Certi romanzi, quando reclamano la loro attenzione,
non c’è nient’altro da fare che ascoltarli. I romanzi belli corposi, i
mattonazzi – come mi piace definire questa tipologia di romanzi – non mi hanno
mai spaventata. Anzi da sempre, e sino a questo momento, suscitano uno stato di
magnetismo e anche se per me non è poi così inspiegabile che non mi scocci di
impelagarmi in vicende la cui durata sarebbe svoltasi a data da destinarsi, la
mia sete di curiosità continua a crescere, cresce a dismisura senza che io
faccia niente, e da quant’è che ho abbracciato questa straordinaria lettura ho
preso consapevolezza di come non sempre è facile restarci appresso. Soprattutto
se esula tematiche importanti quali l’egoismo dell’uomo mista a una buona dose
di spavalderia e mortificazione, soprattutto quelli indotti a un gruppo
striminzito di figure che non hanno idea di come estirpare questo “Male”
assoluto. Perché il punto è che certi romanzi non chiedono nient’altro che
essere amati, con pazienza e parsimonia, e centellinati al momento più
adatto, centellinati più di quanto richiederebbe una normale lettura di un
romanzo d’intrattenimento, amate e stramate, senza esitazioni, ogni momento
della nostra vita, soprattutto quando la ragione non impone alcunché, e a
differenza di qualche altro lettore io sono piuttosto testarda e ambiziosa e
perciò abbandonare questa lettura era un pensiero che ho soffocato molto
facilmente. Il tempo, la routine quotidiana, lo scandire un capitolo ad un
altro, ad una lettura ad un'altra, ha tenuto in vita quella fiamma ardente che
si sprigionò sin dal primo momento che questo romanzo giunse fra i miei
scaffali, e il solo fatto di essere stata in sua compagnia per tre settimane ha
allietato il mio spirito maggiormente.
Ma come ogni cosa nella vita, ad un inizio segue
una fine. Non quando lo stabilisco io, ma quando gli eventi o il Caso
concludono il loro corso. E in questo caso, sul finire del mese di Marzo,
quando i miei desideri erano stati esauditi.
Titolo:
Martin Chuzzlewit
Autore: Charles Dickens
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 20 €
N° di pagine: 1289
Trama: “Voi sapere con altrettanta sicurezza di me, che io giudico il “Chuzzlewit” la mia opera senza confronti migliore, sotto infiniti aspetti. Che io sono cosciente delle mie forze come mai prima d’ora. Che io so che, se la salute mi assisterà, potrò conservare il mio posto nell’animo degli uomini pensanti, anche se cinquanta romanzieri cominciassero a scrivere domani stesso”.
Autore: Charles Dickens
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 20 €
N° di pagine: 1289
Trama: “Voi sapere con altrettanta sicurezza di me, che io giudico il “Chuzzlewit” la mia opera senza confronti migliore, sotto infiniti aspetti. Che io sono cosciente delle mie forze come mai prima d’ora. Che io so che, se la salute mi assisterà, potrò conservare il mio posto nell’animo degli uomini pensanti, anche se cinquanta romanzieri cominciassero a scrivere domani stesso”.
La recensione:
Lo spirito e la materia
scivolano rapidamente nel vortice dell’immensità. Ulula il sublime e
serenamente dorme il placido ideale nelle sale bisbiglianti dell’immaginazione.
Dolce è ascoltarlo.
Nella mia carriera di
lettrice nei sobborghi di storie raffinate e rozze, una me adolescente, neo
matura o quasi pronta ad avviarsi sulla soglia dei trent'anni, iniziò e concluse
tantissimi viaggi, di cui quasi tutti furono conclusi con destrezza e diletto
trascorrendo in compagnia di quell’autore o autrice un certo lasso di tempo con
quello che io chiamo il mio bloc-notes personale, che solitamente riempio di
pensieri, annotazioni su un determinato passaggio, una certa riflessione
estrapolati da qualche pagina o frase appena letta, andando a fondo cercando
nient’altro in particolare che carpire l’anima del romanzo: descrizione di
paesaggi magnifici, palazzi sontuosi, sale da tè biancheggianti e pulite, l’effetto
della luce su uno sfondo nero e oppressivo, il rumore della pioggia sul vetro,
l’odore della stufa che silenziosamente ronza accanto al mio orecchio, e nella
mia testa monologhi di persone che francamente non conoscerò mai che esistono,
respirano scroccandomi nient’altro che qualche momento della loro attenzione. Impegnativi,
fannulloni, rozzi, pusillanimi, fantasmi inquieti che tintinnano e vagano in un
mondo vano e superbo impegnandosi a incamminarsi come chi ha una meta precisa
ma che alla fine finisce di camminare allo stesso passo e nello stesso posto
strisciante come un ozioso fannullone. Un certo prestigio, una certa eredità è
ciò a cui si aspira principalmente, ma una volta toccato il fondo ci si avvale
di decine di individui che respirano affettuosamente sotto il duro lavoro; una
curiosa sequenza di scenette che giudicano l’uomo non per le qualità che
possiede bensì per i soldi in tasca che tiene, di cui la stessa vita è un gioco
messo all’asta in cui la società si poggia mediante forme di millanteria o
imbrogli che svaniscono nel momento in cui si combina qualcosa di buono. Una
disamina selvaggia dell’Inghilterra e degli Stati Uniti deceduta grazie al
lavoro rallentato, la gelosia, i pregiudizi, l’incapacità di opprimere le
istruzioni a porci delle domande su quegli impulsi che non disgustano gli
altri. L’America è quell’aquila miope e cieca come un pipistrello, ciarlera
come un gallo, vanesia come uno stupido struzzo perché affonda la testa nel
fango credendo come la vita sia quella fenice da cui rinascere dalle stesse
ceneri pur di elevarsi nel cielo. Le delusioni riscontrate inducono a diffidare
del prossimo, nonostante l’uomo è padrone di se stesso e può fare piani e
progetti. È una brulicante, prodigiosa realtà in cui la brama sognante di nuove
prospettive nella bruma della vita appaiono allettanti. La società moderna va a
muoversi sotto tutt’altra direzione dovuta da una serie di fattori: la rapida
evoluzione delle strutture economiche, sotto la spinta di sguardi, invenzioni,
la dissoluzione di principi morali, religiosi che avrebbero favorito l’evoluzione
di nuove forze indirizzate ad un benessere materiale e la delegazione
aggressiva di una piccola borghesia all’interno del quale si imposero certe
tendenze egoistiche che si imposero mediante lo sfruttamento del prossimo.
