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venerdì, giugno 09, 2023

Sette gocce in sette giorni: romanzi vissuti in una settimana 4°

Quando leggo saggi, romanzi di critica letteraria, involontariamente affiorano ricordi, memorie inconsapevoli che dimostrano come la mente di chi scrive coincide con quella di chi legge e funziona soprattutto in modo infinitamente creativo: così immensa la sua creatività, la sua capacità di rielaborare ogni cosa da nutrire il forte desiderio di sentirla come tua.
L’anima così splende, fra le avverse stelle, ascoltando una melodia metafisica che si sprigiona nella lingua di solenni poeti, maestri della letteratura italiana e non, in cui l’acuto del suono ultraterreno stride con quello greve e grave della materia. Maestre d’amore, così come gli altri romanzi di cui vi parlerò quest'oggi, omaggiano tutto questo con l’eccezionalità che da un grande odio possa fruttare un grande amore. Niente di ciò che già sappiamo. Non trasmettono emozioni piuttosto una vasta gamma di informazioni che, in una finestra virtuale dall’aria luminosa e vaporosa, illuminano un frammento di storia, di vita, di letteratura. Questi saggi di cui vi parlerò quest’oggi mi diedero la consapevolezza di come sia necessario acculturarsi, sfilarsi dalla monotonia di una vita quasi sempre uguale a se stessa che in un modo o nell’altro custodiscono piccole perle, piccole forme di sussistenza che, mediante svariati punti di vista, possono illuminarci davvero la mente. Dirottarci in posti o luoghi in cui mai avremmo pensato di mettere piede.

 

Titolo: Maestre d’amore
Autore: Nadia Fusini
Casa editrice: Einaudi
Prezzo: 19 €
N° di pagine: 192
Trama: Nessuna scrittrice come Fusini sa fare della materia shakespeariana un'autentica guida per il cuore moderno e i suoi affanni. Questo libro è una danza. Danzano una danza d'amore i personaggi di Shakespeare, danzano la filologia e la scrittura con gli affreschi di una Londra early modern pennellata con felicità ed esattezza, danzano le parole con i giochi delle parole, danza il lettore, che entra ed esce nelle tragedie e nelle commedie di Shakespeare come fossero scene della vita, anche se è consapevole nello stesso istante di vivere la gioia della letteratura, senza sosta dentro e fuori dagli intrecci e dalle trame per vedere che ne fa la letteratura della vita. «La donna è l'ora della verità per un uomo; non c'è niente di piú vero. Scrivo questo libro per dimostrare la verità di tali parole», dice Nadia Fusini al lettore e alla lettrice, chiamati in causa spessissimo nelle pagine con domande che sono inviti alla danza della conversazione: «... del resto non è forse vero che in amore siamo tutti attori? Tra gli amanti chi riceve di piú? Chi spende di meno? In amore, non è osservabile il paradosso secondo il quale chi piú dà, non diventa piú povero? ... Che il godimento sessuale in sé e per sé non crei un rapporto con l'altro, lo sanno bene Antonio e Cleopatra. Non è proprio qui la tristezza del coito?» Questo è un libro sull'amore prima ancora che un libro sulla letteratura, e Giulietta, Ofelia, Desdemona, Cleopatra, la Bisbetica, perfino Jill e Jack, ci raccontano quale fu l'«immensa novità» con cui Shakespeare, la mente e il corpo di Shakespeare, pensarono il femminile e il maschile all'inizio dell'epoca moderna. Forse aiutati in parte dal fatto che a teatro i ruoli femminili dovessero essere interpretati da giovani attori, forse per l'usanza del cross-dressing che imperversava nella Londra dell'epoca, la mente e il corpo di Shakespeare ci parlano di un corpo d'amore che non è «né femmina, né maschio, ma femmina e maschio insieme», ci dicono che «per vivere, che è la stessa cosa che amare, bisogna disobbedire», che le donne vivono «l'avventura eroica di amare in una concezione paritaria della differenza». Ci parlano insomma dell'«ambiguità scandalosa dell'amore». E alla fine di tanto eros , al lettore sembra di scoprire di nuovo a che cosa serva per davvero la letteratura: non a imparare a vivere, ma a vivere. Una questione di etica.

La recensione:

 

Non sempre l’amore farà uscire l’amante dal se, dal proprio interiore se. Anzi, più spesso l’amore è e rimane un sentimento narcisistico.

 

Sono stata invitata a raggiungere la bella ragazza che si vede in copertina, affacciata al balcone, in un paesaggio splendido quieto e mite trapunto di stelle, quasi in attesa di qualcosa o qualcuno che forse non arriverà mai. Se non conoscessi Shakespeare penserei quanto sembri sciocco tutto ciò. Attendere, quasi come marionette prive di vita, l’avvento dell’amata o dell’amato in questo caso, al balcone, alla finestra, sul vialetto di casa, affinché l’amore vinca e conferisca idee, certezze. Una costanza fedele e irreprensibile che si è sviluppata nel tempo e che conferisce svariati messaggi: quanto si è disposti a fare per la persona amata?
Lo studio accurato delle tragedie shakespeariane fu oggetto d’interesse per una letterata, un artista italiana come Nadia Fusoni che, abbracciando il suo amore per la letteratura e Shakespeare, restituisce in queste poche pagine a chi legge la complessità di esprimere esperienze necessarie e irrinunciabili. L’anima sprofonda nel nulla, con piacere annega nell’elemento liquido, allenta la presa sulle cose, ti molla là dove ci si teneva aggrappati. La negazione sta alla base del rifiuto, l’amore alla base del sesso, la domesticazione più o meno gentile nel domare quelle bestie indomite e selvagge. Cosa c’era di irreprensibile in tutto questo? Cosa avrebbe detto di nuovo questo saggio?
Francamente, niente. Ma è interessante la riflessione che la sua autrice pone in luoghi in cui vi ho abitato. L’amore come archetipo di vita reversibile e irreversibile. Il nulla conosce e concede esaltazioni d’anima, emozioni splendide e intramutabili, contenendo così il peso della commedia stessa in cui ci si dà tanta pena per le questioni futili, private, frivole. E, mediante retorica, comprendere come si intuisca qualche premonizione di un mondo finito, che si sta avviando inesorabilmente verso la distruzione, celebrando così l’idea che quella della gentilezza, l’amore cortese, la raffinatezza di certi modi, creano la bellezza della vita sociale, della vita insieme. Armonizzati dalle stesse arti poetiche che il sommo Francesco Petrarca esplicò nelle sue opere e che attrassero il pubblico, nonostante si parli continuamente di figure morte ma che vivono di vita, svolgono la loro funzione, i loro ruoli mediante la forza prorompente dell’Amore, ascendendo all’uomo e a Dio.
Gli sviluppi inattesi che conferì su di me questo saggio svettarono fra l’imbarazzo di non essere così acculturata nei riguardi di Shakespeare e della letteratura in generale, ma il desiderio di conoscenza, quella fame ardente che sorge solitamente in questi casi svettò a rimbalzo contro le vaste conoscenze della sua autrice, una collisione di corpi che si contennero l’amore per la letteratura e la parola scritta e stopparono ogni sentimento di imbarazzo, una prosa accogliente, di facile lettura in cui la scoperta di certi idiomi rimbalzò nella mia cassa toracica, prese forma, creò una piccolissima massa di conoscenza che ora riverso in queste poche righe. Avrei dovuto impegnarmi a fondo, per comprendere appieno ciò che celano le sue pagine. Acculturarmi e rimembrare ciò che la mia professoressa di letteratura italiana impartiva, riguardo ai sommi poeti italiani, durante lezioni lunghe e tediose ma per me affascinanti.
La natura morta prevale e predomina su ogni cosa che ha respiro, forma e sostanza, l’anima svolge le sue funzioni mediante l’Amore, ascendendo all’Uomo o a Dio ma anche mediante quella forza cosmica che lega tutti. È questo, dunque, il segreto celato in queste pagine? Giulietta, Ofelia rappresentavano la donna come simbolo di tentazione o elargisce un desiderio buono in sé e per sé, covando desideri forti e devastanti? Forse la risposta è nascosta in questa stessa domanda, e, assieme all’amato, si ritrova espatriato della loro stessa natura, superiore all’amante perché autosufficiente e non soggetto a certi scossoni. La terra avrebbe ospitato la nobile esistenza degli uomini, quella dei principi e degli amanti che si cercano proprio per sconfinare i nuovi cieli e le nuove terre in paradisi sconosciuti e favolosi?
Ed ecco che, spogliandomi di qualunque timidezza, ho posto l’attenzione sul concetto vero e proprio d’amore e sull’importanza che esso ha fra gli amanti. Come mi sarei comportata se fossi stata nei panni di Giulietta? In uno scambio di ruoli, in uno scambio di interlocuzioni fra materia e carne, corpo e spirito è necessario preservare il tutto specialmente nel momento in cui il mondo sembra stia per avviarsi lungo il lento processo della distruzione. Scavalcando o valicando qualunque barriera, tenuta così stretta ai bordi di quest’anima passionale ma turbolenta che, persino adesso, a distanza di qualche giorno dalla sua lettura, mi tiene salda alla sua presa.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Bruciare libri. La cultura sotto attacco: una storia millenaria
Autore: Richard Ovenden
Casa editrice: Solferino
Prezzo: 20 €
N° di pagine: 352
Trama: La memoria nasce con la civiltà, e così la sua conservazione. Non a caso la storia narrata in questo libro parte da Assurbanipal e arriva fino a oggi. L'atto del conservare non è mai neutrale: già il re assiro faceva della sua biblioteca un segno e uno strumento di potere. Ancora meno neutrale è l'atto del distruggere: i roghi nazisti di libri ne sono l'esempio più tristemente celebre. Ma c'è un altro modo, meno plateale, per cancellare un patrimonio: non prendersene adeguata cura. Gli episodi «distruttivi» di diversa natura sono cresciuti, in frequenza e intensità, nell'era moderna, e da quando il digitale ha squadernato le sue immense potenzialità. Risultando, al contrario, l'ennesima minaccia, e forse la più insidiosa. La trasmissione delle idee, la certezza del diritto, la ricostruzione della storia dipendono da biblioteche e archivi. Ogni offesa, per intenzione o per incuria, a questi luoghi, mette in pericolo l'accesso ai fondamenti della nostra identità. Dal mitico incendio della biblioteca di Alessandria allo scandalo Windrush: ognuno degli episodi narrati in questo libro dimostra che per accertare la verità bisogna conservarla e per far crescere il sapere bisogna diffonderlo, e che senza biblioteche e archivi in buona salute nessuna delle due cose è possibile. Secondo Thomas Jefferson «chi riceve un'idea da me impara qualcosa senza togliermi nulla; allo stesso modo, chi accende il suo stoppino dal mio riceve luce senza lasciarmi nell'oscurità». Le biblioteche e gli archivi mantengono questa promessa e, se oggi questa fiamma continua a vivere, lo dobbiamo a chi li ha protetti. Persone coraggiose, dotate di curiosità, iniziativa, senso di responsabilità, oppure disobbedienti: se Max Brod avesse rispettato le disposizioni testamentarie dell'amico Franz Kafka, non avremmo mai letto Il processo. Questo libro è un ispirato manifesto in difesa dei luoghi che conservano la cultura, un omaggio agli uomini che hanno creduto, spesso a caro prezzo, nella loro funzione essenziale per la società tutta.

La recensione:

 

Tutto ciò che è buono e desiderabile in un regno sano può essere comunicato in questo modo a chiunque ne abbia necessità.

 

La conservazione delle informazioni è uno strumento chiave, nella salvaguardia della società. Richard Svende, appassionato bibliotecario che fece del suo amore per la letteratura e la parola scritta oggetto di studio, in questo saggio – che avrebbe potuto essere illuminante ma non dona che qualche informazione in più su quelle che furono quei luoghi sacri in cui è possibile custodire il sapere -, conserva una Verità trascendentale che niente e nessuno, alcun luogo o spazio potrà annientare in quanto, mediante fatti attendibili, è possibile esplorare luoghi in cui questa Verità di cui parlo, la conoscenza, è preservata da un grande potere, quasi un qualcosa di prezioso. Espediente che segna il declino della società e della civiltà.
Un esame attento sul Tempo, su resti o archivi storici che esplicano come la letteratura, negli anni, sia stata oggetto di eresia, annientamento, e la consapevolezza che certi manoscritti abbiano una certa rilevanza poiché quasi magici, significativi, antichi e universali la cui utilità è sovvertita dall’idea che certi testi aiutano a comprendere la vita e le opere di uno scrittore ampliando le nostre conoscenze in merito.
Per certi versi una lontana reminiscenza del capolavoro di Ray Bradbury, in cui i libri erano così tanto amati da << salvarli >> dalle stesse fiamme. Ma generato, negli anni, da forti sentimenti di odio e amore che impedirono studiosi, ricercatori, archivisti a preservare il sapere, la conoscenza, affondando le radici nel passato in cui l’immaginazione è ritenuta la più grande messa inscena delle grandi civiltà del mondo antico. Mentre l’ignoranza dilagava e si propagava come una piaga, apologia di periodi di lento degrado causata da scarsi finanziamenti, innumerevoli stati di incuria e insoddisfazione per le istruzioni.
Quale sarebbe stata la << cura >> affinché tale processo venga arrestato? Disgraziatamente, anche in epoca moderna, i libri sono oggetto di diffamazione. Spesso scruto nel volto di molti smorfie di disgusto, quasi repulsione, all’idea che il sapere, la parola scritta abbia più importanza di quel che si crede, e tutto il resto è solo un contorno. Ho spesso pensato alla veridicità di questo mio pensiero, abbracciandolo quasi come una filosofia di vita, assorbite anche dal mio spirito, mentre osservo gruppi di anime stolte muoversi come marionette quasi prive di identità. Approdando però nel mondo inconsapevoli del loro agire.
Ma, tornando a questo saggio, se non fossero stati nascosti certi testi, il Mondo non avrebbe potuto essere un posto un po' più accogliente? Scalfire l’ignoranza, la presunzione, la violenza di riporre in certi atti sentimenti forti e indomabili che non sono un balsamo per chi ci circonda quanto una lenta agonia? E il grande amore che serbo, giorno dopo giorno, a semplici <<risme di carta >>, di cui mi è bastato comprendere una volta sola, in un momento particolare della mia vita, affinché potessi conoscere me stessa ma soprattutto la felicità, non è forse riconducibile alle stesse rivolte che Richard Ovenden ha silenziosamente aizzato al mondo esterno? Forse un intento di comprenderlo e comprendere perché bisogna vivere anche di certe cose, forse un gesto importante nell’aver voluto attraversare il tempo e lo spazio che hanno annientato il Sapere, annichilendo qualunque intento benefico. Forse un semplice modo di riversare in una pagina bianca ciò che si teneva gelosamente custodito, in anni e anni di lavoro intenso che lo travolse a tal punto di convincerlo come il Mondo avrebbe potuto essere un posto migliore di questo. Così crudele e inesorabile, abituato a non poter tranciare giudizi e atti immorali che non nuocciono direttamente ma sono un maleficio per l’arricchimento individuale e personale.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Deep work. Concentrati al massimo. Quattro regole per ritrovare il focus sulle attività davvero importanti
Autore: Cal Newport
Casa editrice: Roi edizioni
Prezzo: 22 €
N° di pagine: 288
Trama: Le attività a massima concentrazione sono quelle che richiedono di lavorare con un focus totale a compiti che richiedono un profondo sforzo cognitivo. Dedicarci a queste ci rende più produttivi, ci consente di ottenere risultati significativi in minor tempo e ci dà un maggior senso di appagamento. Nel mondo iperconnesso di oggi, abbiamo perso la capacità di focalizzarci su queste attività, favorendo quelle più superficiali e più dispersive (come controllare compulsivamente le email). In questo libro Cal Newport ci insegna come ritrovare una concentrazione profonda, creativa, che ci aiuti a dedicarci veramente a quello che stiamo facendo. Dopo aver sviscerato il problema con la sua prosa elegante e il suo rigore scientifico, Newport condivide le quattro semplici regole alla base del suo stesso successo che possono cambiare per sempre le nostre abitudini e la nostra vita.

La recensione:

 

Non siamo predisposti per acquisire velocemente informazioni astratte. Siamo davvero molto bravi nel ricordare gli scenari.

 

Scrivendo spesso trapela una parte del mio animo che, inconsapevolmente, rivela sempre qualcosa di me. Nel tempo che ho impiegato a scrivere chilometriche recensioni non nego come sia stata appropriata, forse, la scelta, di parlare pure un po' di me. E cosa mi ha portato tutto questo? Semplice, a guardarmi dentro e scoprirmi a fondo.
In un modo o nell’altro, scrivere è come specchiarsi. Ci si impegna a non far trapelare niente che non possa indurre a critiche o dinieghi, quasi invulnerabili, ma proprio questo assetto di unire la gioia dello scrivere alla bellezza dell’arte creativa mi ha indotto a ritrovarmi con me stessa. Sento sempre più un legame più intimo con i miei sentimenti, avverto chiaramente ciò che mi circonda, e, soprattutto, riesco ad esprimerlo esattamente come desidero: giungendo lontano, quasi distaccandomi dal mondo, indifferente agli assalti esterni, ma scrivendo solo per me … e basta!
Durante la lettura dei romanzi che leggo, di cui mi cibo, succede che mi apro così tanto che forse chi mi legge riesce a scorgere anche le viscere. Prima non ne ero contenta, sebbene si tratti di un tipo di scrittura quasi inconsapevole. Ora, invece, comprendo come da queste viscere ho potuto e posso vedermi con gli occhi di un altro. Una me senza nome, che prima di rinascere, abbracciava uno stile di vita cui non avrebbe mai dato così peso, e che in un modo o nell’altro ha rivoluzionato la mia vita.
Non ero sicura di ciò che stavo facendo, ma quando mi imbattei nella lettura di Miracle morning mi si aprì e sciolse un mondo che, a fine lettura, mi indusse a sedermi alla scrivania e porre un certo ordine. Sono sempre stata una ragazza ordinata, puntuale, sempre sul pezzo. Perché non apprezzare qualche suggerimento in più? Ed ecco che, in una manciata di settimane, mi sono fatta coinvolgere da alcun fattore esterno ed ho abolito qualunque distrazione mi impedisse di raggiungere i miei obiettivi e, studiando, leggendo, acculturandomi, ho così compreso che – da grande amante delle abitudini -, la routine è un assetto importante per gestire le nostre azioni, e purché esse vadano a buon fine è necessario concentrarsi. Impiegare il nostro tempo in una determinata azione inducendoci ad essere produttivi, ritagliando un posto in cui nessuno può disturbarci, avere quegli strumenti utili che ci aiutano ad immergerci completamente nel flow. Produrre comporta al raggiungimento della nostra felicità, nonché un fabbisogno spirituale.
In un weekend di fine aprile fu così che Deep work, questo piccolo libriccino mi aiutò a riporlo nella lista di quei romanzi che considero significativi, stimolata da un profondo senso di fiducia, la consolazione di essere impegnata in qualcosa di importante che dà successo. Attenzione, ammaliamento ma anche tanta soddisfazione. Perché lavorare, produrre qualcosa, se adoperando quella giusta concentrazione, riponendo quelle giuste attenzioni, produce godimento per la nostra anima semplice ma appassionata.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Lo stregato e il patto con il fantasma
Autore: Charles Dickens
Casa editrice: Elliot
Prezzo: 13, 50 €
N° di pagine: 118
Trama: Il chimico Redlaw, noto come scienziato e uomo pio, vive assillato dai ricordi di un passato doloroso e dal suo fantasma, figura perturbante, doppio demoniaco, che gli offre la possibilità di perdere la memoria (ma non il suo sapere), e di trasmettere questa capacità al prossimo. Redlaw, ben conscio che insieme ai ricordi dolorosi verranno cancellati anche quelli felici, ne approfitta e si prodiga per diffondere questo privilegio, fino a quando non si insinua in lui la consapevolezza che l'oblio comporta il rischio dell'apatia e dell'inerzia dei sentimenti. Quinto e ultimo dei "Christmas Books" che Dickens scrisse tra il 1843 e 1848, il primo dei quali fu "Racconto di Natale", questo breve romanzo contiene le caratteristiche più felici dell'autore, l'acutezza delle descrizioni e l'impareggiabile gusto umoristico, capaci di far emergere allo stesso tempo il lato grottesco e drammatico delle situazioni in cui si muovono i suoi indimenticabili personaggi.

La recensione:
E’ bellissimo, magnifico.
Sono indimenticabili i romanzi di Charles Dickens. Punto. E infatti, non ci sarebbe nulla da dire, quando ci si imbatte in capolavori – grandi o piccoli – della letteratura vittoriana inglese che, irrimediabilmente, ti scavano dentro. Ma cosa ci posso fare? Cosa avrei potuto fare? Adesso che l’ho concluso, sinceramente non saprei dire. Ho sicuramente acquisito un’informazione in più, trovato un tassello in più della produzione dickensiana, quasi a metà, sempre bella e interessante, ma soprattutto folgorante. Più cuore, che carne. Più sentimentale, che filosofico. Era lo stregato i cui modi, le cui maniere taciturne, malinconiche, strizzano l’occhio a eventi adombrati da certa riservatezza, sempre scontroso e mai giocondo con l’aria strana, che ai più ricorderà sicuramente quel gran simpaticone di Scrooge. Una coincidenza? Cosa c’entrava?
Forse non esattamente una coincidenza, ma una volontà stessa del suo autore che, credo, abbia intenzionalmente voluto impartire una sorta di lezione affinché le colpe commesse non si ripetano ma << smaltite >> dalla redenzione e la comprensione. L’uomo fa ammenda delle azioni compiute, la memoria perpetua così nel tempo, nonostante i ricordi dolorosi del passato si scontrano col tormento, l’impossibilità di raggiungere o ottenere qualcosa di cui non si raggiungerà mai. Il cuore si dibatte fra le gabbie dell’impossibile invitandoci a guardarci dentro e osservare con gli occhi di un altro.
Mentre ripongo queste poche righe, non riesco a fare a meno di pensare quanto di << terribile >> ci sia stato, cercando di non immaginare gruppi di gente umile, uomini poveri e soli radunarsi in luoghi appartati affinché la loro anima possa trovare ristoro, pace, sperando che quel Dio cui fanno tanto affidamento possa ascoltarli, almeno una volta, poi per un attimo il viso si trasforma in una smorfia di dispiacere, rammarico mentre nella mia testa si formava un’immagine: bambini morti su pagliericci logori, matrone impegnate ad allattare figli di cui non conoscono provenienza.
Dopo una discreta esperienza con Charles Dickens ero consapevole di ciò che avrei riscontrato in queste pagine. Lo stregato però ha superato ogni previsione di bello e godibile, con qualcosa di somigliante al Canto di Natale che ogni anno amo ascoltare, prima che si concluda l’anno, che riecheggia ancora fra le stanze luminose del mio animo, lungo una vetrina di specchi di cui devo ancora riflettermi. Scivolandomi addosso, entrandoci, posizionandosi in un posticino speciale del mio cuore che qualunque persona sana di mente serberà gelosamente.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Una storia della lettura
Autore: Alberto Manguel
Casa editrice: Feltrinelli
Prezzo: 10 €
N° di pagine: 288
Trama: Quella che racconta Alberto Manguel non è la storia della lettura, ma è, appunto, una storia della lettura: soggettiva e unica, e proprio per questo di tutti. Infatti, alla dissertazione letteraria, Manguel aggiunge annotazioni personali, passi autobiografici, aneddoti che dissacrano la letteratura in quanto scienza e che invece sanciscono la superiorità della lettura e, soprattutto, dei lettori. Così, dopo aver chiamato in causa autori come Plinio, Dante, Cervantes. Victor Hugo, Rabelais e Borges, Manguel parla della forma del libro, dei libri proibiti, del valore delle prime pagine, di cosa vuol dire leggere in pubblico e, al contrario, dentro la propria testa, e ancora, del potere del lettore, della sua capacità di trasformare e dare vita al libro, quanto e forse più dell'autore stesso, della follia dei librai e del fuoco sacro che divora ogni vero appassionato di storie.

La recensione:

La lettura di questo saggio non è stata particolarmente illuminante, ma ha alimentato il mio desiderio di leggere più saggi. Da grande amante dei classici e della narrativa contemporanea, la lettura dei saggi non mi parve più concreta e straordinaria come in questi ultimi mesi, checchè mediante Il miracle morning di Hal Elrod ho potuto guardarmi dentro, e comprendere cosa effettivamente mi avrebbe reso felice. Amante dell’ordine e dell’organizzazione, maggiore incentivo per la mia anima semplice ma appassionata…
La piacevole sensazione di equilibrio di cui parlavo, né troppo né poco, quella giusta per me, insomma, mi indusse a rimanere piacevolmente colpita da ciò che disse e mi sussurrò all’orecchio Alberto Manguel. Lettore onnivoro e appassionato, snocciola un carosello di immagini, nozioni mediante conoscenze acquisite nel tempo e qualche curiosità, affinchè la lettura lasci un segno indelebile sull’anima. Per quanto mi riguarda, Manguel poteva risparmiare qualunque tentativo, qualunque fatica… se non amassi così intensamente la letteratura e i libri in generale, non credo mi troverei qui, a parlare o delirare – a seconda dei punti di vista- di ciò che più mi piace. L’emozioni, le sensazioni sortite travolgono ogni parte saldamente nascosta. La parola scritta esercita un certo potere su di me senza dover chiedere nulla in cambio… cosa c’è di più bello del leggere? Forse ammirare cataste di libri svettare da una libreria forse fin troppo capiente, non avere mai abbastanza risparmi da realizzare qualche altro progetto che non interferisca col mondo della letteratura, il profumo di nuovo, appena stampato, e le imponenti storie di uomini o donne comuni che tuttavia mettono a posto qualcosa dentro di me.
Questo saggio si aggiunge dunque, virtualmente e non, sullo scaffale di una libreria da cui in futuro credo mi approprierò nuovamente e riscoprirlo come la prima volta. Perché non reca alcun presagio di rinascita, ma solo personali concezioni sull’atto del leggere e il significato che la letteratura esercita su lettori appassionati. Invitando anche chi non lo è, a valicare questo bellissimo mondo, costeggiando ai bordi dell’anima, appartenendoci a tal punto da invitarci delle volte a vivere meglio.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Tutto quello che so sull’amore
Autore: Dolly Alderton
Casa editrice: Rizzoli
Prezzo: 17,50 €
N° di pagine: 340
Trama: Diventare grandi è il viaggio della vita, e quello di Dolly Alderton è stato un giro vorticoso sulle montagne russe. Stazione di partenza, uno scialbo sobborgo londinese dove Dolly, nei primi anni del nuovo millennio, è un’adolescente che passa le giornate su Messenger, smaterializzata in uno spazio parallelo di relazioni simulate, o a fantasticare su ragazzi e feste e soprattutto fughe insieme alla sua migliore amica Farly. Il primo, elettrizzante scatto in avanti arriva al momento di trasferirsi a Exeter per l’università e dare sfogo a tutti i sogni di libertà, in quelli che saranno anni di eccentrica sregolatezza, sbronze micidiali, avventure di una notte e incontri destinati a durare. Poi, spinta dal sogno, questa volta, di diventare giornalista, si tufferà nel cuore pulsante di Londra, città spettinata, gaudente, come lei tendente all’autodistruzione, una regina severa che cambierà il suo modo di vedere il mondo.

La recensione:

Non disdegno mai romanzi autobiografici. Credo che, pur quanto romanzati, rivelano sempre un chè di nascosto, perché l’arte dello scrivere delle volte induce a guardarsi dentro e rovesciare in quel contenitore imperfetto ciò che è più intimo. Saldamente nascosto. Non conoscevo dunque l’autrice di questa biografia, che, disgraziatamente, non mi ha particolarmente colpito, ne mi ha fatta sentire particolarmente coinvolta nel seguirla e vederla << sguazzare >> in fiumi di sesso, dichiarazioni d’amore sussurrate nel cuore della notte, perché il piacere di toccare ed essere toccata da una persona che gli interessava la rese esaltata anche dalla vista di             quella persona, snocciolati in questo diario come piccoli soldatini, che ai suoi occhi hanno contribuito al godimento come qualunque altra parte anatomica, perfino la pelle.
Ci fu però un momento della vita dell’autrice che la indussero a ricordare di essere stata qualcun ‘altro, fra una relazione e un’altra, e questo la indusse a tagliare il superfluo e concentrarsi solo su ciò che aveva ed ebbe effettivamente importanza. Vivere equivale sempre a sperimentare? Prendersi del tempo per noi stessi, scovare la felicità equivale a condividerla, a produrre poi immagini che il nostro sub conscio immagazzinerà o sputerà poi fuori?
Ma io avevo immaginato qualcos’atro. Non che non sapevo a cosa andassi incontro, ma la voce ironica, sarcastica quasi canzonatoria con cui sembra farsi beffe la sua autrice, ma anche amara e disillusa ribattezzò l’ennesimo mio tentativo di affidarsi a quelle recensioni entusiastiche che indicano quel romanzo come il miglior caso letterario del momento. Il risultato, alla fine, è sempre lo stesso. Ma questa volta, fortunatamente, non così illeggibile come credevo. Solo molto molto banale, ripetitivo, monotono, un guazzabuglio di sonetti scorretti e nebulosi che sono rievocati con una certa rabbia, una certa insoddisfazione non tentando però di nascondere il suo desiderio di essere libera. Estremizzando ogni cosa, parlando più a se stessa che a un pubblico di lettori di ogni età che tuttavia induce a divorare le pagine, avanzando in un miscuglio di adulti e adolescenti, forse ultimo avamposto del buonsenso in America.

