La
morte di Zafon ha distrutto il mio universo personale, poco più di un impatto
al suolo ma dalle dimensioni gigantesche per crudeltà del destino, e la
pubblicazione di questa raccolta di racconti postumi che funse da beneficio per
qualunque anima appassionata dello scrittore spagnolo, ospita un insieme di
storie, sul finire del 1900 o agli albori, una popolazione in parte che io come
tanti altri lettori ebbi modo di conoscere anni fa, una fetta della quale
compongono questa Città di vapore. Uomini e donne le cui gesta convorgono con
questioni relative a Il cimitero dei libri dimenticati, nessuno però che non
riesca a non rievocare questa bellissima e inspiegabile magia di questo
santuario magico, e solo meno di duecento pagine mi resero monocromatica alle
vicende ritratte. Perché anche dopo tanto tempo, a distanza dell’ennesima
rilettura, il ricordo di Carlos Ruiz Zafon perpetuerà nel tempo, nel mio cuore
mediante ogni romanzo scritto, ogni frase riversata su fogli o pagine bianche. Come
tentativo per sentirsi vivi anche quando si è consapevoli che non è così,
donando la vita in tutti i sensi.
Titolo:
La città di vapore
Autore:
Carlos Ruiz Zafon
Casa
editrice: Oscar Mondadori
Prezzo:
18, 50 €
N°
di pagine: 180
Trama:
<< Posso evocare i volti dei bambini del quartiere della Ribera con cui a
volte giocavo o facevo a botte per strada, ma non ce n’è nessuno che desideri
riscattare dal paese dell’indifferenza. Nessuno tranne quello di Blanca
>>. Si apre così la raccolta di racconti che lo scrittore dell’indimenticabile
saga del Cimitero dei libri dimenticati ha voluto lasciare ai suoi lettori. Un ragazzino
decide di diventare scrittore quando scopre che i suoi racconti richiamano l’attenzione
della ricca bambina che gli ha rubato il cuore. Un architetto fugge da
Constantinopoli con gli schizzi di un progetto per una biblioteca
inespugnabile. Un uomo misterioso vuole convincere Cervantes a scrivere il
libro che non è mai esistito. E Gaudi, navigando verso un misterioso
appuntamento a New York, si diletta con luce e vapore, la materia di cui
dovrebbero essere fatte le città.
La recensione:
Non si tradisce chi ci vuol fare affondare, ma chi ci tende la mano, sia pure soltanto per non riconoscere il destino di gratitudine che abbiamo nei suoi confronti.
Figure recise dal tempo che
vagano lungo la riva dell’assurdo senza alcuna meta se non quella di vagare
sperduti in questa landa desolata, comunicazione di parole mediante libri
vecchi e impolverati, perduti e maledetti, gesti, carezze, il tempo che scorre
inesorabile, questioni che apparentemente sembrano banali ma che sono un
incontro, un connubio di elementi a dir poco fantastici, sensazionali, un
incontro di corpi e mente. Una mancanza di inibizioni così nuove che nel
periodo della mia giovinezza mi fecero tremare al pensiero di quello che
accadde nelle stanze vuote in cui potei appartarmi, insieme a figure solitarie,
incomprensibili la cui pelle ardeva alla brace di una sigaretta, il sudore
inzuppava le loro maglie mentre si impiastricciavano di sangue e polvere, e
come la maggior parte di loro ho accettato le loro paure e le loro facili
disperazioni, non preoccupandomi che li avrei amati maggiormente, sapendo che
sarebbe stato un legame che avrebbe perpetuato nel tempo, che la Barcellona
descritta non sarebbe stata mai mia, che tuttavia mi accolse con un certo
calore, un certo entusiasmo che mai avrei immaginato, non volendo nient’altro
che viverci. Solo piantare il mio corpo in qualche Randa insieme ad un insieme
di altri corpi e fare tutto il necessario per appartenere a un paese che non mi
avrebbe mai scacciata.
