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giovedì, gennaio 07, 2021

Gocce d'inchiostro: Il priorato dell'albero delle arance - Samantha Shannon

In media, ho procrastinato la lettura di questo romanzo per un anno intero, una storia che con draghi, leggende e rituali vari, da cui non ho mai nutrito alcun fascino - e confermo la mia poca attitudine a questo mondo inesplorato e per me invalicabile, il romanzo di Samanta Shannon così essenzialmente grosso e voluminoso che ha reclamato la mia attenzione sul finire dell’anno -, ebbe sfogo solo durante le vacanze natalizie. Cementò un’amicizia, fra la mia anima e quella del romanzo che si instaurò sin dal principio, raccontando una storia avvincente, ammaliante ma non perfetta, bellissima o indimenticabile da cui però ho appreso molti particolari sui draghi e il mondo recondito di Tolkien: per esempio che i draghi crescono e vivono fra di noi come forme di vita inestimabili, un manipolo di figure le cui vicende si snoderanno in un brillante affresco. Il viaggio infatti è stato assolutamente entusiasmante, e quindi denota un certo apprezzamento nei miei riguardi, ma non così bello come credevo in quanto la scintilla che avrebbe dovuto scoccare non è scoccata. Io, lettrice onnivora di romanzi classici e di narrativa contemporanea, impossibilitata ad instaurare quel legame che molti all’esterno hanno giudicato mozzafiato, pur quanto innovativa, dai forti echi classici, non trascende nulla di essenziale, irrinunciabile da invadere persino le mie viscere. Ci si sente coinvolti perché schiacciati da una realtà che sta sorgendo nel suo splendido fulgore, in cui il fuoco e la luce celeste misurano una serie di equilibri, ma è proprio di equilibrio di cui è povero. L’effetto devastante avrebbe dovuto detenere un certo potere: prevalere su chi è più debole, ma per quanto mi riguarda non è bastato per sentirsi partecipi sino alla fine, trasportata per vie traverse a farmi entrare in un mondo antico, quasi onirico. Eppure è stato piacevole ascoltare la storia che Samanta Shannon si porta dentro e che le ha sottratto tre anni della sua maturità individuale perché alla fine ho goduto tanto a leggerla, a sentirla raccontare, anche se in effetti il problema non sta nel modo per come è stato raccontato ma sui pilastri su cui si regge il tutto. Ma detentore di una fama che non svanisce, ha risentito delle mie spericolate incursioni. Subentrata in un ruolo che era destinato ad essere un’avventura inebriante nelle sue peculiarità discutibili.

 

 

Titolo: Il priorato dell’albero delle arance 
Autore: Samanta Shannon
Casa editrice: Oscar Vault 
Prezzo: 26 €
N° di pagine: 816 
Trama: La casata di Berethnet ha regnato sul Reginato di Inys per mille anni. Ora però sembra destinata a estinguersi: la regina Sabran Nona non si è ancora sposata, ma per proteggere il reame dovrà dare alla luce una figlia, un’erede. I tempi sono difficili, gli assassini si nascondono nell’ombra e i tagliagole inviati a ucciderla da misteriosi nemici si fanno sempre più vicini. A vegliare segretamente su Sabran c’è però Ead Duryan: non appartiene all’ambiente della corte e, anche se è stata istruita per diventare una perfetta dama di compagnia, è in realtà l’adepta di una società segreta e, grazie ai suoi incantesimi, protegge la sovrana. Ma la magia è ufficilamente proibita a Inys. Al di là dell’Abisso, in Oriente, Tanè studia per diventare cavaliere di draghi sin da quando era bambina. Ma ora si trova a dover compiere una scelta che potrebbe cambiare per sempre la sua vita. In tutto ciò, mentre Oriente e Occidente, da tempo divisi, si è ostinato a rifiutare un negoziato, le forze del caos si risvegliano dal loro lungo sonno.

 

La recensione:

Lo vedevo quasi ogni giorno, ma i dettagli della sua intricata trama erano un mistero. Avevo riservato un certo diniego, misto a una buona dose di repulsione, nei riguardi de Il priorato dell’albero delle arance, una serie di eventi in cui i draghi erano i protagonisti indiscussi. Questa mia improvvisa incursione, questa recensione non dice ne toglie niente di nuovo da chi ha già letto il romanzo prima di me, ma è la prova che ogni romanzo ha bisogno del suo momento per raccontarsi, e se questo è stato il momento più propizio ebbene doveva essere così. E le mie occasioni di leggere l’opera omonima di Samantha Shannon, in media una o due in una manciata di mesi, dicevano il contrario, quasi tutte indirizzate sulla lettura di altri romanzi, penso io, dove sorgono quei timori o perplessità di cui faccio quasi sempre cenno, ma d’altronde ora che il romanzo è stato letto, forse stavo cercando il momento giusto purchè mi chiamasse e il destino aveva scelto i primi giorni dell’anno il cui tempo per leggere ne avrei avuto a dismisura. Domande senza risposta, e poiché di draghi, dei romanzi di Tolkien non ho mai letto niente, quantomeno non ciò che ritrae la Shannon, il movente che mi indusse a recarmi in questo bel posto è ancora per me sconosciuto.
Una manciata di giorni dopo, con tante domande senza risposta, quasi sempre con un manipolo di personaggi delineati perfettamente ma dotati di carne e ossa, l’orda di segreti, misteri, avvenimenti fra mondi divergenti e spesso incrociati dall’arte di leggende, rituali che richiamano alla mente gli antichi poemi classici, le tradizioni arturiane, tutti quanti meccanici come se animati esclusivamente grazie all’autrice, ragion per cui ognuno di loro, persino la protagonista mi sono sembrati tutti uguali. Un'unica voce in un canto altisonante, come disgraziatamente mi aspettavo, anche se di questo sospetto non ero sicura, e sebbene la Shannon li delinea magnificamente non trascendono al di là del possibile e necessario. Eppure, in tutto questo, c’è stato il piacere di trovarsi impelagata in una vicenda che era partita col piede giusto, mi aveva imbrigliato in una rete di avvenimenti che mi hanno sedotta nel loro incanto, ma smorzata dal piattume, la monotonia di passaggi secondari che convergono in un epilogo frettoloso, insoddisfacente, quasi banale che non solo non rende più spettacolare ciò che prima avevo definito tale ma rappresentò ai miei occhi l’incarnazione di tutto quel che confidavo di non riscontrare in questa lettura. Ma la presenza dei draghi, gli accenni a Tolkien, che evito come la peste, palazzi sontuosi e lussuosi, regine ansiose e gravide e un’avventura a specchio che rimanda il tintinnio di guerre sopite dal tempo che nemmeno alla fine saranno proclamate, reclute che non tolgono niente a regine coraggiose e avvenenti, particolarmente animato da una folla di figure imbrattate di sangue, combattenti e persecutori di valori in cui la libertà, il rispetto accrebbero il loro grado di appartanenza.
Molte scene dunque ma niente di così memorabile da discostarlo da altri romanzi del genere, precluso però nell’esaltazione di valori che si credevano perduti, e oltre a tali valori niente contatti fisici, legami insondabili all’infuori di lotte perpetue per la sopravvivenza. Ho rivisto Il priorato dell’albero delle arance sotto una nuova prospettiva, in un ottica che rincasa doti in cui il predominio non è arrestato da niente in particolare. A dispetto della prima parte, che era partita bene e creò sentimenti di fascino, le parti successive mi crebbero alcune difficoltà, smorzando l’entusiasmo iniziale. Eppure, in pieno marasma, ho aspettato pazientemente il colpo di grazia, la promessa di pagare un pedaggio che avrebbe scontato la pena delle quasi novecento pagine, un pedaggio che avrebbe imploso in un finale sensazionale e indimenticabile ma che non è stato così. In realtà, il finale non toglierà niente al resto della narrazione. Forse aggiunge qualche elemento in più, ma nel complesso troppo poco soddisfacente da passare inosservato, visto che mi ero lasciata alle spalle il mondo odierno in cui vivo.
In una stanza stipata di volumi dai dorsi colorati e sfavillanti, io mi sono trovata sorpresa, smarrita, ammutolita, attenta a dove mi avrebbe indirizzato una storia come questa. È bastato compiere un piccolo gesto: aprire una finestra virtuale dall’aria luminosa e vaporosa, volgere le spalle a una vita dai ritmi monotoni e lenti, collimare ragione e sentimento con i punti di una lnea retta che uscirono dalla penna invisibile stretta nella mano di un autrice che tirò i fili invisibili di questa storia.
Il worldbulding in cui si dipana la trama del romanzo, con le sue croste rocciose dorate, brillava dalle pareti di uno strapiombo, alto, maestoso, con le sue guglie e arcate naturali. Soffermandomi, volsi lo sguardo su una infinita distesa di bellezza, prigioniera al centro di una magica ragnatela, oggetto di seduzione a cui non avevo alcuna intenzione di resistervi. Eccetto dopo aver valicato la prima parte, puntando alla fine con spasmodica fretta. Incapace di conferire un certo equilibrio a questo quadro meraviglioso che ha abbracciato un mondo intero, non accettando nulla se non le parole perfettamente adoperate contornassero figure che disgraziatamente sono rimaste nient’altro che macchiette sullo sfondo.
Pur essendo un fantasy, questo romanzo alla fine non mi ha lasciata completamente estasiata, né entusiasta, emozionata o felice con un guazzabuglio di sensazioni che non avevo ancora provato. Certi libri, infatti, nonostante alcuni aspetti positivi, non riescono sempre a raggiungere il dolce sguardo di una creatura avida di storie che, affetta da una strana fame, ha seguito con vigore l’incredibile sete di vita di personaggi che avrebbero potuto sedurre e rovinato il mio animo. Ma trascinata dall’incontrollabile strisciare del mondo, mi sono immersa a tal punto da volerne interpretare gli elementi. Regalandomi una storia che non rileggerei, ma sono contenta di aver letto.

Valutazione d’inchiostro: 3 

4 commenti: