Non c’è niente da fare. Potrei riempire pagine e pagine di
annotazioni, pensieri, frasi sparse e senza senso, ma Irène Nèmirovsky, la mia
amata Irène Nèmirovsky, che pian pianino sta occupando uno spazio sempre più
importante sugli scaffali delle mie librerie, da quando è stata accidentalmente
trovata, scoperta e amata, confinata in una squallida stanza di un apparmento
francese, mi ha allietata, accompagnata in momenti particolari della mia vita
la cui presenza è un plauso perché la sua anima – così come tanti altri autori
che amo particolarmente – coincide perfettamente con la mia.
Avrei dovuto tenere a bada certi pensieri, ma ritrovarsi
nuovamente qui, a riporre nero su bianco le mie vivide impressioni sulla
lettura di due romanzi, apparentemente diversi, ma che rievocano le atmosfere
ovattate, un po’ soffocanti di famiglie capitolate che lentamente si avviano
lungo la strada dell’incertezza, dello sfacelo, una sorta di dissolvimento non
privo di fascino, mi indusse a riconoscerne ancora una volta la grandezza e
ritrarmi così fra le pagine di due parabole che scrutano l’animo di chiunque, i
sentimenti, le passioni, il fervore che si porge a certe situazioni di
sopravvivenza che apparentemente rendono invicibili ma indifesi. Poiché guidati
da un forte senso di dilettuosa disperazione, quel senso di angoscia che prende
quando ogni rimasuglio di felicità è completamente svanito.
Titolo: Due
Autore: Irène Nèmirovsky
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 11 €
N° di pagine: 237
Trama: Le giovani coppie che vediamo amoreggiare in una notte
primaverile ( la Grande Guerra è finita da pochi mesi, e loro sono i fortunati,
quelli che alla carneficina delle trincee sono riusciti a sopravvivere ) hanno,
apparentemente, un solo desiderio: godere, in una immediatezza senza domani,
ignorando “il lato sordido” della vita, soffocando “ la paura dell’ombra”. Eppure,
quasi sulla soglia del romanzo, uno dei protagonisti si pone una domanda – “
Come avviene, nel matrimonio, il passaggio dell’amore all’amicizia? Quando si
smette di tormentarsi a vicenda e si comincia finalmente a volersi bene?” – che
ne costituirà il filo conduttore.
La recensione:
Per vivere felici abbiamo bisogno
di una parvenza di sicurezza. Abbiamo bisogno di creare noi stessi, la nostra
leggenda. E, piano piano, al di fuori di noi, essa si crea.
Il mio progetto letterario di cibarmi di qualunque opera scritta o
pubblicata da Irène Nèmirovsky prosegue imperterrito. Nel mese che ci stiamo
lentamente lasciando alle spalle mi vide impelagata, ancora una volta, in
faccende, situazioni sentimentali e famigliari, nel quale mi sono ritrovata –
anche se non intensamente, e per fortuna – ambiziosa nel voler raggiungere il
mio obiettivo. Cibarmi di qualunque romanzo la Nèmirovsky scrisse. Senza ascoltare
niente e nessuno, mi sono così fiondata nelle pagine di Due, al termine del quale anelavo di leggere qualcos’altro,
desiderosa di tornare presto nella Francia nazista vissuta dall’autrice. Avevo finito
così di nutrire un amore viscerale, intenso, un adorazione quasi inconsapevole
e fervida, che romanzo dopo romanzo cresce a dismisura, maledicendo la mia
insana reticenza a non averlo provato prima. Ma adesso non posso farci niente,
e il lato positivo in tutto questo, mi dico sempre, è che i libri sono
pazienti, e si lasciano leggere a seconda dei venti della vita.
Giunta al termine di questo percorso, la Nèmirovsky mi mancherà,
per usare un eufemismo, mi mancherà perché leggere una o due opere al mese è
quasi divenuto un rito, un’abitudine che ogniqualvolta accolgo con entusiasmo,
intensità, fervore, bramosia, e contemplare questo percorso ridursi lentamente
e a dismisura avrebbe segnato la tristezza e un nuovo tipo di solitudine.
Per fortuna tale momento dovrà ancora giungere, e Due fu l’unico spazio di paradiso che ho
desiderato concedermi, in questi ultimi giorni di maggio. Mi ero guadagnata il
diritto di seguire la Nèmirovsky in qualunque posto sperduto dell’universo, una
specie di libertà di pensiero a cui mi sono avvalsa completamente e nell’immediato,
perché ciò che scrisse l’autrice fu qualcosa di straordinario, meraviglioso. Impossibile
da scrivere o descrivere a parole, basate su esperienze vissute in prima
persona col solo scopo di farci venire voglia di sentirci unanimi, comprensivi,
rattristati nel vivere sulla pelle situazioni che avrebbero potuto
appartenerci, o che hanno fatto parte della vita dei nostri nonni, con un mondo
e uno stile più grande e intangibile, da cui amo rifugiarmi e sfuggire dalla
monotonia e l’inquietudine di questi giorni. Due mondi contrapposti, il mio e
quello della Nèmirovsky, nel quale tuttavia sfociano una serie di eventi,
sfociano un guazzabuglio di sentimenti o emozioni che non sono altro che viaggi
dell’anima che spesso e non poche volte mi hanno fatto sprofondare sottoterra. E
lo si nota già dalle atmosfere ovattate, soffocanti, che attanagliano le viscere come una morsa, il ritmo lento ma denso e flussuoso che scandaglia
momenti di felicità a momenti di pura e vera consternazione, traballando e
intonando un coro di strepiti mentre le minacce dei gerarchi nazisti macinano
intere famiglie o generazioni. Che tristezza star seduta comodamente nella mia
poltrona preferita a non poter fare niente e guardare da una finestra virtuale
il paesaggio inquieto, macabro e degradato della Francia dei primi anni 40,
fonte di grande ispirazione, circondata da macerie che mi circondavano nel
mentre leggevo il romanzo, opera che a mio avviso nessuno potrà eguagliare o
imitare. Stare sul ponte di un traghetto quando il tempo era un minimo decente,
col vento in faccia, i gabbiani che volteggiavano in alto, un guazzabuglio di
pensieri contrastanti, emozioni che dilaniano da dentro. Un viaggio
normalissimo, tutto sommato, ma che compio sempre perché ritratti con un certo
lirismo, il più bello e indimenticabile di tutti i viaggi che ho compiuto,
lasciandomi dietro alle spalle qualunque cosa, pur di andare dritta verso tutto
questo. A scovare la tranquillità, la rassicurazione intensa non solo
fisicamente ma moralmente, a un certo tipo di libertà che è possibile cogliere
in qualunque momento o istante. Quel vano ricominciare da capo, quel vano
tentativo di trascorrere del tempo prezioso con chi ci ama e rispetta
veramente, quella banalità stessa che turba l’anima, l’amore inteso come
sentimento assoluto e travolgente, sono tutti racchiusi in perfette entità che
l’individuo attinge dai suoi stessi pensieri, dalla loro profonda e ambigua
natura. Inflessioni d’animo che in un primo momento potrebbero cambiare certi
pregi o modificare certi difetti, ed in un altro dissipare quella sensazione di
aver camminato a tentoni per troppo tempo, circondati da vani tumulti che solo
il tempo e l’età potranno dissipare.
Due è stata quella parabola amorosa,
delicata e sensuale che funge da lotta sorda fra due nemici e amanti nel quale
prevale ciò che è effimero, un apporto diverso col mondo esterno, la fantasia
di un momento, un sogno, anziché la sua vera e propria interpretazione che,
dinanzi a numerose e fragorose tempeste, è un’alleanza perpetua e continua
contro tutto ciò che minaccia un quieto riposo, quella pace che sarà
conquistata a caro prezzo.
Esistiamo l’uno per l’altro, noi
che prima ci eravamo indifferenti. Immagino che possa arrivare il giorno in cui
sarà il resto del mondo a esserci indifferenti.
Valutazione d’inchiostro: 4 +
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Titolo: Il signore delle anime
Autore: Irène Nèmirovsky
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 10€
N° di pagine: 240
Trama: “Appartengo a una razza levantina, oscura, c’è in me un
miscuglio di sangue greco e italiano: sono uno di quelli che voi francesi
chiamate metechi, immigrati “ dice, a una donna in cui vede l’immagine stessa
della purezza. Dario Asfar, giovane medico che negli anni successivi alla prima
guerra mondiale conduce un’esistenza miserabile nel Sud della Francia. E con
sorprendente chiaroveggenza conclude: “ Io credo che esista una fatalità, una
maledizione. Credo che il mio destino era di essere un mascalzone, un
ciarlatano … non si sfugge al proprio destino. Anche quando, molti anni dopo,
non sarà più il “medicastro” che con il suo aspetto “miserabile e selvatico “ e
il suo accento straniero ispira solo diffidenza, anche quando sarà diventato
ricco e famoso, e l’alta società parigina andrà umilmente a chiedergli di
guarirla da quelle malattie dell’anima, da quelle “turbe psichiche, da quelle “fobie
inspiegabili” che solo lui, il master of souls ( come viene definito da chi lo
accusa di sfruttare la credulità del prossimo ), è in grado di curare – anche
allora il dottor Asfar si porterà dietro il marchio indelebile del suo destino,
delle sue origini, del suo sangue. E quegli angiporti dell’Oriente da cui
proviene, e che ha cercato di lasciarsi alle spalle, gli rimarranno per sempre
negli occhi.
La recensione:
Bisogna trasformare il male in
nuove forze. Sopprimere il senso di colpa legato a quella parte di se che lei,
per eredità, per educazione, per un residuo di morale religiosa, giudica
cattiva. È il senso di colpa a generare la sofferenza. Non è l’origine del male
che conta, ma il sentimento di vergogna a cui si accompagna, ed è questo che
dovremmo annientare.
All’età di trentacinque anni, Dario Asfar ha raccolto sulle
proprie spalle un buon numero di esperienze sufficienti per giungere ad alcune
conclusioni definitive sulla sua professione di medico. Nella scala sociale in
cui è collocato, nella cerchia ristretta di popolazione che vi fa parte, ha
collocato mentalmente i nomi di quelle famiglie che avrebbero accettato la sua
pratica: la vecchia matrona di un appartamento umido e puzzolente, la moglie di
un ricco medico, la benitenzionata ma volubile signora Weiner. Una misera
cerchia di persone, anime dannate che si affidaronno completamente alle cure di
questo giovane ma sfortunato curato francese con maggiori moti di gratitudine
che di necessità sanitaria, che vagano lungo la riva dell’assurdo, dilaniati
dalla paura, da qualcosa che come un alito di vento, un chiarore dei ricordi,
dei sogni, dà l’impressione di essere minacciati da un castigo per crimini che
si ha commesso e poi dimenticati.
Dario fu quel contrappeso a cui è stata strappata la dignità, il
decoro, perché prostrato dalla fame, dalla miseria, che cammina in mezzo a
spiriti che si tengono per mano il cui cuore, così colmo di odio, fiele,
indurito e chiuso da tanti anni, è dilaniato da torti e dispiaceri subiti. La nascita
del suo primo figlio, Daniel, fu quel regalo inaspettato, quel dono di vita
nascosto sotto un mucchio di debiti, coperte sgualcite e maleodoranti che non
portò quella pace o felicità sperata. Colpa dello stesso Dario che non aveva
considerato tutto questo, dovette abituarsi a tante di quelle cose che non
seppe più cosa pensare di quella creatura goffa e sorridente che si agitava
nelle braccia della madre, una donna silenziosa, inquieta ma succube di
qualunque evento o conseguenza che con quella matassa di capelli ricci, l’aria
spenta, somigliava a quelle donne o mogli che nell’epoca nazista subirono
sopprusi e violenze.
Dario Asfar non aveva pensato che la vita sarebbe stata così
ingiusta con lui e la sua famiglia, ma la vita da signori era ascesa a vette
sempre più eccelse da quando si incamminò lungo l’impervio cammino della
professione di dottore. L’impero in espansione del Reich era oramai del tutto
naufragato, ma la città di Nizza avvertiva ancora il peso di ridotti
consumatori locali che si concedavano pochissimi lussi, vivevano sul lastrico,
alla mercè di un Fato crudele ed egoista che si era abbattutto nei loro cuori
con la furia e la prepotenza di enormi tempeste. Considerati come relitti,
anime vagabonde che popolano questa landa deserta senza alcuna meta da
raggiungere, con un'altra parte di cittadini – quella più ridotta – di cittadini
che investivano in diverse questioni economiche per riporre i loro <<
beni >>, le loro ricchezze in cassaforti che potranno garantirli
sicurezza e tranquillità. Dario Asfar aspira esattamente a questo: non
diventare ricco, ma un re della vendita al dettaglio urbano. L’esimo profeta
dei profughi, dei poveri, dei deboli o affamati che a furia di curarli, avrebbe stracciato qualunque falla o perturbamento.