A volte è inevitabile lasciare un segno del nostro passaggio fra le pagine di un romanzo che apparentemente sembra non possedere niente di speciale, che fosse distaccato dalla realtà o completamente avvulso, mi importa quasi sempre molto poco, e durante gli anni non mi è mai importato il luogo ma quale sarebbe stata la sua destinazione. Ma con i romanzi di Zafon non ho mai potuto frantumare quella magia, quel magnetismo che lui definitivamente, silenziosamente e inconsapevolmnente ha stipulato, fra me e la sua anima, la dolcezza di buon cuori così irresistibili e l’amore necessario e impellente per i romanzi, fra una miscela disomogenea di fatti o eventi che è uno squarcio sull’identità umana, su cosa significa stare sul mondo, l’inizio della vita di un ragazzino come tutti gli altri che se non avesse scoperto il Cimitero dei libri dimenticati non sarebbe stato possibile la sua venuta. Perciò il mio affetto nei suoi riguardi, ma anche di David Martin, Fumero, Fermin, e un corredo di figure dilaniate dal passato che si incontrano e scontrano donano calore, incrementano la paura, attizzano qualunque forma di coraggio possa contrastare ed estirpare il Male. Perché oltre che donare l’anima, ne Il cimitero dei libri dimenticati, vi è in gioco la vita, e da grandi conoscitrice e amante di Zafon ho sempre amato questa idea che di per sé un libro ha un anima. Non è un insulso ed inutile oggetto, ma che una volta aperto ed entrandoci si viene avvolti dall’aura di magnetismo, antichità e profano che da sempre amo. Sono sempre così felice di trovarmi lì, in sua compagnia. E ripudiare di leggere l’ennesima ultima opera di Carlos Ruiz Zafon avrebbe equivalso voltare le spalle a un amante. La sua aura magnetica non sarebbe sfuggita al mio sguardo, a qualunque definizione precisa di magia, perpetuazione, anche se negli anni di lui e dei suoi romanzi mi sono cibata un mucchio di volte. Eppure, nonostante sia trascorso del tempo, per me resta intatto e inconfondibile lo stampo dickensiano/ dostoevskiano dell’autore che irrimediabilmente è entrato nella mia vita. A volte penso si sia trattato di un misto di eleganza e tran tran passato, che miscelato alla realtà circostante, lo ha reso inconfondibile per me, così diverso da tutto ciò avessi letto fino a quel momento. Città immerse nel vapore, una brace che arde le cui volute di fumo svaniscono nell’atmosfera, dialoghi meravigliosamente controllati, personaggi che in una manciata di pagine divengono persone, convivono con le tendenze imposte del dopoguerra, eppure senza alcuna forma di rancore, senza alcuna forma di perversione nel vero e proprio senso del termine. Un’instantanea: una ragazza seduta sulla sua poltrona preferità, con un plaid posto sopra le gambe e il romanzo posto a mò di leggio che leggeva avidamente la storia che un uomo di lettere le aveva propinato, che ho ascoltato negli anni ininterrottamente, trasformandosi quasi in una forma sostanziale di vita.
Da sempre accarezzo l’idea di vivere nel mondo di cui ci parla Zafon, un mondo rinchiuso in un sortilegio di ricordi che minacciano di svanire nella nebbia del tempo, nel quale esiste una specie di morale artistica che proibisce di sfruttare le idee altrui a proprio vantaggio, e nel quale i malvagi che hanno avuto l’ardire di farlo alla fine hanno visto prosciugato di colpo il loro ipotetico talento, condannandoli a guadagnarsi da vivere all’ingrata maniera degli uomini comuni. Zafon ebbe il coraggio di scrivere per se stesso, portando con se segreti che non gli appartengono, scrisse di figure maledette ma amante della carta credendo che al di là della stessa sia racchiusa la vita. Questo è stato il motivo scatenante per cui ho desiderato rievocare il ricordo della sua presenza leggendo questa sua ultima fatica letteraria, disegnando un piccolo ma essenziale disegno che converge con il mondo de Il cimitero dei libri dimenticati che è un’alleanza di sforzo e illusione. Il tutto però avrebbe decretato il suo posto nel mondo. Un piccolo capolavoro le cui virtù sarebbero irrimediabilmente macchiate se qualcuno ne eguagliasse lo stile.
La città di vapore non toglie niente agli altri romanzi pubblicati recentemente, che ha macchiato la mia anima irrimediabilmente e irrecuperabilmente, in una traversata solitaria di parole labirintiche in cui battersi per la parola scritta è una concezione idealista a cui si aggrappono personaggi che anelano a scoprire cosa e chi sono, recuperando la memoria e lo spirito di marionette di carta e inchiostro che perpetuano nella memoria. La letteratura, la linfa vitale di tutto è quell’amante crudele che si dimentica facilmente, possiede un’importanza superiore, e lo fa imitando il verismo col quale scrittori russi o inglesi avevano impregnato i loro romanzi.
Un oscura favolta che Zafon ha avuto la pretesa di lasciare postuma il cui messaggio devastante riguarda lo smisurato potere che celano i romanzi, in un caos fantasmagorico di un giro di vite che sono state rubate, fra anime dannate e peccaminose il cui spirito è simile a quello di tanti altri.
A volte è inevitabile lasciare un segno del nostro passaggio fra le pagine di un romanzo che apparentemente sembra non possedere niente di speciale, che fosse distaccato dalla realtà o completamente avvulso, mi importa quasi sempre molto poco, e durante gli anni non mi è mai importato il luogo ma quale sarebbe stata la sua destinazione. Ma con i romanzi di Zafon non ho mai potuto frantumare quella magia, quel magnetismo che lui definitivamente, silenziosamente e inconsapevolmnente ha stipulato, fra me e la sua anima, la dolcezza di buon cuori così irresistibili e l’amore necessario e impellente per i romanzi, fra una miscela disomogenea di fatti o eventi che è uno squarcio sull’identità umana, su cosa significa stare sul mondo, l’inizio della vita di un ragazzino come tutti gli altri che se non avesse scoperto il Cimitero dei libri dimenticati non sarebbe stato possibile la sua venuta. Perciò il mio affetto nei suoi riguardi, ma anche di David Martin, Fumero, Fermin, e un corredo di figure dilaniate dal passato che si incontrano e scontrano donano calore, incrementano la paura, attizzano qualunque forma di coraggio possa contrastare ed estirpare il Male. Perché oltre che donare l’anima, ne Il cimitero dei libri dimenticati, vi è in gioco la vita, e da grandi conoscitrice e amante di Zafon ho sempre amato questa idea che di per sé un libro ha un anima. Non è un insulso ed inutile oggetto, ma che una volta aperto ed entrandoci si viene avvolti dall’aura di magnetismo, antichità e profano che da sempre amo. Sono sempre così felice di trovarmi lì, in sua compagnia. E ripudiare di leggere l’ennesima ultima opera di Carlos Ruiz Zafon avrebbe equivalso voltare le spalle a un amante. La sua aura magnetica non sarebbe sfuggita al mio sguardo, a qualunque definizione precisa di magia, perpetuazione, anche se negli anni di lui e dei suoi romanzi mi sono cibata un mucchio di volte. Eppure, nonostante sia trascorso del tempo, per me resta intatto e inconfondibile lo stampo dickensiano/ dostoevskiano dell’autore che irrimediabilmente è entrato nella mia vita. A volte penso si sia trattato di un misto di eleganza e tran tran passato, che miscelato alla realtà circostante, lo ha reso inconfondibile per me, così diverso da tutto ciò avessi letto fino a quel momento. Città immerse nel vapore, una brace che arde le cui volute di fumo svaniscono nell’atmosfera, dialoghi meravigliosamente controllati, personaggi che in una manciata di pagine divengono persone, convivono con le tendenze imposte del dopoguerra, eppure senza alcuna forma di rancore, senza alcuna forma di perversione nel vero e proprio senso del termine. Un’instantanea: una ragazza seduta sulla sua poltrona preferità, con un plaid posto sopra le gambe e il romanzo posto a mò di leggio che leggeva avidamente la storia che un uomo di lettere le aveva propinato, che ho ascoltato negli anni ininterrottamente, trasformandosi quasi in una forma sostanziale di vita.
Da sempre accarezzo l’idea di vivere nel mondo di cui ci parla Zafon, un mondo rinchiuso in un sortilegio di ricordi che minacciano di svanire nella nebbia del tempo, nel quale esiste una specie di morale artistica che proibisce di sfruttare le idee altrui a proprio vantaggio, e nel quale i malvagi che hanno avuto l’ardire di farlo alla fine hanno visto prosciugato di colpo il loro ipotetico talento, condannandoli a guadagnarsi da vivere all’ingrata maniera degli uomini comuni. Zafon ebbe il coraggio di scrivere per se stesso, portando con se segreti che non gli appartengono, scrisse di figure maledette ma amante della carta credendo che al di là della stessa sia racchiusa la vita. Questo è stato il motivo scatenante per cui ho desiderato rievocare il ricordo della sua presenza leggendo questa sua ultima fatica letteraria, disegnando un piccolo ma essenziale disegno che converge con il mondo de Il cimitero dei libri dimenticati che è un’alleanza di sforzo e illusione. Il tutto però avrebbe decretato il suo posto nel mondo. Un piccolo capolavoro le cui virtù sarebbero irrimediabilmente macchiate se qualcuno ne eguagliasse lo stile.
La città di vapore non toglie niente agli altri romanzi pubblicati recentemente, che ha macchiato la mia anima irrimediabilmente e irrecuperabilmente, in una traversata solitaria di parole labirintiche in cui battersi per la parola scritta è una concezione idealista a cui si aggrappono personaggi che anelano a scoprire cosa e chi sono, recuperando la memoria e lo spirito di marionette di carta e inchiostro che perpetuano nella memoria. La letteratura, la linfa vitale di tutto è quell’amante crudele che si dimentica facilmente, possiede un’importanza superiore, e lo fa imitando il verismo col quale scrittori russi o inglesi avevano impregnato i loro romanzi.
Un oscura favolta che Zafon ha avuto la pretesa di lasciare postuma il cui messaggio devastante riguarda lo smisurato potere che celano i romanzi, in un caos fantasmagorico di un giro di vite che sono state rubate, fra anime dannate e peccaminose il cui spirito è simile a quello di tanti altri.
Valutazione d’inchiostro: 5
Ciao Gresi, ho scoperto Zafon lo scorso anno con la letture de "L'ombra del vento", che mi è piaciuto tantissimo, tanto che ho intenzione di proseguire con la sua saga... anche a me è dispiaciuto molto per la sua morte :-(
RispondiEliminaGià ❤️❤️ fortunatamente grazie ai libri il suo ricordo perpetuerà nel tempo 🤗
EliminaOttima recensione; grazie
RispondiEliminaA te ☺️
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