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giovedì, aprile 07, 2022

Gocce d'inchiostro: La casa della gioia - Edith Warthon

La mia coscienza lo sa? Lo sa perché mi trovo sempre qui, a riporre queste poche righe, come un moto perpetuo e inarrestabile? Perché dovrei saperlo, tutto sommato? Una furiosa apatia, una condizione di rabbia nei confronti del Fato, intrappolato nel limbo dello squallore, mi avvolse in un momento imprecisato ma che coincise con quello della protagonista, Lilyt, che come una piccola orchidea avvolta in un tepore artificiale, con i suoi petali delicati si incurvò senza essere disturbata. Si pose dinanzi a un assetto sociale la cui massa è costituita da individui che alenano a svariate forme di sopravvivenza, il cui successo coincide con il raggiungimento di un certo tipo di libertà che avrebbe trascinato da qualunque preoccupazione. Povertà, miseria, indecoroso. Era come vivere in una repubblica dello spirito attraverso cui la felicità sembra una forma remota e indistinta. Metafora di azioni, dinieghi che deteriorano qualcosa di per sé degradata, affetti da piaghe dello spirito che non avranno mai una cura vera e propria ma complesso enigma di un meccanismo politico, economico e sociale di cui non ci si può liberare tanto facilmente.



Titolo: La casa della gioia
Autore: Edith Warthon
Casa editrice: Neri Pozza
Prezzo: 14, 50 €
N° di pagine: 446
Trama: Nella New York dei primi anni del secolo scorso, Lily Bart vive tra i sontuosi ricevimenti dell'alta società, i viaggi all'estero e i soggiorni nelle residenze degli amici. Le sue uniche doti sono la bellezza e l'intelligenza, che usa per muoversi in un ambiente ipocrita di cui vuole ostinatamente far parte e nel quale spera di trovare marito. Un sentimento forte e contrastato la lega a Lawrence Selden, giovane avvocato che vive del suo lavoro: Lily sa bene che non rinuncerebbe mai agli agi tra cui è cresciuta e che è stata educata a desiderare, tuttavia non riesce a staccarsi da lui. Inorridita dalla prospettiva della povertà, tenta di conquistare il rampollo di una celebre dinastia, ospite come lei di amici comuni, ed è allora che la parabola disegnata dalla sua vita tocca il culmine per poi iniziare un'inesorabile discesa. Incapace di vivere della rendita mensile che le passa la zia, la giovane donna si indebita al tavolo da gioco e chiede in prestito una consistente somma di denaro. La sua bellezza diventa arma di ricatto per gli uomini e motivo di cieca gelosia per le donne. Nel momento più tragico della sua vita, tuttavia, Lily acquista di colpo lo spessore di una figura eroica: la rettitudine e l'integrità morale, un tempo apparentemente insospettabili, le impediscono di vendersi al miglior offerente.

La recensione:

 

Se un dolore che si può raccontare è un dolore a metà, la pietà che fa domande ha un tocco assai poco benefico.

 