La crescita professionale di Dario, tuttavia, non comporterà i
vantaggi sperati, una scattante ripresa per se e la sua famiglia, piuttosto la
cessazione di qualunque sprazzo di luce, qualunque barlume di speranza che
segnerà la fine della sua carriera. La sua costante presenza, non era più così
costante. Le visite scarseggiavano giorno dopo giorno. A che pro confidare in
qualcosa che non prosperi nella cultura, nella ricchezza morale, nelle virtù di
un paese che avanza lentamente e sempre più nel fango? E con tutto quello che
spese e dovette spendere, quella sfrenata opulenza, non vedeva proprio in che
modo il suo modo di scrutare l’anima di chiunque potesse pesare sul suo
bilancio.
Secondo quanto riportano le ultime pagine di questo romanzo, la
Nèmirovsky si documentò per mesi e mesi, spiegando come la genesi de Il signore della anime si trovò nella
sue svariate esperienze editoriali. Ci furono alcune situazioni che, nell’arco
temporale della fine degli anni 30 e l’inizio degli anni 40, scemarono la lista
dei possibili affidatari ad opere inedite, poiché deteriorati dall’egoismo,
dalla predominanza del più forte sul più debole.
Vi ho respirato un aria greve, ovattata, quasi soffocante fra le
sue pagine. Quella luce brillante ed intensa che avrebbe dovuto sfociare lungo
un tunnel oscuro e interminabile, nonostante ci si aggrappa all’esperienze,
alla forza o all’astuzia a cui ci si affida per allontanarsi tendenzialmente,
fu proiettata su di me come relitto di una stirpe di poveri disgraziati che non
saranno mai sazi. In balia di eventi che per colpa di sfortuna o incauti
sussulti del cuore, tenne Dario fuori da un progetto che avrebbe potuto tirarlo
fuori da qualunque guaio. Permeato da un forte senso di pietà, drammaticità che
sedimenta nell’anima di chiunque, in un bellissimo scenario, che è quello del
tempo dell’autrice, è la rappresentazione psicologica dell’uomo misantropo ed
egocentrico. Colui che coglie il male assoluto in piccole porzioni di avventure
amorose e adultere, e finalmente, quando comprenderò il vero e proprio
significato della vita, troverà il coraggio di affrontare ciò che ha bruciato
sulla sua testa per così tanto tempo. Perdendo però ogni cosa. Qualunque cosa,
affetto o legame famigliare.
Il signore delle anime è un opera nel quale l’autrice è
stata, a mio avviso, bravissima nell’esporci le sue ragioni, i suoi motivi per
cui l’individuo è così egocentrico, tendenzialmente tragico, dilaniato da
eventi persuasivi, intelligenti, sensuali, inaspettati, che con la sua voce
imprevedibile, ingovernabile, non più comprensiva ma pietosa si innalza nelle
bassezze più recondite dell’animo umano. Alla ricerca di quel timbro
definitivo, quello strumento che conferisca un certo potere, una certa
autorevolezza, anche a costo di apparire ridicola. Per quanto mi riguarda,
abbastanza bello e indimenticabile da comprendere la sua posizione in questo
quadro nella scalinata generale dell’umana lotta, condizionata dall’infelicità,
dall’incapacità di accettare quei doni che svariatamente concede la vita, ma in
cui i sentimenti sono sentimenti, perché nessuno sforzo di egoismo o malvagità
dei suoi figli di carta potrà cambiare quello che sento nei riguardi di qeusta
autrice.
Valutazione d’inchiostro: 4 e
mezzo
Si è capito? Di questa autrice mi fai desiderare tutto.
RispondiEliminaAllora leggi qualcosa di suo!!
EliminaEccomi :) Di quest'autrice ho letto solo David Golder, che mi aveva lasciato un vuoto terribile perché quel poveretto mi faceva davvero pena. Poi non mi ero mai più ricordata di lei (ed ora mi ammazzerai ahah). Ma ho letto questo tuo post e mi sono detta che DEVO leggere qualcos'altro e Due sembra faccia al caso mio... quest'atmosfera ovattata, queste emozioni e le riflessioni che animano le pagine sembrano d'oro *_* Grazie
RispondiEliminaMa grazie a te 💋 fammi sapere, se leggerai qualcosa di suo 💋💋
EliminaI don't know about this book, but seems interesting. Thanks for sharing.
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Thank you! ☺️☺️
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