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giovedì, settembre 05, 2024

Sette gocce in sette giorni 7°

Rincorrendo le ferie, la tranquillità, la pace non solo fisica ma anche mentale, queste prime ferie estive mi videro pronta ad affrontare una sfida. L’ennesima. Quella cioè di leggere sette libri in sette giorni, ed avendo stilato una lista di libri che non prevedesse non più di duecento pagine, dalla domenica prima alla domenica successiva avrei potuto anche farcela. Vi dirò… non c’è l’ho fatta! Sono scontenta?

Assolutamente no. Leggere così tanto e velocemente è stato bello, ambizioso, divertente, e poco importa se qualche lettura si è persa per strada, fra le innumerevoli ripercussioni della vita e qualche imprevisto impellente. Certamente la leoncina che è in me, con difficoltà inghiotte questa ennesima sconfitta, ma, alla fine, cosa importa? Perchè partecipare, allora? Per divertimento, per smorzare la routine o, a dire il vero, dare una scossa alla nostra vita nel smaltire qualche titolo della nostra lunghissima TBR. E se alla fine non dovesse accadere, ci proveremo un’altra volta. Magari più forti di prima ;)

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Titolo: Il castello di Otranto

Autore: Horace Walpole

Casa editrice: Bur

Prezzo: 9, 50 €

N° di pagine: 167

Trama: Si suppone che gli avvenimenti si svolgano nel Duecento. Manfredo, signore di Otranto, nipote dell'usurpatore del regno che ha avvelenato Alfonso, il lettimo sovrano, vive sotto l'incubo di una profezia, secondo cui la stirpe dell'usurpatore continuerà a regnare, finché il legittimo sovrano non sia divenuto troppo grosso per abitare il castello e finché discendenti maschi dell'usurpatore lo occupino. Quando la profezia sembra avverarsi, Manfredo atterrito confessa il modo dell'usurpazione e si ritira in un monastero con la moglie. Il romanzo fu pubblicato nel 1764 e, nella prima edizione, era descritto come una versione dall'italiano.

La recensione:

Noi tutti siamo rettili, misere creature peccaminose. Sola è la pietà a distinguerci dalla polvere da cui proveniamo e a cui torneremo.

La lettura di questo romanzo, che pazientemente ho riposto sullo scaffale con la promessa di un arrivederci, giunse in un momento preciso della mia vita, con l’avvento delle ferie e un carrello di letture già in coda. Dalla mole piuttosta ridotta, prevedeva un viaggio di andata e ritorno, in un'unica seduta, in un pomeriggio di metà luglio, al mare, sdraiata comodamente su una sdraio a crogiolarmi su una spiaggia rumorosa e affollata. Con le cuffie alle orecchie, non ci impiegai molto ad inoltrarmi fra le sue pagine che mi trovai dinanzi alle mura di un fatiscente castello che, sulle prime, non mi fece provare niente. Nè fascino, nè ammaliamento, nè disgusto o raccapriccio e mi meravigliai. Poi fui presa da un’improvvisa gioia. Mi pareva di aver letto di un fantasma che si aggirava fra i corridoi sontuosi di questa fatiscente dimora e godevo di vivere questo momento. Il piacere di condividere questo momento con quello che avrei presto o tardi riscontrato in queste pagine, da dire << Hai visto? Hai visto? Com’è potuto accadere? >> a chiunque mi avrebbe detto, che questa storia non parlava solo di fantasmi, ed in effetti così è stato. Il sole divenne sempre più forte, l’ora di pranzo si avvicinava ed io non ero più distesa al sole quanto in un luogo in cui feci perdere completamente le mie tracce. Cosa avrei dovuto fare se non aspettare che qualcosa accadesse? La testa esplodeva in mille domande, il tarlo del dubbio si insinuò nella mia coscienza come un chiodo fisso. Cosa possedeva di speciale questo grande classico?

Sicuramente l’idea di combinare il mondo antico a quello moderno, la novella al romance, in quanto l’epoca in cui Walpole scrisse questo romanzo fu soggetta ad accesi dibattiti sul ruolo della letteratura: i romanzi avrebbero dovuto essere rappresentativi o puramente immaginari? Prosa assurda, romantica e tronfia? Eppure questo castello fu in primis eretto da parole oniriche stampate nel reticolo della sua psiche come se contenessero qualcosa di magico. Qualcosa di oscuro i cui modelli antichi e quelli moderni posero le basi su un mondo realistico popolato da personaggi realistici,fondato da premesse realistiche. Con questo romanzo, Horace Walpole introdusse elementi del soprannaturale spiegando la realtà, conciliando il naturale al soprannaturale, costruendo un nuovo genere: quello del fantasy fondato sulla realtà.

E qualche riga utile a << riconoscere>> qualcosa di cui in passato ho letto innumerevoli volte, che non mi appartenevano ma mi appartennero, come le innumerevoli visite di un conte a un uomo estremamente intelligente, o di un mostro separato dal suo creatore, soggiornando in questo splendido luogo con la curiosità che mi divorava le viscere, ammaliata e sbalordita che un semplice incubo alla fine aveva contagiato anche la mia esistenza. E fu questo pensiero a generare il tutto, ad innescare un processo di puro estraniamento che, penso, mentre ripongo queste poche righe, generalmente accade con questa tipologia di testi: il fatto che io non possa sentirmi travolta nell’immediato espugna una visione molto simile a quel genere di processo che mi piace definire << amore tardivo >>. Eppure è una visione molto simile a quella shakespeariana, all’Amleto precisamente, le cui dispute matrimoniali, la lotta per la discendenza e il potere, l’inganno erano elementi tipici della letteratura del Maestro inglese, ma anche di quella gotica, segnando l’inizio di questo genere di romanzo. Nonostante Walpole non desiderasse imitarlo, quanto unire lo stile tragico e comico attraverso cui si cerca di superare le regole imposte dalla società e dalla stessa letteratura. Calibrando uno stile semplice ma zeppo di elementi ricercati e gotici la cui natura affonda le radici nel passato, nel mito greco.

Per gli amanti del gotico, Il castello di Otranto funge come buon proposito di dipingere le abitudini domestiche dell’epoca feudale o medievali in cui la fantasia imita la natura, in cui i personaggi rivelano le proprie debolezze, mediante colpe e pene autoinflitte, in generazioni pregne di religione o elementi profani.

Certamente un titolo conosciuto, famoso, ma per una lettrice che ama intensamente i classici ma non li ha ancora scandagliati a dovere sono proprietaria di azioni e gesti che mi rendono ciò che sono. Così non ci ho pensato due volte nel provare a leggere un romanzo cui non fu amore a prima lettura.

Perché apparentemente semplice la lettura di un romanzo datato? Perché talvolta un romanzo, una storia deve saper << chiamarti >> al momento giusto. Credo nel potere delle parole, nella magia di certe situazioni che coincidono con un momento particolare della vita, e se certe letture le si può vivere in un dato momento credo proprio che ci sia un vero e proprio motivo. Questo motivo francamente non lo conosco, ma so per certo che, in spiaggia, sono stata catapultata in un luogo oscuro che ha inzuppato persino la mia coscienza, con nelle orecchie la voce gracchiante di un uomo che aspira ad ottenere il trionfo, raggiungerlo ma individuando attraverso effetti quali il terrore attraverso cui si combatte pur di salvare se stessi. Il mondo era un orrore incorruttibile e inviolabile. Ogni concezione e immaginazione umana che riporta alla luce un’anormalità mostruosa, fatta di conoscenza, sangue e ossa che l’autore getta nel bel mezzo delle tenebre.

Uscire fuori da tutto questo, non solo entrarci, alla fine fu davvero difficile. Una cosa questa lettura però l’aveva sortito. Con la sua presenza costante di innescare nuovi meccanismi di difesa, conoscenza, pragmaticità, figure che dubitano persino di se stesse ma sono tutti segreti di un’indagine senza capo ne coda che non approda ne porta da nessuna parte. Dalla natura misteriosa, questo castello diviene così sarcofago di storie prodotte da un cervello superstizioso che scava a fondo affinché si scoprono come entità appartenenti a noi ci inducono a dubitare della loro esistenza ma capaci di infliggere danni corporali e mentali. Dal forte effetto scatenante, così incredibile e profondo, entità di una figura che ha una capacità simbolica che agisce sulla mente di una persona sensibile, suggerendo relazioni comiche terribili e oscuri, da cui provengono realtà innominabili che stanno dietro le illusioni.

Ed eccomi qua, dopo una folle immersione nell’Inghilterra di inizio ottocento la cui vita era stata intrecciata a quella di personaggi consapevoli, intelligenti e ambiziosi che nascondo un chè di oscuro, sfuggente. Pregni di mistero che è la linfa stessa del romanzo. L’uomo è l’essere più antico e più recente dei signori della terra che costituisce quella semplice materia vitale che, su uno sfondo violento e mistico contro un paesaggio splendido ma dalle strane tonalità, il mondo è dominato da un caos profondo e maligno in cui l’individuo è intrappolato in una fase di esistenza da cui non riesce a distinguere la realtà dalla finzione da cui, una volta distaccato, confida di poter trovare qualche forma per scongiurare il pericolo evocato così vicino. Mosso da una specie di forma che non appartiene allo spazio in cui ci troviamo ma una forza che agisce, cresce e dà forma seguendo le leggi diverse della natura umana.

Alla fine, mi sono appassionata talmente tanto, che giungere alla fine mi parve inaccettabile. Influenzata sicuramente dalla mitologia, dall’aura mistica del luogo che ha generato fascino, ammaliamento, cosicché la storia, lo studio della psiche umana. L’anima si perde in meandri irrecuperabili da cui è impossibile recuperare o carpire alcunchè, perfino il più comune degli istinti umani. 

Valutazione d’inchiostro: 4 +

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Titolo: Preludio e altri racconti

Autore: Katherine Mansfield
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 12 €

N° di pagine: 192
Trama: Tutti e tre i racconti di questo volume – Preludio (1918), Alla baia (1921) e La casa delle bambole (1922) – mettono in scena i membri di una stessa famiglia, i Burnell, per narrare tre volti di un'infanzia neozelandese che è poi quella dell'autrice. Segnati dal carattere inconfondibile dell'isola natale, ma dotati di un respiro universale, i tre testi di Katherine Mansfield tratteggiano esistenze votate all'"essere altrove" e ci parlano di trasferimenti, di vacanze, di scoperte, di viaggi fisici o interiori, tra l'esotismo di una natura sensuale e una percezione di straniamento sottile quanto ineludibile.

La recensione:

Avrei vissuto momenti splendidi. Questa ennesima scorribanda letteraria mi avrebbe condotta dinanzi ai cancelli celesti del paradiso, tramutati però in sprazzi di vita, racconti che confidavo potessero piacermi. La cui materia era ottima, la consistenza durevole e tattile. L’avevo detto io che presto o tardi questa autrice avrebbe coinvolto e travolto anche me. Stesse pagine, stessi libri, i medesimi letti da altri lettori. Eppure… Cosa è cambiato? Cosa ha scaturito?

Mentre scrivo, queste parole vorticano furiosamente come uno sciame impazzito nella mia testa. Il fantasma di una giovane donna la cui vita si spense prematuramente, come me fra qualche anno, mi suscitò un certo impatto. Preferibilmente dopo aver sondato il terreno, valicato la nuda terra di una brughiera verdeggiante e luminosa e non era fattibile che proprio questa tipologia di testi, i racconti cioè, mi condussero e portarono lontano. Comunque non troppo, o per meglio dire non così lontano da ciò che non abbia mai visto.

Mi colpì come la sua poetica, apparentemente semplice e raffinata, esplorasse ansie e paure, intrappolasse la caducità della vita nonchè conferendo un certo spazio anche al sesso. Non avevo mai letto dei racconti in questo modo, non dopo aver pensato che nel bel mezzo a tutto questo, ad assistere c’era la natura, un silenzio assordante era la dipendenza di forme o elementi principali di una poetica evocativa, quasi aulica, in quanto racchiude la durezza dell’esistenza umana che richiede esercizio. Un continuo allenamento emotivo su se stessi in cui mantenersi saldi e lucidi non perdendo mai di vista il senso o lo sguardo sul mondo quanto dando corpo all’infinito. Passioni che animano la curiosità ardente di una ragazza, una vorace lettrice che abbracciò la scrittura solo perché ispirata da un autore russo, Cechov, in un'esplorazione della stessa che diviene lotta contro il mondo. La vita dipendeva nel corpo e nel risveglio, nel ritorno continuo delle cose nel mondo, in un viaggio che l’autrice compie mediante la scrittura. E, il racconto, espediente per esplicare la letteratura, esplorarla in ogni forma inedita: elaborazione della materia grezza che diviene un tutt’uno. E non vi è alcuna distinzione fra individuo, uomo e natura, poiché la scrittura non diviene solo << una stanza tutta per sé >> quanto una corazza in continuo movimento. Protezione e fuga davanti alla vita ma anche privo di un luogo di nascita, di una patria. 

E’ stato davvero impossibile non esserne travolti, non farsi coinvolgere né impedirne alla nostra anima di esserne inzuppati poiché causa di elementi imprescindibili a cui se ne susseguono tanti altri perdendo così ciò che non ha mai potuto toccare realmente. La realtà diviene forma scatenante che libera la letteratura.

Katherine Mansfield era dotata di un anima così sensibile, un anima rara, pura che la solitudine che si riversa in queste pagine, e a cui facevo cenno prima, è una percezione di straniamento ineludibile, che scandaglia l’infanzia dell’autrice acutizzando uno sguardo predisposto a cogliere ogni assetto del mondo, descrivendolo esattamente così com’è, verosimiglianza ma anche frastagliamento, discontinuità, discorsi attorcigliati o pensieri spezzati, cambi di prospettiva o memorie incerte. Senza alcuna causa ed effetto quanto particolarmente visibile così come non c’è il vero o falso. Ogni cosa era visibile ad occhio nudo, così come appariva. E quel poco che ho visto, si è impresso con forza nella mia testa. Mai una raccolta di racconti mi travolse così tanto nè mi diede l’impressione di non voler essere apprezzata o lusingata. Non si presentò con: << Racconterò delle storie che devono piacerti. >> Quanto non mi offrì nient’altro che un’opportunità. Quale? Quella di saper cogliere, fra le sue pagine, quella cantilena, quella melodia dolce e sincopata che proveniva non dalle sue piccole labbra bensì dalla sua anima quasi conferendo uno stato “estatico”. Uno stato in cui ho potuto cogliere l’essenza di ogni cosa, ogni personaggio in particolari situazioni, raccontando ogni loro stato d’animo che, se in un primo momento conferisce un certo idillio, in un secondo turbamento, frasi non dette, allusioni in cui ogni cosa, persino il superfluo è risucchiato dall’essenziale. In passaggi repentini, atmosfere serene e travolgenti e frenetiche in cui tuttavia si nascondono sempre delle crepe. Una crepa in cui ogni cosa non è più come prima perché, come diceva l’autore russo Cechov, vi sono stroncature, discrepanze che modificano il regolare svolgersi della vita. Solo così è possibile cogliere verità inaccessibili, disegnare  mediante scrittura una forma che dissipi qualunque dubbio o perplessità che attanagliarono l’animo dell’autrice.

Lei non mi offrì niente. Mi chiese solo di avvicinarmi, poi il resto sarebbe venuto da sé. L’ho fatto, e non potrei essere più felice poiché già solo da questi testi ho potuto riconoscere una prosa che si è nutrita di vita. Uno stile di scrittura in cui è possibile riconoscere una giovane donna sicura, semplice, sciolta per la sua giovane età ma protagonista di esperienze che riconobbe come sue. Così raffinata, dotata di un forte senso di osservazione attraverso cui le emozioni umane saranno scandagliate per benino, esplorando la propria interiorità grazie ad una poetica travolgente, coinvolgente che a centouno anni di distanza dalla sua morte suscita ancora fascino.

Un tipo di magia di cui sono avvezza e che mi piace constatare con i miei stessi occhi, quando ogni corpo, ogni cosa prende vita. Lei che, dal nome della protagonista delle Cime tempestose di Emily Bronte o dell’Abbazia di Northanger della Austen parla così bene di vita ma impossibilitata a viverla pienamente, L’anima sarà protagonista di un viaggio, di umori locali che rappresentano la tradizione letteraria coloniale come l’impianto melodrammatico orale. E la terra in cui ogni cosa sfavilla e sfarfalla, la Nuova Zelanda, ricerca di memorie passate, lontane, perdute che solo grazie alla scrittura riuniscono anime invisibili, che si tengono per mano,nel giardino rigoglioso dell’infanzia. Della sua. E chi legge, legge qualcosa che sembra frutto di un genio creativo immaginifico, quanto personale, intimo poiché facilmente riconducibile a frammenti di vita quotidiana in cui i ricordi del passato si scontrano con quelli del presente, con le emozioni, con sentimenti pregni di sentimentalismo, drammaticità e solitudine dove è possibile riconoscere quelle piccole increspature che caratterizzano la vita di ognuno di noi. Donando una visione seducente ma triste, quasi inappagante, disegnando l’universo come luogo splendido, rigoglioso ma ombroso.

Certamente da figure di carta e inchiostro isolate nella loro interiorità, rarefatte ma vere e tattili è stato possibile cogliere aspetti positivi e negativi della vita, nonché la verità stessa. Non decifrando quanto ritenendo esattamente ogni cosa com’è. In un carosello di azioni, gesti, un numero spropositato di volti a cui ha una certa prevalenza quella dell’infante, della bambina come simbolo di mutamento continuo. Poichè nonostante possa apparire superfluo, gli infanti rivelano quella possibilità di scandagliare ogni cosa, sussurrare il tutto a fior di labbra, in un paradiso terrestre mancato, glorioso e verdeggiante in cui rifugiarsi è opportunità di rinascita.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: La fine della storia

Autore: Luis Sepulveda

Casa editrice: Guanda

Prezzo: 17 €

N° di pagine: 208

Trama: Juan Belmonte, ex guerrigliero cileno che ha combattuto contro il regime di Pinochet, da anni ha deposto le armi e vive tranquillo in una casa sul mare, assistendo la sua compagna, che non si è mai ripresa dalle torture subite dopo il colpo di stato. Belmonte è un uomo stanco, disilluso, restio a scendere in campo. Ma il passato torna a bussare alla sua porta. Belmonte infatti è un grande esperto di guerra sotterranea e i servizi segreti russi hanno bisogno della sua abilità per sventare un piano ordito da un gruppo di nostalgici di stirpe cosacca, decisi a liberare dal carcere Miguel Krassnoff, ultimo discendente di una famiglia di cosacchi riparati in Cile dopo la Seconda guerra mondiale ed ex ufficiale dell’esercito cileno al servizio di Pinochet, condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Belmonte ha un ottimo motivo per odiare quell’uomo, un motivo strettamente personale... Dalla Russia di Trockij al Cile di Pinochet, dalla Germania di Hitler alla Patagonia di oggi, il nuovo romanzo di Sepúlveda attraversa la Storia del Novecento, raccontandone grandezze e miserie, per giungere infine alle pagine drammatiche in cui Belmonte gioca la sua partita finale.

La recensione:


“Non importa dove stiamo andando, l’ombra di ciò che abbiamo fatto e siamo stati ci perseguita con la tenacia di una maledizione”.


Il Cile fu sin dall'antichità una terra che, vista dall’alto, dalla prospettiva di una pagina bianca il cui bagliore oscuro e repentino aveva presto o tardi indebolito persino i miei occhi deboli, denota un certo interesse. Vista dagli occhi cisposi e neri di un autore che quando fui bambina inculcò il sogno di una generazione per giovani adulti e in particolare bambini, con gabbianelle e gatti che gli insegnarono a volare e uomini che amano cibarsi di libri e allo stesso tempo desiderosi di amare, fu un teatro di azioni che inscenò una guerra i cui relitti vagavano lungo la riva dell’assurdo affinché fuggissero in un luogo in cui nemmeno Dio avrebbe potuto trovarli, combattendo a testa alta affinché la verità spuntasse a galla. Sovrastati da uomini forti che combatterono innumerevoli battaglie in solitudine, operosi e diretti lungo una strada che appariva come il famoso Cammino di Santiago: irto di ostacoli, bombe che esplodevano in ogni parte, case borghesi inondate del fumo e dell’odore corroborante dei gas di scarico. L’orrore incastonato nel niente, nell’egoismo di uomini che non lasciarono nulla al caso, la combinazione di forza e prestigio su diversi fronti ( agricoli, culturali ) affinché niente e nessuno intralciasse il  transito di testimonianze che Luis Sepulveda intrappolò in queste pagine e che lo appassionarono: la sinistra di ieri e oggi, il significato politico dell’ambiente, la letteratura al di fuori di ogni schema, le forme adottate per raccontare la lotta, o, ancora, il carcere e l’esilio. Sarebbe bastato ascoltare, guardarsi intorno per prendere consapevolezza come l’odio prevalesse su ogni cosa, la lotta politica come espediente per raccontare di un paese che fu oscurato da riforme che tentarono di colonizzare il rame ma con conseguenze e scontri bellici disastrosi.

Nel 1970 il socialista Salvator Allende fu eletto con l’appoggio dell’unità popolare e il suo fu un tipo di governo che si confrontò con molti << problemi >>, fra cui l’opposizione dal resto in cui lo spettro politico delle élite economiche che tentarono di bloccare le sue riforme, nazionalizzò il rame purché il paese non cadesse in una forte crisi. Non giungesse a cifre impressionanti poiché ciò da mettere in atto era una rivoluzione democratica che sollevasse il popolo da queste turbe mentali.

Il futuro era l’invenzione di molti. In queste pagine è stato possibile scorgere profondi sentimenti di vendetta e giustizia, la vendetta di chi è stato soggetto a torture a vita in libertà da cui derivano punizioni eque, giuste, inesorabili. La finzione che avrebbe avvicinato chiunque, persino me che ignorava questo frammento di storia ma la cui luce ha abbagliato persino i miei occhi deboli, alla verità, a ciò che si evitava impunemente e volutamente mediante discorsi ufficiali della dinastia e del potere.

Questa Fine della storia appare come il preludio ad una morte imminente. In una settimana all’insegna del relax, dello svago e delle letture, questo testo si congedò nel mio cuore con nient'altro che gruppi di anime che, affollandosi nella lotteria della vita, prendono le redini della sopravvivenza, del loro Destino. E il Cile, questa terra magnifica ma deturpata da mali e obbrobri vari, diviene laboratorio di teorie neoliberiste dell’economia statunitense da cui si tenta di liberare il paese dal flusso del denaro proveniente dal fondo monetario internazionale dal quale si pose come condizione per elargire mediante l’applicazione di teorie che avrebbero dovuto ridurre la sovranità, disuguaglianze tra ricchi e poveri.

E chi aveva trasformato questo posto in un plotone d’azione cadrà nella rete della repressione più dura, soggiogando generazioni in generazioni, strappando a brandelli qualunque speranza vana di imporre a questa terra modelli radicati nella realizzazione  di un tipo di politica che poggi sull’ideologia marxista, socialista, prevedendo la retribuzione della ricchezza quanto la contemporaneità di mezzi di produzione e l'assegnazione delle terre ai contadini.

Come il titolo che riporta questo testo, il tutto si stanzia all'inizio di qualcosa che non ha una sua origine né una sua fine, ma manifestazione di libertà nonché parte integrante della vita dell’autore e di quella di altre migliaia di vittime i cui crimini imposti e indotti da forze esterne si relativizzano o giustificano mediante eufemismi, mantenendo viva la parte più oscura della memoria affinché ogni cosa restasse immutata e inviolabile.

Riporre qualunque speranza in gruppi di giovani cileni invitati a lavorare pur di costruire un progetto politico alternativo pur di allontanarsi dal mito della perenne crescita economica che possa costruire un nuovo mondo in cui poter vivere, se non si riconoscono gli errori di sinistra si rischia di andare incontro al dogmatismo. E quale sarebbe stato il prezzo, se non far rinascere una città dalle sue stesse ceneri? Un popolo dilaniato, sottomesso e la sua dittatura, benché il sistema politico istigato avesse le apparenze di una forma democratica. Sepulveda credeva a ciò e non lasciò mai a nessuno il minimo dubbio che mediante un'alleanza politica e democratica il Cile avrebbe potuto << reagire>>.

Scrivere diviene così forma sofisticata di viaggio perché proveniente da un luogo che arriva allo stesso e che per ricostruire per intero le realtà di cui parla l’autore sarebbe stato necessario osservare la sua autenticità. Cercando ogni cosa nel dettaglio, scandagliando a tal punto che la prosa che racchiude un secolo di storia sciolga ogni forma di divenire, diminuendo ogni distanza estrema fino alle coscienze prossime. Solo così sarebbe stato possibile riconoscere la voce o lo sguardo etico e indagatore di chi vuol dare voce a una storia.

Alla vita di quel settembre del 1977 resta forzato il ricordo di un'epoca passata, la forza di un esodo la cui immagine pone l’osservatore ad attingere ad una prosa che manipoli la realtà. Rivaluti ogni cosa, muova forme di rivolta in cui la realtà è consumata da un linguaggio immortale, dinanzi a una landa desolata prettamente scossa dalla frustrazione ma animata da una specie di dittatura che, persino dinanzi a Dio, ci rende equanimi.

Apolide del suo stesso luogo di nascita, in Sepulveda dominarono sentimenti rabbiosi di insane ingiustizie inferte nella mente e nei corpi martoriati di tanti cileni a cui è stato inflitto un dolore che verrà trasmesso in generazione in generazione.

Per comprendere il Cile di Sepulveda, tuttavia, credo sia necessario comprendere prima la storia del Golpe del 1973. Agli intellettuali spetta raccontare la storia dei vinti e questo è ciò che fa uno scrittore, assumendosi il ruolo o la responsabilità di declinare forme di nostalgia, quella che accomuna i cileni e gli italiani e il rimpianto di un tempo che sembrava donasse una visione felice prima che qualcuno risucchiasse anche la minima possibilità di essere migliori.

Una vocazione come la letteratura dovette misurarsi in un contesto politico pericoloso che si oppose dinanzi ad ogni cosa, esplicando un forte senso di libertà mancata. Dato che la letteratura funge da espediente per poter tornare in quel Cile, quel luogo sacro che sarà per sempre presente nel suo cuore e nei suoi libri, e da cui non volle tornare da vivo.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Storie ribelli

Autore: Luis Sepulveda

Casa editrice: Guanda

Prezzo: 18 €

N° di pagine: 304

Trama: In queste pagine vibranti di passione affiora di continuo il narratore di razza, con i racconti densi e fulminei che da sempre sono la sua cifra distintiva. Il volume si apre con un breve racconto, 11 settembre 1973: E ‘Johny’ prese il fucile, dedicato alla memoria di Oscar Reinaldo Lagos Rios, il più giovane della scorta che quel giorno maledetto restò fino alla fine accanto al presidente Allende nel palazzo della Moneda, e si chiude con il testo scritto a caldo nel giorno della morte di Pinochet. In mezzo i ricordi di una vita avventurosa, le vicende di cui sono protagonisti amici e «maestri» come, tra gli altri, Neruda, Saramago, le storie in cui filtra il suo impegno per la natura e l’ambiente… E su tutto il piacere di narrare.

La recensione:


Nessuno può né

deve sentirsi al di là del bene e del male, tanto meno noi

che abbiamo la responsabilità della parola scritta.


A volte ci si imbatte nella lettura di testi che, nella loro semplicità, incastonati però nel compendio di opere letterarie di chi le ha scritte, attuano processi catartici in cui in gioco c’è la propria sopravvivenza. Sembra un eufemismo, un’esagerazione, ma ad ogni istinto o forma naturale ci sono delle risposte, degli stimoli, degli impulsi. E seppur sulle prime non se ne è pienamente consapevoli, non mi sarebbe capitato un'altra volta di << incontrare >> un uomo che ammise come il suo bisogno di scrivere derivasse e fosse legato ad un impero unidimensionale, replicando come la negazione di alcuni valori che hanno umanizzato la vita di molti, soprattutto la sua, recluse forme di fraternità, uguaglianza, solidarietà o senso di giustizia, come quel sacro motto del 700 associato in particolare all’epoca della Rivoluzione francese. Scrivendo sarebbe stato possibile attuare quella barriera da cui avrebbe potuto barricarsi, proteggersi da qualunque impostore, alla frode di modelli sociali in cui non si credette alla globalizzazione attraverso cui si è più uniti quanto riconoscersi, intendersi e capirsi.

Da letterato ma anche da uomo, apolide e paziente, Luis Sepulveda nel riporre questi testi dovette attendere che il governo post dittatura gli concedesse la cittadinanza, prevalesse sul suo forte senso di giustizia, innescato già quando era ragazzo. La posta era parecchio alta. In gioco c’era il Cile, il suo paese natio, il cui destino era legato inesorabilmente dal futuro di molti, strettamente connesso alla comprensione e al superamento del passato. Attanagliato da feroci decreti, soprattutto quelli imposti nel 1973 e nel 1989 che rimossero la memoria mediante la forzata imposizione dell’amnesia come ragione di stato. Nemmeno i tiranni avrebbero potuto gestire un certo tipo di libertà se non fossero state aperte vecchie ferite. Ma gli uomini, l’essere umano in generale, doveva essere considerato al di fuori di tali leggi e la dignità superiore alle norme che il dolore, così supremo, impedì di prostrarsi come un bluff degli altri. Quelli che non ebbero voci e rivendicarono i loro diritti confidarono nella giustizia, affermando così una certa democrazia fondata su valori coraggiosamente civici e civili.

Ma lo smantellamento di tutti i diritti e di tutte le conquiste sindacali, l’abolizione dei contratti di lavoro, l’abbandono al libero mercato e alle responsabilità etiche dello stato generano nella storia del Cile fratture sociali che se non fossero state sanate in tempo avrebbero generato conseguenze imprevedibili.

Se le parole sono state utilizzate e usate in questo modo, a mio avviso egregiamente, siano giunte alle orecchie di chi legge esplicando una certa libertà, una certa onestà, comprese e spogliate del loro reale valore e dalla loro onestà, è perchè fecero ordine a quelle denunce di un popolo prostrato dal dolore affinché potessero scoprire le angosce stilistiche degli investitori in grave pericolo che incombettero sui loro guadagni. La parola in questo modo assume una certa serenità mediante ragione, il diritto di unire alla parola << umano >> un assioma di diritti inalienabili per tutti ma senza esclusioni quanto compresi e incriminati in forme di dittatura nemica.

Ispirato da diversi artisti fra cui Neruda, in Storie ribelli l’autore si affida all’idea che l’arte avrebbe dovuto superare i rancori di cui il rispetto è la linfa vitale di ogni cosa, dimostrazione solidale, moto di mancato rispetto e dimostrazione di disprezzo verso cui continua a subire una certa ingiustizia. Il modello imposto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa gli inculcò l’idea che ogni cosa dovesse cambiare affinché potesse essere ristabilita la pace, una certa normalità democratica. Poichè il Cile si nutriva ancora di moti violenti di rabbia, di terrore, odio da chi credeva fosse possibile vivere in un paese sterminato dalla guerra, dalla tortura mantenendo vivo il ricordo di chi combatte e perse la vita affinchè la dittatura finisse, obbligando i cittadini a una vita indegna, tremenda ma pacifica. Un cileno, in qualunque luogo si trovasse, gli bastò guardare verso sud pur di sentire sulla faccia l’aria australe che nella sua memoria profuma di solidarietà, fratellanza purchè un futuro migliore possa nascere.

Giungendo in un luogo in cui vi ero stata qualche giorno prima, il Cile fu quella terra parlante che raccontò come gruppi di GAP furono torturati, mutilati, assassinati da un orgia di sangue che militarmente schiacciarono ogni cosa, torturando anime dannate che lentamente si apprestano ad entrare ed usicre dalla lotteria della vita, condannandoli all’esilio e praticando il terrorismo internazionale al di fuori del paese. Restando in vita non solo nella mente di chi scrive ma anche di chi legge, perché aggrappati allo spettro della memoria, purchè la democrazia non si confonde con la passività sociale.

Aggrappata a questi pezzi di vita che si sono congelati come piccole diapositive nel nulla, così pericolose, sovversive, irriverenti, costellato da uomini e donne consapevoli della loro gioventù, della loro giustizia, confidai nella speranza che questo forte desiderio di creare una fonte inesauribile di conoscenza in cui serbare, conservare le parole, difenderle da qualunque ragione o ideologia di Bene e Male, avanzassero a piccoli passi in fallimenti in fallimenti di conquista in conquista. Scovando un ordine, occupando un posto speciale  nel mezzo della comunicazione.

Perchè scrivendo, soprattutto questi racconti, sarebbe stato possibile rifugiarsi, tornare in luoghi in cui avrebbe rievocato l’immagine di volti che non si vedevano da un sacco di tempo o che non si sarebbero più visti, perchè sono così i viaggi felici nei ricordi. Cronache di viaggio compiuto da amici, conoscenti che riportano la testimonianza, l’avidità di vincitori e vinti e i loro inesorabili cambiamenti dell’economia e il mancato desiderio di trasformare questo romanzo in una terra scomparsa. Ritraendo invece una terra, quella del sud, che è forza e memoria, a cui ci si aggrappa con amore e rabbia. Redigendo in un muro di brutture e sangue ancora fresco, storie militanti che redigono e raccontano la storia, quella con la s maiuscola, proiettata in un mondo in cui i personaggi si combinano in un odissea del Cile giovane e coraggioso. In un continuo processo di ritorno alla memoria, che si fa pagina dopo pagina sempre più viva e divinamente vitale, qualcosa in cui si predica la necessità dell’oblio come condizione transitoria alla democrazia.

Forse ognuno di questi personaggi, persino i più forti, furono vittime che svolsero un ruolo principale, soggiogati dalla banalità, dalla visione unilaterale di una frazione che aggiunge come postilla dei danni collaterali. Ma come per incanto le vittime si trasformano in qualcosa di indecifrabile, il dolore minimizzato e boicottato da ogni responsabilità.

Sepulveda condivise la piena definizione che uno scontro globale e i diritti umani fossero espediente migliore la cui struttura diventasse resistenza a quei diritti sacri e inalienabili che non possono essere manovrati. La libertà esiste al di là del dolore e affannandosi contro l’incertezza pur di ottenere un certo spazio fisico che renda reale l’idea di una patria, un focolare latinoamericano, avrebbero potuto rovesciare ogni cosa, ogni governo stabilire i limiti del mercato, depositando un certo senso di giustizia di coloro che hanno sofferto inconsapevoli delle loro radici.

Inondata da una sferzata di violenza, rabbia e dolore, il linguaggio che è stato adoperato per indagare una storia così infame come questa, un'ininterrotta contraffazione delle pagine più nere della storia del Cile in cui il ruolo di protagonista è riservato ai capisquadra delle forze armate cilene, che malgrado le torture e l’esilio, tennero in vita la fiamma della legittima resistenza, del dover opporsi con tutti i mezzi, comprese le armi, garantirono un modello economico basato sull’essenziale al pericolo della pena. Concedettero un pò di libertà a me che lessi, allo scrittore che scrisse, alla gente che visse tutto questo, suddividendo il paese immediatamente in piccoli agglomerati di sopravvivenza che, nel tempo, garantirono quel sogno tanto agognato quanto sperato da tutti: essere liberi di vivere.

Abbiamo imparato a vivere con quelli di cui sentiamo la mancanza, perché sono parte di noi, perché sappiamo come mai ci mancano, e perché la loro assenza la colmiamo di orgoglio.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: La favola di Amore e Psiche

Autore: Apuleio

Casa editrice: Feltrinelli
Prezzo: 8, 50 €
N° di pagine: 179
Trama: Comincia come ogni favola il racconto di Amore e Psiche, con un re e una regina e le loro tre figlie, tutte bellissime. Ma la grazia e lo splendore della più piccola, Psiche, sono talmente grandi da attirare le invidie di Venere: la dea della bellezza, per vendicarsi, decide di ricorrere all'aiuto di suo figlio Amore, a cui chiede di colpire Psiche con una delle sue infallibili frecce e di farla innamorare dell'ultimo degli uomini, il più vile e miserabile. Amore accetta, ma quando vede Psiche rimane così incantato dalla sua bellezza da distrarsi e pungersi con la freccia destinata alla ragazza, innamorandosi perdutamente di lei e portandola a vivere nel suo meraviglioso palazzo. A una condizione, però: che la sua amata rinunci a vederlo in viso. Ma una notte, istigata dalle sorelle invidiose, la ragazza cede alla curiosità e viola il patto. Paga duramente la colpa della disobbedienza ai precetti divini, ma infine, superate tutte le prove cui è sottoposta, viene accolta fra gli dèi e diviene immortale. Postfazione di Alessio Torino.

La recensione:

Quando si torna nel mondo dei comuni mortali, dopo che ero stata trasportata in un luogo che era distante anni di distanza, temporalmente parlando ma anche metaforicamente, mi dovetti sedere alla scrivania per prendere consapevolezza della realtà circostante. In una settimana all’insegna del relax, delle letture e del mare, accolsi la favola di Amore e Psiche con lo stesso slancio con cui si stringe a sé con grande forza una persona amata che non si vede da tanto: << Che felicità! E’ così bello rivederti! >>

Era un tipo di situazione comune, comunissima a dire il vero, che generalmente mi vede protagonista quando meno me lo aspetto. Ormai trentaduenne, non so mai come comportarmi quando la vita, così imprevedibile, mi si pone dinanzi certe sfide. Di natura sconosciuta o meno, detentori di elementi la cui linfa vitale deriva dalla curiosità. La curiosità che riverso in semplici risme di carta, e che solo quando le si legge, le si vive, assumono un significato. Un significato speciale, magico, fonte di sostentamento per la mia anima semplice ma appassionata. Come tanti altri, il tarlo della curiosità divora le mie viscere. Alimenta una fame, una sete insaziabile che generalmente altre letture dovrebbero smorzare quanto alimentare, ma arrivano dritto al mio petto con l’irruenza di uno tsunami. Come in tanti altri casi, anche in questo caso ho portato addosso il peso di un << errore >>, una delle cause principali delle azioni umane che hanno conseguito in una serie di diatribe, verbali e fisici, di cui ci si adorna o ci si spoglia come scontando una condanna. La protagonista di questa storia, anzi, questa favola, avvertirà il peso di tale condanna ma subirà il fascino di delizie celesti che, così pregni di religione e moralità, muovono un teatro di azioni che le restituiranno la sua dignità. Cadendo, purificandosi, elevandosi ad un mondo più alto affinché la sua dignità le sarà restituita.

Di primo acchito, quando di Amore e Psiche ero completamente ignara, dovetti adattarmi affinchè potessi comprenderne il valore. Il suo elemento principale, quello su cui ruota l’intero romanzo, è sicuramente questa curiosità di cui facevo prima cenno, e che come una malattia colpirà la bella Psiche ( passione soddisfatta ), ad approdare alle virtù dopo il viaggio nei mari della sventura che punisce il peccato. In un percorso di crescita dell’anima facilmente riconoscibile in quattro strati: quello orientale, quello platonico, quello alessandrino e quello retorico, attribuiti all’autore, Apuleio, per il tono falso dei personaggi, la sciatteria della loro caratterizzazione, l’imborghesimento delle divinità. Riconoscendo così una certa fedeltà ed aderenza all’originale, di qualunque originale si parli, esponendo una serie di certezze che saranno poi riconosciuti da molti.

Una congiunzione amorosa raccontata mediante quell’ultimo momento di felicità prima del dolore può esaltare il valore di un testo in cui, per quanto si tenti di ignorare il dolore, la felicità avrebbe soppresso qualunque elemento trascurabile. E il rifiuto della sottomissione e della reificazione della donna propria della società patriarcale esaminato mediante un processo di individualizzazione che, ribellandosi, diviene autonoma e indipendente, condotta all’amore consapevole e maturo in cui uomo e donna si amano alla pari.

Amore incondizionato? Non mi pare. Per comprendere appieno un testo come questo ho dovuto leggere alcuni testi, alcuni saggi che esamineranno la psicologia di Amore e Psiche, la poetica romanzesca di Apuleio e il modo per cui fece di questa favola un tentativo di conferire un’immagine chiara di una sua visione religiosa a certi elementi della produzione alessandrina, scelta dall’autore per quel preciso significato che volle dargli. Ignota esperienza ripresa da una novella già esistente nel mondo greco o pura invenzione dell’autore nel ricostruire un modello, un pensiero mistico come forma narrativa: il sentimentalismo, i motivi erotici, il preziosismo, il tono idilliaco che fanno parte dell’arte alessandrina ma anche apuleiana. Preziosa testimonianza dei rapporti di genere, incentrato in un periodo storico sorretto da un potere anarchico in cui la donna era continuamente soggetta a vessazioni, ad asservire a uomini forti ed egoisti. Il pubblico femminile greco avrebbe potuto interpretare il “gesto” di Psiche come vicenda o atto di ribellione poichè molte mezzane e matrone erano esenti dalle applicazioni della legge registrandosi come tale, disobbedendo chiaramente al voto civile.

Vista da diversi punti di vista, La Favola di Amore e Psiche è stata quell’esperienza di lettura piuttosto insolita. Ad appassionarmi è stata l’umanità di Psiche che dovette dibattersi fra umani e mostri poichè la società in cui era relegata come una piccola figura ne impediva qualunque distinzione, e, scontenta di ciò mossa da moti di coraggio, virtuosisimo che non credeva di possedere e che espugnano una visione distante e bistrattata del sesso forte da cui le donne greche tentarono di distaccarsi o ribellarsi.

La Grecia in cui alloggiai per una manciata di ore non era quella della Londra vittoriana di milleottocento di cui sono affezionata, quanto quella delle divinità. In un corollario di situazioni in cui si tenta di rintracciare le radici della donna, ascoltare la sua voce ed assistere ad un connubio di voci in cui spiritualmente o meno avrebbero restituito un frammento di storia che sono intrinsecamente legati all’anima e in cui l’infelicità di cui sarà affetta Psiche proviene dall’ignoranza, dal non conoscere. Conferendo una chiara immagine dell’esperienza individuale, caratterizzata dal rifiuto di essere relegata come donna in una condizione da subalterna. Appartenenti al mondo del mito ma la cui storia è strettamente legata a quella della fiaba. Alla magia del racconto che consiste nello stare sospesi fra inconsistenza della narrazione popolare, cioè la fiaba, e la consistenza di quei modelli archetipi propri della religione e della mitologia in equilibrio dinamico. Psiche è una principessa di celestiale bellezza che è venerata come una dea. Ma assieme a Eros esercita un certo fascino al quale il lettore non potrà sottrarsi. Assieme alle sue sorelle nutre profondi sentimenti di odio, e quasi sempre pronte ad abbandonare i mariti nell’immediato pur di vivere un matrimonio che è simbolo di schiavitù patriarcale, asserbendo a uomini egoisti e ossessivi. Uomini ostili che rappresentano una tipica posizione del patriarcato, sintomo del più chiaro atteggiamento matriarcale che genera nel sesso femminile nient’altro che moti di disgusto, rabbia, violenza e offesa. Figure represse o inconsce che producono un effetto di << causa/effetto>> e la cui determinazione conferisce alla fabula autonomia. Psiche riconoscerà così se stessa e la sua femminilità attraverso l’amore, prima per se stessa e poi per l’amato.

Amare diviene sinonimo di musicalità ma man mano che ci si avvicina ad una maggiore suggestività, calibrato da uno stile raffinato, da un ritmo sobrio e dalla figura di anime che sono affini misticamente, perché scissa nel corpo verso il divino. E la fabula di cui si adorna, definita milesia è strettamente legata all’erotismo perchè intavola aspetti realistici, grotteschi e di abiezione morale mentre il tono generale della novella è di delicato incanto adatto al contesto, quello cioè di consolare una ragazza impaurita. Contornata da diversi influssi: misterici ( per i valori simbolici ), mitologici (per personaggi e situazioni) popolari ( per elementi maturi strettamente legati alla favola). Il tono semplice mette in mostra una varietà di valori e sentimenti che sono tipici delle divinità alessandrine in cui domina una certa atmosfera piccolo borghese che vuole essere comica e burlesca.

Romanzo contenuto nelle Metamorfosi, testo che recupererò e vorrò leggere al più presto, generato dal racconto di un uomo, Lucio, che sperimentando con la magia muta in asino. E da ciò il suo significato allegorico: Cupido ( desiderio ) unito a Psiche ( anima) che dona l’immortalità ma anche fonde quel coraggio che spinge Psiche a vincere le sue paure. Racconto nel racconto che costituisce il senso di una storia principale di cui è sintesi concettuale e in cui il senso filosofico e iniziatico ad una figura che sarà svelata solo nella conclusione delle vicende di Lucio. In sequenze narrative della novella che replicano l’ordine delle vicende del romanzo: un’avventura erotica contornata dalla curiosità che provoca la perdita della condizione beata e le sue conseguenze di persecuzione divina. Lo << scioglimento >> del lieto fine grazie ad un ispirato intervento divino che trasformerà il protagonista curioso ( Psiche, Lucio ). E la richiesta d’aiuto del marito defunto genera timore, paura di essere posseduta dai defunti seppur non attendibile per la sua veridicità. Cioè se il romanzo sia nato dalla psicologia di quell’epoca o dall’idea che si allude ad un autentico processo psicologico di trasformazione, la cui singolarità raccoglie o racchiude in sé un mito, nessi mitologici di uno sviluppo al centro del quale si situa l’affrancamento, la liberazione dell’individuo dal mondo mitico primordiale e lo scioglimento della psiche. Definito fiabesco perché ricco di motivi archetipi che ricorrono in luoghi diversi e possibilmente letto mediante svariate chiavi di lettura: come metafora del viaggio trasformativo del femminile; come cammino dell’anima  nel suo percorso evolutivo tragico verso l’amore. La cui espressione allegorica sembra non essere presente nel suo singolo oggetto o situazione quanto nel suo complesso, se la sua conclusione può definirsi religiosa o meno. Ambivalente, fra divertimento e serietà, strettamente legato alla letteratura alessandrina in cui la divinità è umanizzata e intrecciata ad un certo tono frivolo.

Romanzo che in epoca odierna può essere considerato promotore di resistenza femminile che si confronta con innumerevoli esegesi letterarie del mito, scoprendone l’incanto sospeso fra mito e fiaba pur di apprezzare la complessità dell’oggetto. Generando un dialogo molto stretto fra letteratura e arte, Apuleio proclamò la necessità di seguire una divinità da cui l’estensione della novella induce ad osservare l’anima così com’è e l’analogia a sottolineare l’errore della fanciulla, la sua sofferenza e la sua purificazione. Soppiantando Psiche ed eliminando Lucio nel mondo del mito in cui il messaggio è reso universale.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica

Autore: Barbara O’Brien

Casa editrice: Adelphi

Prezzo: 19€

N° di pagine: 250

Trama:Immaginate di svegliarvi una mattina come le altre e vedere ai piedi del vostro letto tre figure spettrali, ma terribilmente vere - un ragazzino con un sorriso stampato sul volto, un uomo anziano dall'aria autorevole, che ispira fiducia, uno strano individuo con lunghi capelli dritti e neri, lineamenti femminei e un'espressione arrogante. E immaginate, da quel giorno in poi, di non poter più pensare liberamente, di diventare le cavie di un oscuro esperimento e non poter fare altro che eseguire i loro ordini. È quello che è accaduto a Barbara O'Brien, pseudonimo di una giovane donna che alla fine degli anni Cinquanta ha pubblicato questo libro: una delle più straordinarie testimonianze dall'interno di un delirio schizofrenico durato sei mesi, da cui miracolosamente, e con le sue sole forze, è riuscita a liberarsi. Ma chi sono quelle figure che ha visto materializzarsi nella sua stanza, e cosa vogliono da lei? Sono gli «Operatori», occhiuti guardiani che nel suo universo paranoide studiano, sorvegliano, escogitano sempre nuovi modi per esercitare potere sulle loro vittime, le «Cose», a cui non resta che guardare e aspettare. Eppure, usciti insieme a lei dalla cronaca del suo delirio, ci sembra di avvertire una strana affinità fra l'operare di quelle feroci e persecutorie presenze e la struttura stessa su cui si regge il mondo chiamato «normale».

La recensione:

Quando la paura arriva a quello stadio, la tua mente comincia a far germogliare strane alterazioni.

Al tempo in cui ignoravo esistessero certe malattie, in cui leggevo esclusivamente per diletto e non per acculturarmi, nella mia breve vita non mi era mai capitato di incontrare o avere a che fare con persone affette da schizofrenia, gente apparentemente razionale che in un nanosecondo mostrano un’altra faccia, mutano forma e personalità. La ragione era messa a tacere e in dubbio, in relazione alla società e al mondo circostante, sboccando in forme o stimoli allucinanti e allucinogene. Molti scienziati si domandarono come e perché dietro a certi gesti irrompessero forme di anti stato d’eccezione. Svariate possono essere le cause o le basi su cui si fonda la malattia della schizofrenia: l’ambiente circostante, stimoli esterni ed interni, alimentati da disturbi alimentari. Ma quando si riconosce il malato come tale, si raggiunge un luogo - metaforicamente parlando - in cui si sente di appartenere e in cui ogni certezza o conoscenza svanisce.

In Operatori e cose, alla medesima situazione o episodio di schizofrenia, l’autrice avvertì l’esigenza di riversare in questa pagine un senso di prigionia, incomprensione poiché consumata dalla vita stessa. La vita di ognuno di noi che sfugge al dominio individuale, accettando come spesso tali stimoli derivino da conseguenze esterne, cause, derivazioni di visioni microcosmiche e macrocosmiche in cui ogni dettaglio è ingigantito, conducendo il paziente a perdere la ragione.

E di azioni o gesti strani, la ragione spesso ci spinge a compierli e a portarci a vedere zone in cui la nostra psiche può perdersi. Letteralmente. Nei mesi in cui l’autrice dedicò alla stesura di questo testo, fece della scrittura come un piccolo dono che gli nacque dentro, e come un verme si nutrì della sua carne che nella stagione primaverile sarebbe germogliato con foglie verdi che danno sul nero. Questa combinazione parassitaria ha un chè di magico nonché benefico per l’anima di una ragazza che non crede al concetto di guarigione, strettamente legato alla possibilità di adempiere a certe esigenze della vita. E, chi la circondò, ovvero i medici che tentarono di aiutarla, quegli operatori che la studiarono come una cavia di laboratorio, nei minimi particolari, analizzando ogni cosa, ogni nozione cognitiva che stimolasse azioni o ricordi che si possono interpretare, leggere e attraverso cui l’autrice descrive il decorso e la cura di una grave malattia mentale. La schizofrenia dà sfogo ad uno stato di decadimento mentale e psichico che tuttavia resta in possesso di un anima, di un intelligenza, di sentimenti che a volte è impossibile da esorcizzare.

Nel tempo, svariati sono stati quegli studi in cui la schizofrenia è stata trattata o ponderata come principale effetto o causa su cui si fonda tale malattia. Poiché è la natura stessa di tale malattia ad essere devastante, gigantesca, a nascondersi dietro forme oscure da cui dipendono l’esistenza del malato ma anche dai suoi cari, sfuggendo al controllo dei suoi simili perché dominato dalla stessa. Calibrata da un lavoro continuo del inconscio perché scava in profondità, riesumando ogni cosa, trapelando forme atipiche o di mancata ipnosi attraverso cui è possibile riscontrare una certa libertà.

Non sempre evidenti, ma ci sono cerchie di persone che sono affette da questa terribile malattia che, mescolandosi col prossimo, si camuffano nel presente al fine di sentirsi normali, accettati non solo dalla società circostante ma dai loro cari. Piccole piantine che sarebbero cresciute nello stesso terreno, ma che a lungo andare avrebbero dato frutti marci.

Dall’esterno i malati affetti da schizofrenia divengono mostruosità e fonti di pericolo. E ciò genera alienazione, incomprensione riconoscendo o risvegliando elementi nascosti che sono insiti in ognuno di noi, mostrando così il vero fondamento del reale nella sua specie più elevata. L’azione morale scaturisce dall’esuberanza spirituale dell’essere ed è fondata sulla gioia del rischio comune a molte attività umane. Così come esiste il rischio guerresco in cui l’istinto biologico della vita animale si compiace del pericolo che porta in sé l'avventura, esiste così un rischio metafisico per il quale non esistono dogmi fissi ma svariate possibilità del reale. Supponendo come, per risolvere tale problema, possa essere necessario prendere come idea direttiva quella del bene, del buono o del valore che si prende in teoria di quella di giusto o di dovere, determinando le cose in cui consiste il Bene. Fondando una morale universalmente valida che stabilisca una regola d’azione obiettivamente e riconosciuta come morale destinata a fallire miseramente. Poiché il piacere non si presenta come entità obiettiva quanto variabile da uomo a uomo, né esiste una competenza universale riconosciuta come tale dagli uomini in materia di qualificazione morale delle azioni poiché ogni cosa mira alla felicità propria o a quella degli altri. Il modo irriducibile e irrimediabile di concepire la felicità altrui da parte della coscienza giudicante mette in luce il carattere personale e come tale, incensurabile e non insegnabile della condotta umana.

Di fatto se una morale razionale potesse sussistere, questa sarebbe già una morale volontaria o kantiana che non dà un motivo o un perché alle azioni e dunque si basa su fondamenti razionali privi di logica e che mediante utilitarismo - l’utile come motivo di azione umana -, consegue azioni che scaturiscono da un principio misterioso. Da una demoniaca forza interiore di cui bisogna postulare l’esistenza, se si vuol spiegare il motivo per cui certi individui a volte agiscono come pazzi.

Valutazione d’inchiostro: 3


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Titolo: Lily. Storia di una vendetta

Autore: Rose Tremain

Casa editrice: Einaudi

Prezzo: 19, 50€

N° di pagine: 272

Trama: Appena partorita, in una notte d’inverno del 1850, la piccola Lily è stata abbandonata ai cancelli di un parco londinese, in balia dei lupi e del gelo notturno. Salvata per caso da un agente di polizia, ha conosciuto per breve tempo il conforto di una casa, prima di essere rigettata nel crudele mondo delle istituzioni vittoriane. Ad attenderla, ora che è cresciuta, c’è la salvezza o la rovina? Cosa accadrà quando l’uomo che le fa battere il cuore scoprirà che Lily è un’assassina? C’è chi passa la sua prima notte di vita in una morbida culla, circondato dall’affetto dei genitori, e chi invece no. Lily Mortimer è stata infilata in un sacco e lasciata ai cancelli di un parco, esposta al gelo e alle bestie feroci. Si è salvata solo per il passaggio fortuito di un giovane agente di polizia. Affidata alle cure amorevoli di una contadina, ha trascorso i suoi primi sei anni di vita tra i luminosi campi del Suffolk, ma poi, come prescritto dalla legge, il grigiore di Londra e la freddezza dell’orfanotrofio l’hanno reclamata indietro. Punizioni, cattiverie e soprusi sono stati a lungo la quotidiana ricetta del Foundling Hospital per soffocare ogni ribellione di Lily e degli altri bambini orfani e indigenti come lei. Ora, a quasi diciassette anni, la giovane è finalmente libera e, grazie alle sue doti nel cucito, ha un impiego gratificante in un emporio di parrucche. In più, un sorriso gentile ogni domenica in chiesa la conforta: che il futuro le riservi finalmente l’attesa serenità? Ma il passato non allenta la morsa su di lei. La assillano sempre gli stessi orribili ricordi, il senso di colpa e la paura della forca. Perché nessuno ancora lo sa, ma Lily è un’assassina...

La recensione:

La storia che ho letto fra le pagine di Lily. Storia di una vendetta è stata davvero utilissima, seppur inappagante. Io mi ero fatta un'idea di questa povera ragazza, orfana e perennemente sballottolata da un posto ad un altro, da un orfanotrofio ad un altro, e l'autrice, Rose Tremain che la concepì in un certo << modo >>. Un'idea strettamente legata a scopi affettivi, mi è parso di capire fra le pagine di questo romanzo, perché quando la sera mi mossi agile sotto la luce di lampioni a gas che si facevano sempre più tenui, strade buie e ombrose e un cielo luminoso, fulgido di stelle, scorsi una parte di me stessa, catapultata in una Londra toccante, magica, oscura, la cui energia è celata nella cosa in se. Con la quale è dipinta, è caratterizzata, tetra come un fiore smorto.

Meraviglioso. Ma come tornarci indietro? Qual'era la sua vera essenza?

Innanzitutto, procedo spedita in una città che pullula di terrore persino di giorno. Mi scopro sbalordita nel fissare magnifiche carrozze che sovente arrivano in città e la finezza di uomini ben vestiti, in una dimensione affascinante come un dipinto, in cui le notti si rivelano spettacolo di grandi sofferenze, così spaventose che indugiano persino nella testa. Dissolvendo la tranquillità, la pace dei sensi, spingendo all'angoscia, alla paura nel cuore, afferrandolo e stringendolo nella presa salda del terrore.

Speranzosa della lettura, per qualche giorno, mi sono lasciata "cullare" da una certa malinconia e uno strano senso di sconforto che hanno svuotato la mia anima. Silenziosamente, col cuore che batteva forte, e nelle orecchie la voce poco armoniosa di una donna oppressa dalla vendetta e dalla prigionia. Costretta a vivere in una gabbia dorata, agghindata ma ribelle, come un uccello esotico che può solamente saltellare da un trespolo all'altro. Protagonista di un mondo fatto di figurine di vetro e di maschere mortuarie, nel richiamo costante di un passato irrecuperabile, che la costringe a vagare come un ombra, scialba e priva di vita, senza alcuna volontà o necessità, non propriamente ingenua e un po' bigotta, per le strade di questa magica capitale inglese. Così terribilmente veritiero, naturale, quanto fiabesco e luminoso.

La storia che la Tremain si porta dentro, l'eco di parole che credo di poter un giorno dimenticare, si intrufolano repentinamente nelle stanze remote della mia coscienza. Aprendo un varco nei recessi più reconditi, erigendo un castello di parole al quale in questi ultimi giorni di agosto, fra una lettura e un’altra, un tuffo e un altro, non ho sentito come mie. Nella vana speranza di rivivere ciò che serbò il suo cuore in prima persona, e tutto ciò cui credo di essermi persa. Frugando in mezzo a vicoli bui e orripilanti, come un animale selvatico, per trovarci qualcosa. Cosa? Assolutamente niente! La misteriosa e inspiegabile identità di un uomo che reca il presagio di una lenta sofferenza. Mentre la clessidra del tempo continua a scorrere, l'anima chiede risposte a domande la cui natura è sconosciuta. Schiva dal reale e dal possibile, come la lucentezza di una stella.

Un'autrice che ha studiato il soggetto con un certo interesse, immaginando nei panni delle vittime; una storia in cui il male è un miraggio, un inganno o una fantasia qualcosa di intangibile, effettivamente irreale, e poco autentico come un sogno che diviene un incubo, in un mondo oppresso e oscuro come la notte, non ha illuminato le stanze buie del mio animo, come avrei voluto. Tuttavia, è un'opera che mi ha permesso di vestire i panni di una donna dall'animo coraggioso e sensibile, curiosa e consapevole di essere entrata in un nuovo cielo di persecuzione, nipote remissiva, nobile ma indegna di ciò che possiede. Una storia oscura e suggestiva che avrebbe potuto essere raccontata diversamente, personaggi il cui animo ancora sonnecchia, un uomo malvagio e crudele che confonde il piacere con la morte, spingendo il suo spirito a desiderare che tutto sia malvagio.

Freddo e silenzioso come la solitudine, alla fine, il bello della sua lettura, sta nell'epoca in cui è ambientato. In un mondo senza armonia e amore, che ha segnato i momenti più belli della sua lettura. Non potendomi connettere a un livello così intimo da  poter esserne travolta.

Valutazione d’inchiostro: 2 e mezzo

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