Il momento doveva giungere, e quando decisi di imbarcarmi in una storia straordinaria come questa, quando soggiornai in salotti inglesi e americani che tuttavia giudicano l’essere umano non tanto per i suoi valori quanto per ciò che racchiudono le sue tasche, come un corpo celeste infuocato e incandescente occupai una posizione nel firmamento letterario di Edith Warthon. La natura costituiva quel fondale perfetto in cui le sensazioni non lasciano mai indifferenti, estendono lo stato d’animo nella sua calma e vastità, la luce della passione può ricomporre frammenti sparsi del rispetto di se, l’ingiustizia, il fallimento, il desiderio appassionato di riscattarsi dal dispotismo egoista. Ogni cosa completamente persa, cancellato da qualunque dizionario mostri comprensione o compassione. Sarebbe stato giusto affannarsi e ribellarsi, destreggiarsi in un mondo che non lascia adito ad alcuna via di scampo, fissare un punto e non lasciarsi soggiogare da qualcosa che disgraziatamente inghiotte nel suo grigiore.
Non è stato difficile formulare un pensiero, non immedesimarsi nei panni di una giovane ragazza le cui sfortunate vicende rivelano qualcosa della mia vita, formando nella densa nebbia di pensieri un’immagine: Lilyt impelagata in qualcosa di più grande di lei a cui non dovrà lasciarsi andare ma combattere.
Edith Warthon scrisse innumerevoli romanzi, e pian piano il mio curriculum letterario vanterà di un discreto numero di letture scritte da questa autrice. I suoi infatti sono ritratti artisti, sociali che sotto certi aspetti ho considerato moderni, attualissimi. L’epidemia della miseria, della povertà, la paura di non poter avere anche piccoli assetti di sostentamento siano stati così accesi, così indispensabili da spingere l’autrice sull’orlo di una rovina, una confessione lanciata come un grido dalla soglia della sua insoddisfazione morale di cui la stessa legge, il cosiddetto Destino, non potrà non infliggerci quella giusta punizione affinchè si comprenda la vera importanza di ciò che ha valore e ciò che non lo ha. Questa Casa a cui fa riferimento, infatti, si sporse sulla mia anima come una piccola baia deserta e desolata, con modestia e pacatezza, impartendo delle lezioni cui bisognerebbe trarre insegnamento. In un certo senso, l’avere troppo o troppo poco sortisce sempre qualche effetto. Respingere la potenza del Fato è davvero impossibile, sebbene la Warthon esplica come la stessa Lilyt non lo faccia in quanto a tale << malessere>> non bisogna volgere le spalle quanto affrontarlo a testa alta. E quale migliore lezione se non quella tratta dalla stessa vita? Incontri, scontri, lotte di potere, accessi di rabbia e splendore, da cosa bisogna essere scarcerati per poter essere del tutto liberi? Forse doveva innanzitutto non nascondersi da alcun artificio, innalzarsi al di sopra della folla portando con se una traccia di un passato più vitale. Sfumando qualunque strato artefatto, rarefatto.
Rivestito di un abito verdognolo ma bellissimo, accettai volentieri l’opportunità di accaparrarmene una copia sapendo che non vi avrei riscontrato effetti propriamente positivi. Trecento pagine in tutto, la maggior parte piuttosto simili alle atmosfere seducenti e appiccicose dei romanzi di Fitzgerald, avvolto nella confusione, il romanzo ritraeva visioni frettolose e quasi irrazionali, rigorose e profuse da cui derivano un forte istinto di restare compatti, ligi alle regole o alle convenzioni.
Avevo già supposto che sarei stata il soggetto di una di queste anime erranti, una popolana destabilizzata da ciò che ho visto e a cui ha aspirato esclusivamente a quel paradiso mancato, pur di raggiungere obiettivi, sogni, speranze, che accrebberebbero la loro << casata >>. Vecchie e nuove di una parte di aristocrazia new yorkese, rappresentati con solidarietà, abitudini ad essere confacenti, pur di accettare dottrine qualunque o questioni morali. Anime inquiete che richiamano un centinaio di persone, esercitano un certo potere con grazia e portamento, gruppi di un geroglifico in cui la verità non spunta mai a galla, non pensano ma agiscono, si muovono mediante segni arbitrari. Rumori nello spazio angusto di salotti, sale da te, feste in gala, nei quali si celano gesti irriprovevoli, avventati e impulsivi, rumorosi perché inclini a voler poter scegliere, farsi contagiare dalla possibilità di scegliere affinchè potessero sentirsi liberi da qualunque fardello, qualunque costrizione che lega insieme le cose e vincolano le persone ai vecchi modelli.
Una manciata di pagine mi permisero di scrutare attentamente la protagonista, studiarla a tal punto malgrado le innumerevoli etichette che la intralciavano, e quando fummo abbastanza vicine vidi che piangeva. Nei suoi occhi un velo di malinconia offuscava la sua anima, l’ambizione di perseguire obiettivi che in una piccola e scivolosa piramide di fenditure e scivoloni, non scomparve finchè potè combattere o resistere. Ma un frammento di storia della società come questo mi rimase ben impresso delle fragili membra di questa storia, che era piuttosto fredda, distaccata, immersa in uno stato di profonda ignoranza, ne franca ne innocente ma piena di distorsioni e difese di scaltrezza istintive che circumnavigarono quella forte divisione fra chi era desideroso di << disfarsene >> e chi no. E, fra questi, Lilyt spezzerà qualunque sentimento di compassione, diffidenza, che combatte a tutti i costi pur di salvare il male, procurandosi e aggrappandosi a qualunque appiglio pur di slanciarsi al prossimo. Così leggera, vana, clandestina, incline alla segretezza e al pericolo. Per una lettrice coraggiosa e ambiziosa come me, non ho ben capito il motivo per cui ci fosse bisogno di buttarsi in mezzo ad una mischia pur di sentirsi meno reclusa, rinchiusa in una scatola piccola, come un disegno monotono dell’assembramento di anime che compongono un piccolo cerchio. Ma una volta arrivata, capì come fosse spinta dall’ambizione di riconoscersi, liberarsi dalle convenzioni del secolo, sottrarsi all’arresto da parte di qualunque legge o divieto.
La casa della gioia rifulge ad evadere da un mondo soffocante, ambizioso e scintillante ma fin troppo ligio alle regole in cui l’individuo non può nient’altro che lasciarsi andare. Piccoli antefatti che costituiscono lo scheletro di una storia onesta, rispettabile ma che lascia ben poco spazio all’imprevisto, al sentimentalismo. La prima impressione fu che si sia trattato di un disegno ambizioso ed affascinante che abbia visto, nel quale è stato possibile distinguere la sua voce in mezzo a tante altre voci, rendendomi così conto che non è stata solo bella e straordinaria ma che ha proiettato un’opulenta aura di sicurezza e disinvoltura, con abiti, trucco, feste, sfarzo e titoli nobiliari, un effetto che ha ottenuto certamente un certo favore da parte mia, la cui autrice si è rivelata come quella donna che non ha occupato semplicemente uno spazio durante il corso della sua lettura ma sembrava l’avesse dominato, possedendolo per intero, come senza alcun dubbio successe alla Wharton quando era ragazza ogni qualvolta faceva debutto in società. Dopo qualche pagina ero completamente travolta, ammaliata dalla sua verve, e guardandola negli occhi e sentendo la sua aura misteriosa alitarmi attorno acquistò una luce più intensa dentro di me.
 

Chi intende la vita di società come una forma di evasione dal lavoro ne fa un uso appropriato; ma quando diventa il fine per cui si lavora, allora ogni rapporto umano è snaturato.

 

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

2 commenti: