità cozza con il passato perché è nel passato che posso scovare quelle risposte a quelle domande che spesso mi pongo e accelerato i miei progetti di studio, che è puramente personale, dilettevole e non universitario, che concerne i miei ritmi di vita.

Questa volta, tornai da poco da un luogo in cui vi misi piede esclusivamente per caso. Era relegato su uno scaffale di una libreria virtuale, ma non aveva ancora visto la luce se non durante una settimana di ferie, che potei trascorrerla al mare, lontana dalla frenesia lavorativa, con un filo rosso fra le mani di cui però non avevo alcun controllo. Un filo con cui il suo autore aveva intessuto una trama in cui era possibile scorgere una certa regressione nostalgica e che accennava a un malanno, quello dell’anima, e di una sorta di cura da cui sarebbero dipese tante cose. Forse parlare di cura, nel romanzo di Radiguet, il cui unico desiderio fu quello di raggiungere un luogo specifico, quello della sua infanzia i cui sogni o ricordi divennero sacrificali, è un parolone. Mi sono diretta da lui, proveniente dal santuario della mia casa, riversa in tutto questo con un unico forte senso di immobilità. Così morta, silenziosa. La vita era racchiusa in un dominio culturale di cui però si tenta di afferrare, ma invano, distruttivo ma derivazione di una visione allucinante e allucinogena che solo in parte sfugge ad una visione lucida, aspra, angosciosa. Sarebbe sembrato impossibile scovare una cura, ma era essa stessa che coincideva con la possibilità di un risveglio. Intorpidimento delle nostre fragili membra, nel momento in cui gli spettri si sarebbero dissolti. Come? Aprendo gli occhi e le orecchie.

Un certo rammarico, un effetto irruento che però travolge lentamente in cui si è impossibilitati a fare alcunché poiché è la stessa natura ad essere devastante, gigante, indomita, a nascondersi in forme oscure da cui dipenderà la nostra intera esistenza, la mia, quella del protagonista, e quella di chi lo circondò, che sfugge al controllo dell’essere umano perchè esso è dominato dallo stesso. Ed ecco che ciò che ci era sembrato un sogno diviene un incubo, un incubo ad occhi aperti perché impossibilitati a camuffare ogni orrore, ogni bruttura, nella continua perdita dei sensi ma così autentico in cui la conquista di una donna già sposata segna la condizione umana.

Immaginazione o fantasia? Un tempo, più che due entità nettamente separate erano state due diverse visioni di vita: una fondata  sull’esplorazione del mondo interiore con poco o nessun riguardo per quello esterno, l’altra diretta al dominio del mondo fuori ignorando completamente quello dentro. Tutto sommato, Il diavolo in corpo credo si possa riassumere così, mediante questa visione di isolamento dal mondo di fuori in cui si tenta di compensare l’una la visione dell’altra, trascinando in un incubo ma espugnando una visione insoddisfacente della stessa da cui è impossibile non essere travolti. Tentando di salvare l’anima, in una continua perdita dei sensi, che avrebbe dovuto salvare o portando tutto all’aria un importante richiamo del passato: forse quello della stessa anima.

Prodotto culturale la cui visione giovanile è quella di un ragazzo, un ventenne, che all’epoca travolse la Francia, e, successivamente, anche se non subito, pure me, in cui si perde la pace nel perseguimento di un tipo di felicità che tuttavia è illusoria. E dunque vana di essere cercata. Ma a cui ci si aggrappa mediante la fede, le credenze che si ripongono l'insana idea che l’amore è sacrificio ma anche incuneato in forme di dominio che prevalgono sulla stessa, ma che inducono a guardarsi dentro gettando una certa luce sulla ricerca del proprio Io, della propria identità, scandagliando ogni cosa, resuscitando ogni cosa, senso intorpidito.

Confessione sussurrata dalle stanze buie e polverose dell’anima di un uomo, un ragazzo, che procede come un soliloquio e le cui pause scandite hanno la forma di un delirio. Apparentemente cinico ma sognatore, galleggiando in un pozzo oscuro di irrealtà evanescente, desideroso di essere se stesso e non soggiogato dalla natura degli stessi sentimenti. E, vigile e silenzioso, ovattato, semplice e drammatico, proiettato in un teatro di azioni in cui alla fine ci si rende conto di essere a immagine e somiglianza di Dio in cui il bello in tutto ciò sta nei tentativi di comprendere la vita stessa. Allucinante e oscura come questa.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Il settimo giorno

Autore: Yu Hua

Casa editrice: Feltrinelli

Prezzo: 11 €
N° di pagine: 192
Trama: Yang Fei esce di casa una mattina e trova una fitta nebbia mista a una strana neve luminosa: è in ritardo per la sua cremazione. Inizia così il viaggio nell'Aldilà di un uomo vissuto, troppo brevemente, nella Cina del capitalismo socialista e delle sue aberranti contraddizioni. In un'avventura di sette giorni, il protagonista incontrerà persone care smarrite da tempo, imparando nuove cose su di loro e su se stesso. Conoscenti e sconosciuti gli racconteranno poi la propria storia nell'inferno vero, l'Aldiquà: demolizioni forzate, corruzione, tangenti, feti gettati nel fiume come rifiuti, miriadi di poveracci che pullulano in bunker sotterranei come formiche, traffico di organi, consumismo sfrenato... La morte livella le diseguaglianze, svelando l'essenziale, e i cittadini di questa necropoli soave uscita dalla penna di Yu Hua ci insegnano tutta la semplicità dell'amore.

La recensione:

Nel momento preciso in cui ho concluso il romanzo verteva l'idea che quella de Il settimo giorno si trattasse di una storia particolare, non adatta ai cuori caldi e focosi. Bensì a quei lettori che vedono in queste letture profonde riflessioni sul senso della vita, dell'esistenza in generale, non come un semplice problema da risolvere a porte chiuse ma servendosi dell'osservazione attenta e curata di una giovane donna che pian piano scoprirà cosa celino dietro queste pagine, per essere lasciate aperte.

Il mio problema nei riguardi di questa storia però riguarda la sua anima, per non parlare dello stesso protagonista, che si era accorto benissimo come io lo trattassi con indifferenza ma non per questo che mi risultasse antipatico. Fu un estraneo, uno sconosciuto per tutta la durata della mia permanenza e spettava a lui dimostrare che se io ero giunta qui era perché di lui e della sua storia avevo nutrito un certo interesse, anziché uscirne illesa e priva di qualcosa. So per certo che col tempo dimenticherò ogni cosa; ogni frase, gesto o parola evaporeranno nell'atmosfera come fiati di vapore. E nonostante avrei potuto abituarmi alla storia, questo mio atteggiamento di indifferenza pareva accrescere con sospettata velocità. E un bel pomeriggio di agosto inoltrato, la mia anima di lettrice lo aveva interpretato come una lettura un pò tediosa. Vi ho visto - almeno questa è la mia personalissima opinione - un uomo solo e indifeso che anziché reagire agli incauti assalti esterni si nasconde dietro una corazza di marzapane e di insicurezze. Questo personaggio potrà mai essere ricordato da me a lungo? Non credo proprio!

Un antico proverbio cinese dice che le apparenze hanno sempre il potere di colpire al primo sguardo. Immagini che galleggiano nella piscina della vita, ingannevoli e illusorie; sfondi sul mondo che offrono allo sguardo uno sfavillante spettacolo di luci e colori. Il settimo giorno rientra nella categoria di quei romanzi che non possiedono quella particolare magia di quando si è soggiogati al punto di non riuscire a distinguere la realtà dalla finzione. Immagini sublimi o incrinature che non riescono a descrivere la qualità della storia.

Dramma esistenziale in cui può rispecchiarsi chiunque, quello della vita dinanzi alla morte, primo approccio con l’autore tentativo di letteratura in cui io ho fatto fatica a riconoscere la sua importanza o validità. Del resto, romanzi come quelli di Murakami Haruki o di Banana Yashimoto parlano sapientemente dei sentimenti che imperversano l'animo umano e evidenziano con una certa importanza il tema dell'esistenza in ogni sua forma o prospettiva. Si riconosce quell'unico elemento primordiale che ti indirizza a trovare un senso a qualunque cosa, disegna la sua orbita, e lascia un segno nel cuore. Il romanzo di questo prolifico autore, invece, lascia piuttosto freddi, distaccati, a causa degli stessi personaggi che non sono riusciti a confidarsi come se stessero confidandosi con un amico fidato. Un frammento di vita che cammina perennemente lungo la via dell'insoddisfazione, della tristezza, che non ha potuto non impedire il trasporto emotivo che la frigidezza di questa storia possiede.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Piccole cose da nulla

Autore: Claire Keegan

Casa editrice: Einaudi

Prezzo: 13 €
N° di pagine: 104
Trama: Sono giorni che Bill Furlong gira per fattorie e villaggi con il camion carico di legna, torba e carbone. Nessuno vuole restare al freddo la settimana di Natale. Sotto la neve che continua a scendere, tutto va come sempre in quel pezzo d'Irlanda. Poi, nel cortile silenzioso di un convento, Bill fa un incontro che smuove la sua anima e i suoi ricordi. Lasciar correre, girarsi dall'altra parte, sarebbe la scelta più semplice, di certo la più comoda. Ma forse, per Bill Furlong, è arrivato il momento di ascoltare il proprio cuore. «Mentre proseguivano e incontravano altre persone che conosceva e non conosceva, si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l'uno con l'altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com'erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?».

La recensione:

Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a  dirsi cristiani, guardarsi allo specchio?

La cosa che colpisce, quando ci si imbatte nella lettura di questa tipologia di romanzi, è sicuramente il loro messaggio. Da lontano, da un primo sguardo, cioè, pensavo si trattasse semplicemente di un buon modo per abbracciare la vita diversamente: non accontentandosi quanto comprendendo a fondo, ringraziando Dio, giorno dopo giorno, per ciò che ci è dato. E quando vidi tutto questo racchiuso in un libriccino piccolo, tentennare lentamente in un vasto cosmo di altre creature, altre figure celestiali, piccolo essere che mutò in qualcosa di straordinario, mi resi conto che il suo essere apparentemente innocuo fosse sinonimo di appartenenza. Chi legge raggiunge il cuore di un piccolo paesino ma anche dei personaggi ed ogni remora, ogni incertezza svanisce.

Claire Keegan firma un esordio in cui è evidente il suo sentirsi desiderosa di riversare, in quel contenitore imperfetto che è la scrittura, quel senso di sconforto che generalmente la vita ci pone dinanzi, in un determinato contesto ma anche una certa riflessione sulla bellezza della vita, traendo da essa ogni cosa, qualunque positività poichè dominata dalla natura, così inafferrabile e distruttiva.

La meta di un viaggio che si fa per la prima volta è sempre una sorpresa, e leggere questo testo, così smilzo e innocuo, fu una grande sorpresa per me. Ero giunta in un piccolo paesino dell’America e nel cuore dei suoi abitanti con nient’altro un bloc notes e una penna alla mano, ma consapevole che la vita che respirava al suo interno divenisse sempre più intensa nel momento in cui si tenta di sfuggire ai piccoli mali subiti. Incuneati nel nostro cuore, nella nostra coscienza perché vigili non solo negli occhi ma anche nel cuore.

E dunque? Perchè tanto fascino, tanto ammaliamento per un piccolo borgo che, nel giro di qualche ora, avrei dovuto salutare. Congedarmi mentre i suoi abitanti mi guardavano come se fossi un’apparizione. Forse così è stato, dato che niente e nessuno mi aveva raccomandato nè mi chiesero da dove provenissi, ma la mia presenza dipendeva dalla principale ragione per cui l’anima avrebbe potuto sottrarsi dall’impossibilità di scovare uno squarcio di speranza, immersi in una realtà trascendentale. Rinunciando ad essa, voltandogli le spalle non essendo perdenti quanto sapendo destreggiare al momento giusto.

Un esordio che è una sferzata di aria fresca, un testo celebre di cui io però non conoscevo nemmeno l’esistenza che ha alimentato in me una certa forza, infondato speranza, quella speranza che alberga già e che induce ad osservare questa landa desolata a nascondersi nella bellezza delle piccole cose da cui dipende la nostra esistenza. Bellezza e bruttezza dinanzi agli occhi del mondo che invita a lasciarsi andare e combattere. Reagendo, valutando ogni cosa in un teatro di azioni che si rifanno a quelle intrappolate nei conventi irlandesi, fra carcasse, rimasugli, piccole cose che rappresentano un’intera esistenza. Gettare una piccola luce affinché la felicità ci sia data o donata è qualcosa di estremamente degno della tradizione religiosa poiché genera riflessione, la singolarità di ogni individuo valorizzata nella continuità umana. La vita diviene così compito affidatoci e a cui dobbiamo promettere di assolvere poichè è la vita sa donarci certe occasione.

Scorrevole e asciutto in cui la lettura della vita è proiettata dalla possibilità di saper sopravvivere, la natura diviene spettatrice, protagonista del caos fantasmagorico della stessa e dei suoi irrimediabili eventi che aiutano a comprendere la sua essenza. La felicità raggiungibile solo mediante il richiamo della stessa, mediante ragione ma anche verità che possiamo cogliere attraverso un processo di armonia, di coesione fra uomo e anima, uomo e natura.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Bruciante segreto

Autore: Stefan Zweig

Casa editrice: Garzanti

Prezzo: 9 €
N° di pagine: 112
Trama: È difficile essere bambini: lo sa bene Edgar, inquieto dodicenne smanioso di lasciarsi alle spalle l'infanzia. Non può dunque che sentirsi lusingato dell'amicizia che, durante una villeggiatura sulle montagne austriache, gli riserva un giovane barone. Con l'ardore e l'ingenuità dei suoi anni, il ragazzino coltiva l'illusione di essere ormai a un passo dal misterioso e inaccessibile mondo dei grandi. Ma ben presto scoprirà che il presunto amico è solo un avventuriero senza scrupoli che si è servito di lui per un gioco di seduzione e che gli adulti sono disposti a mentire per nascondere il loro «bruciante segreto», un segreto di cui Edgar è ormai depositario e che custodirà per sempre nel suo cuore. Con garbo e delicatezza Zweig disegna in questo racconto pubblicato nel 1911 la parabola emotiva del protagonista - dalla fiducia al sospetto, dalla gelosia all'odio, dal disinganno alla complicità - tratteggiando con la consueta maestria il passaggio dall'infanzia all'adolescenza nel quale Edgar ha perso l'innocenza ma ha ricevuto la prima lezione sulla vita e sull'amore.

La recensione:

Avevo tanto snobbato questo testo, con quella sua aura pregna di mistero con il suo << io >> continuamente in bilico fra vita e morte, giusto e sbagliato legato a ciò che sta scritto nella parabola della Vita. Legata alla presenza di ciò che respirava in questo testo, una vita umana il cui ardore cozza con lo spirito sacrificabile e sacrificante, all’essenza delle cose o ai segreti che sono insiti nel cuore umano.

L'identità, in questi casi, quasi compagna delicata, richiede manutenzione, attenzione, doveva essere qualcosa di lucido, a cui bisognava cambiare l’olio. Dell’identità di qualcuno si possono comprendere tante cose: il portamento, le gestualità, il pensiero. Nel mio caso, tento di comprendere il portamento degli autori che leggo mediante la lettura dei suoi figli di carta, incontro o scontro che se poi si rivela fatale diviene espediente per dare inizio a qualcosa. Una conoscenza che perpetuerà negli anni, o anche solo puro ammaliamento.

Vale il primo approccio, il primo incontro, e quel dovere di dover essere all’altezza o capaci di interpretare o capire ciò che ci viene dato o trasmesso. Il tutto per mantenere un contatto. Un legame che nel tempo potrebbe solidificarsi, o, a seconda dei casi, frantumarsi. Quante cose dipendono dall’incontro con altre figure, altre forme di vita! Nomi nella mia lista che sono infiniti, risucchiati nel tempo o dalla vita stessa.

Simile a una zavorra butata a mare per affrontare meglio questa prima traversata è stata la lettura di questo testo, racconto che perse alcuni pezzi di un corpo, una massa che ho invece colto e apprezzato ne Il mondo di ieri. Ora io stessa dovetti togliere questi pezzi: non avevano a che fare con le emozioni quanto con l’approssimarsi ad un mondo, all’idea di raggiungere un luogo in cui ci si sente di appartenere e si avverte l’esigenza di scovare qualcosa o qualcuno che faccia brillare la loro anima di una luce tutta loro. Poiché animati dal calore e dall'esperienza del cuore, insufficientemente accecante ai miei occhi, che invece sprofonda nello sconforto. Ci si affanna a scovare una << cura >> che possa salvarci, renderci liberi, quanto siamo intrappolati in una serie di azioni o gesti agitati che vietano la compiacenza, fondando la felicità imprecisata ma illusoria sotto un’altra ottica a dispetto di ciò che avevo immaginato.

Da tanti testi, da tanti autori riconosco quegli atti di ribellione anticonformista in cui ci si lascia completamente andare ad istinti, passioni che si pensava non potessero avere, giungendo alla ricerca costante di ogni forma di verità. Io, in passato, ho creduto a questo e molto altro, ma Bruciante segreto è scevro di questa credenza di cui parlo seppur si tenti di scorgere la faccia, la figura carpito segreti di un bambino e del suo autore che aveva fatto della letteratura massima di vita. 

Il fatto è che per più di qualche minuto, durante il corso della lettura, mi è sembrato di toccare questo testo quando bisognava fare spazio alle brutali vicende che avevano popolato le notti miti di una giovane donna e del suo bambino. Credevo che fosse una relazione madre/figlio come tante altre, ma si limitò a farmi "vedere" il film nefasto della sua vita, a invitarmi a guardarlo come se lo conoscessi da tempo e ringraziarmi del fatto che avessi deciso di condividere questa storia. Edgar era quello inquieto dodicenne smanioso di lasciarsi alle spalle l'infanzia

Bruciante segreto ha il dono dell'eleganza. Non mi riferisco alla copertina con cui sono rivestite queste pagine, bensì dai suoi modi, dalla maniera in cui mi si è rivolto, di come mi ha narrato il segreto che celavano le stanze remote dell'anima di Edgar. Era quello che gli enfatici studiosi di letteratura inglese chiamano rara avis. E poi era una storia semplice, venata di romanticismo e mistero, che mi ha regalato delle piacevolissime ore in sua compagnia senza che io glieli chiedessi e senza attendersi nulla in cambio. In realtà, fu lui, Edgar, a scegliermi di condurmi fra le sue pagine e grazie all’ennesima sfida di lettura attraverso cui riesco a fuggire dalla monotonia del giorno. A quel punto, quello che sarebbe accaduto non avrebbe più potuto farmi tornare indietro. Non mi è mai piaciuto farlo e per me questa era l'unica occasione per esplorare e conoscere nuovi "posti". Questo libro pregno di mistero e segreti era l'elemento primordiale dell'intera vicenda. E via via che le pagine scivolavano nel palmo delle mie mani, scoprii come Zweig scrive bene ma non stava conquistandomi. Abile cantastorie, superstite della seconda guerra mondiale in cerca di quella storia che facesse al caso suo o per fuggire da se stessa. In questi tempi nefasti, mendicando a chiosa nel torbido mercato editoriale che si ampliava ogni giorno all'ombra della letteratura e della guerra. La notizia del suo figlio di carta era giunta persino fino a me, e quando vidi la copertina avevo deciso che nel momento perfetto mi sarei immersa anch'io in questo strano letargo di timori e scaramucce letterarie.

L'anima del romanzo era una sola: esaltando i romanzi, chi li scrive, è superiore in ogni imperfezione grazie  a un indomito lampo di immaginazione. Una gemma di verità pura da avvolgere tra le pagine dei nostri appunti e conservare sulla mensola strapiena di una gigantesca libreria. Non un tipo di comunicazione a me sconosciuto, in quanto da amante della scrittura e della buona letteratura sono consapevole che le parole, se adoperate con maestria, hanno un suono diverso perché accompagnate da una sorta di ronzio musicale - eccitante, avvolgente - che trasforma il valore delle parole stesse. Un ronzio dell'anima che sembra quasi impossibile tradurre in parole.

Quel che mi ha lasciato di sasso è che, seppur non propriamente perfetta né originale o così eclatante come speravo, la storia che l’autore si porta dentro è stata un'esperienza davvero bella ma che non mi ha coinvolto emotivamente. Forse dovuta dalla sua infanzia, dal suo desiderio di scovare quella profondità che la società borghese denunciava esaltando invece la moderazione?

Un disegno  che avrebbe potuto essere accostato al fuoco delle passioni, delle arti purché diventi visibile. Una lettura in cui si avverte il contatto dell'anima di chi l'ha scritto, ma non il suo cuore, ma che sono passate attraverso il mio corpo. 

Una follia, si direbbe…..

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

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Titolo: Come si seducono le donne

Autore: Filippo Tommaso Marinetti

Casa editrice: Bur

Prezzo: 9 €
N° di pagine: 177
Trama: "Ogni donna è un caso speciale o meglio mille casi speciali e diversissimi, secondo i mille casi diversissimi d'amore che le sono offerti dalla vita." Il padre del Futurismo italiano racconta le donne e gli uomini tra seduzioni e velocità, guerra e carezze, machismi d'antan, acrobazie linguistiche. Il tutto basandosi su un'esperienza personale, che è prima di tutto esperienza futurista: quella di un "seduttore-tipo che usa l'automobile, non dispregia la vettura pubblica, impugna la sua celebrità mondiale e la sua forza di bel ragazzo robusto e squisito". Un manualetto divertente di poetica erotica futurista riproposto in una nuova edizione arricchita dal saggio introduttivo di Cecilia Bello Minciacchi. 


La recensione:

Filippo Tommaso Marinetti adottò un metodo di scrittura sofisticato e schietto come regime di lasciare attoniti i suoi lettori, per diverse ore di fila, come se stessero ascoltando da dietro una porta, con un taccuino e una penna in mano, qualcosa di sorprendente e delle volte disponente che tuttavia resterà per sempre legato alla mia anima. Nel bene e nel male, ogni romanzo che leggo, ogni autore che incontro lascia una traccia, un segno del loro passaggio che, nel mentre ripongo poi queste poche righe, mi diverto a scovare.

Sul finire del mese di Agosto, io e Marinetti convenemmo sulla necessità di leggere questa sua  prima opera - prima per me - che, nei casi più gravi, mi avrebbe fatto congratulare sulla natura ambigua di queste storie. Diverse annotazioni sulle prime aumentarono il mio interesse, il mio amore nei riguardi della letteratura in sé, la voglia di fare un tuffo nel passato, ben cento anni fa, muovermi verso una meta sconosciuta. Un isola che aveva le medesime fattezze del luogo in cui sono nata, un paese che pullula vita, accogliente in cui mi ha ricordato il mio continuo vagare senza meta. Era il momento perfetto per conoscere Marinetti; difficile però se soffermarsi a pensare se Come si seducono le donne mi avrebbe donato molto più di una semplice smorfia. Se quello che mi avrebbe riservato si manifestasse prima di quel che pensavo.

Come si seducono le donne è una raccolta di racconti, pensieri ponderati o meno dell’autore nei riguardi del sesso femminile che, disgraziatamente non mi ha indotta a dimenticare si trattassero di personalissime opinioni, forse perchè da donna non ho condiviso certe sue << confessioni >>, nel sopraggiungere qualche incombenza, qualche preoccupazione, inalando il sapore di un qualcosa che ho già avvertito completamente. Questo era di per sé interessante, il non essere contenta ma attratta poiché di questo testo non sapevo ancora niente. Così, armata di penna a sfera e del mio immancabile blocnotes, mi vidi riflessa nello specchio delle anime dei protagonisti, scambiando l'immagine di queste figure con personaggi a cui si va incontro. Lo schianto fu tale che li osservai con un certo interesse, leggendo non tanto per curiosità ma perché Marinetti rompe e tagliuzza in minuscoli pezzettini la figura femminile.

Questa raccolta di racconti si ergeva come un faro solitario all'estremità di un luogo molto tortuoso. Figlio del futurismo e amante della vita e delle belle arti, diario di bordo in cui sono snocciolate quelle esperienze - credo personali - del come sedurre le donne, il loro modo di sprigionare così bene qualcosa che ad alcuni uomini affascina a me ha solo infastidito, fino a quando la mia anima era sparita tra le sue viscere sempre più fitte dalla storia. Si tratta di storie che sono state raccontate quando l'autore era già un uomo maturo, quando di letteratura e scrittura masticava qualcosa, montati su carta mediante pezzi della sua vita.

Eppure, non c'è stato niente di più che abbia potuto considerarlo straordinario. Nei pochi minuti che ho vissuto in sua compagnia, ho imparato tante cose. L'importanza della diversità sessuale, le differenze sociali o etniche, un mucchio di pensieri colti in un momento imprecisato della mia vita che hanno sovrastato la mia coscienza nel momento in cui ho deciso di volgere le spalle a un mondo crudele e ingiusto.

Su un foglio invisibile intrappolato in una finestra virtuale dall'aria luminosa e vaporosa avrei catturato il pensiero astratto di un abile lettore di anime e, mediante scrittura, composto acute e profonde riflessioni sulla vita in generale. sul talento, sulla creatività. Definito a mio avviso come una sorta di "rito di passaggio" in cui sono riportate alcune riflessioni personali, opera che avrebbe potuto essere sofisticata, interessante, colta, ma che non consiglierei spassionatamente. Di romanzi incentrati sulla figura femminile ho letto di meglio, opere in cui risulta ancora una traccia del loro passaggio, e seppure ho imparato fra le sue pagine qualcosa che mi ha aiutato ad accorciare un lungo pomeriggio di fine agosto, mi limito a riporre in questa recensione nient’altro che il suo corpo e non la sua sostanza. Poiché rischierei di essere antipatica, insopportabile, crudele, stanca di sentire di uomini che credono di sedurre quanto inorridire! Perciò ho scomposto questo testo come elementi ordinati di una libreria, sorprendendo persino me stessa di essere così magnanima, metodica e ordinata, nonostante tutto, volgendo però le spalle con la generale tristezza di un << Mai più! Addio! >>, che solitamente non concepisco né tanto meno scrivo queste poche righe.

Violente emozioni che non arrivano o per meglio dire sconvolgono irrimediabilmente, sbiadiscono ogni cosa, riducendosi a vecchi sogni, privi di significato, mediante il frutto di una lettura genuina, ma pretenziosa, che altri non è che una constatazione personale del sesso femminile. 

Valutazione d’inchiostro: 2 e mezzo

2 commenti:

  1. Non ne conosco uno; peccato i voti bassi, ma non può piacere sempre tutto ciò che si legge; grazie mille

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