Valutazione d’inchiostro: 3


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Titolo: Vorrei farla finita, ma anche mangiare toppokki
Autore: Baek Seheek
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 18 €
N° di pagine: 180
Trama: Baek Sehee è giovane, ha una laurea in Scrittura creativa e lavora per una casa editrice: ha una vita apparentemente serena, una carriera che dovrebbe farla sentire appagata. Eppure un forte malessere esistenziale l'accompagna, non una vera e propria depressione, piuttosto un'apatia cronica che le impedisce di vivere pienamente i rapporti di amicizia, l'amore, i successi lavorativi. Baek si rivolge a uno psichiatra per cercare di dare un nome al suo stato d'animo e scopre di soffrire di distemia, una forma più lieve della depressione, ma con sintomi persistenti. Trascrivendo le sedute settimanali con lo psichiatra, Baek racconta con semplicità e ironia le difficoltà che si trova a vivere giorno dopo giorno; l'ansia del non saper gestire al meglio le nuove amicizie, l'ossessione per il proprio aspetto fisico, l'insicurezza provocata dal giudizio degli altri suscitano in lei una serie di meccanismi di difesa e comportamenti autolesionisti. E, soprattutto, un alternarsi continuo tra la sensazione di vuoto lancinante e l'allegria di una serata con gli amici; tra l'apatia e il desiderio impellente di uscire per gustare un bel piatto di gnocchi di riso saltati in padella e conditi con salsa piccante: i toppokki, il suo street food preferito. Come conciliare queste sensazioni così distanti tra loro?

La recensione:

Ciò che conta, alla fine, sono l’emozioni suscitate. Quelle che restano dentro, e che, come uno sciame di api impazzite, vorticano ancora nella mia testa … o nella mia pancia, a seconda dei casi. L’adolescenza è una delle fasi più importanti ma difficili dell’esistenza umana. Se riflettiamo, ci guardiamo alle spalle, probabilmente inutili errori compiuti in passato non li compieremmo adesso, ma il Tempo è l’unico beneficio e passando in fretta suscita sempre qualche effetto.
L’autrice di questo piccolo libriccino avrebbe voluto sapere come comportarsi, quale decisione prendere quando era solo un’adolescente, ma non fu mai tutelata, compresa da nessuno, né tantomeno dai suoi amici o parenti, peggiorando ogni cosa, rendendola sempre più sola. Una ragazza qualunque avrebbe potuto essere qualunque se la sua vita non fosse stata imprigionata nel pozzo oscuro della sofferenza, delle incertezze, di svariate problematiche alimentari e fisiche se non fosse stata assaltata, depravata dal mondo esterno. Il disagio innescato l’avrebbe condotta a sentirsi un’estranea, guardarsi con gli occhi di un altro, togliere qualunque costrizione e scappare in quella landa deserta che, giorno dopo giorno, Baek ha reso suo.
Questo romanzo non brilla di originalità, né per temi o situazioni di cui la sfortunata Baek sarà protagonista, in quanto di storie come queste ne leggo a bizzeffe, ma sono proprio i personaggi bizzarri di queste storie, avvolti in bolle di mistero, a tessere trame che meritano però la mia attenzione. Liberarsi dal senso di inquietudine e tristezza che solitamente caratterizzano certi romanzi, proiettati in uno spazio moderato e usuale, fa emergere però un inatteso senso di solidarietà tra lei e la sua anima.
Captarne la bellezza, dunque, in qualcosa che non è fosforescente, in ogni luogo e in una particolare aura di coinvolgimento, questo piccolo libriccino avvolse comunque le mie piccole membra inducendomi così a nutrire una certa tenerezza nei riguardi di questa fragile ragazza, caratterizzata da un filo di drammaticità, camuffandosi fra i dolorosi ricordi di una piccola donna che ha sempre voluto essere piccola, invisibile agli occhi. Incompresa, perennemente consapevole di essere estranei alla realtà che li circonda, rifugiandosi così fra le pagine di un libro o, in questo caso, di un diario. Aspirando così ad una vita per nulla pretenziosa ma soddisfacente e desiderare di trovare qualcuno che possa capirli e farli sentire se stessi. La persona giusta da cui trarre conforto o “rimedio”, a seconda dei casi.
Niente di raffinato e straordinario, in cui l’intimità resta reclusa fra le solide celle della stessa Baek, Vorrei farla finita ma anche mangiare toppokki non raggiunge l’apice della luminosità, quanto essa stessa è smorzata sin dal principio. E non riesce a splendere nemmeno quando si prende consapevolezza di conflitti fra il desiderio di essere integrati nel mondo degli << altri >> e il bisogno irrinunciabile di essere se stessa, che non ha nemmeno evidenziato una particolare sintonia fra autrice, la propria esperienza e l’incapacità di ricevere chi la circonda, chi avrebbe voluto aiutarla. Ma rappresentazione perfetta di una realtà assolutamente tattile, ambigua, controversa che è un’altra zona illuminata nella tela della luce. Un piccolo bagliore che a modo suo ha potuto splendere.

Valutazione d’inchiostro: 3

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