Severo e ordinato, austero e
solenne Martin Chuzzlewit descrive nel miglior modo possibile una serie
di eventi politici e sociali che tengono nel suo grembo una serie di
sfaccettature che richiamino il riconoscimento dei diritti dell’autore. L’egoismo
è quel male assoluto che bisognerebbe estirpare e che mista a una buona dose di
superbia, avarizia, rendono il romanzo un tentativo fallito di redenzione. Nonostante
gli innumerevoli tentativi, alla fine sarà impossibile redimersi da ciò che è
stato fatto, da ciò che il destino ci ha riservato, ma ogni voce – più testarda
di tutte – più chiuse in se stesse, cozzano con quegli idiomi di tranquillità a
cui ingenuamente si aspira, più restii a muoversi se qualcosa o qualcuno li
avrebbero travolti. Questo romanzo, infatti, a dispetto di tutti gli altri
scritti dall’autore, mi è parso più duro, più sprezzante e crudele come il
disprezzo verso lo stesso Martin, che io ho riservato sin dalla prima pagina,
duro come la sua opposizione ad aiutare il prossimo che per tantissimi anni lo
hanno tenuto lontano dagli inizi di una vita proficua e vantaggiosa. Divenendo così
un burbero insopportabile che mise in fuga chiunque, persino il suo piccolo
studente, che tuttavia non cerca la lite ne esterna le sue opinioni. Ma compie
gesti che feriscono, accrescono la diffidenza, la generale malinconia che alita
attorno a queste pagine, che assieme a un certo mistero conferiscono a queste
pagine raffinate una certa fievole fiamma di ardore e passione. Senza alcuna
forma di allegria e speranza, in questo panorama tetro e ossessivo che
inevitabilmente si pone contro il mondo intero, e di sicuro alimenta la
diffidenza di chi legge.
In Martin Chuzzlewit
non ci sarà più quel ragazzino sfortunato e ingenuo che hanno popolato le
pagine di Oliver Twist o Grandi speranze, ma un uomo alimentato
da un odio feroce, ardente la cui dannazione maschera aspetti che Martin
considera di tenere nascosti ma che in realtà non sono così. Il senso del
dovere dovrebbe mascherare tutto questo, ma comporta ad ignorare il significato
della parola felicità. Ma questo tipo di felicità a cui mi riferisco, Dickens
lo proietta in questo Eden maledetto, questa terra così inavvicinabile e
irraggiungibile, che rinvigorisce qualunque anima degradata. Gli uomini fanno
parte di una grande e possente Aquila che si eleva nell’etere più puro ma col
rischio di insudiciarsi nel fango, osservandolo da vicino come il realista più
coscienzioso creando però un modo di vedere il mondo come un’ottica diversa,
lievemente distorta, perché di libri che racchiudono un complesso meccanismo di
effetti moralisti devastanti e sofisticati impari cose che si sconoscevano o
ignoravi impunemente, desiderando sapere il più possibile.
Martin Chuzzlewit ci pone dinanzi a
una storia che dà spazio non solo al mondo visibile degli esseri senzienti e
degli oggetti inanimati ma anche vaste e misteriose forze inosservate che si
celano dentro questo mondo. Dickens a modo suo ha disturbato e disorientato il
lettore, facendo riflettere e ribaltando qualunque forma di evoluzione,
sabotando le sue menti e facendo danzare gruppi di figure intrappolati in un
vortice di corruzione a cui disgraziatamente non ci sarà fine. A tratti
drammatico e commovente, a tratti subdolo e fallace un romanzo scritto
egregiamente che però non ho amato come David Copperfield o – al momento
imbattibile – Grandi speranze. Ma uno dei più belli romanzi del creato
dickensiano che pur quanto non mi hanno permesso di amare Martin è una
proiezione drastica di un assetto biografico e intellettuale dell’autore che ha
più forza di quel che si crede.
Valutazione d’inchiostro: 4
Conosco Dickens, ma non questo romanzo che sembra interessante; ottima recensione, grazie
RispondiEliminaA te ☺️❤️
EliminaBoa tarde Gresi, parabéns pela excelente matéria.
RispondiElimina:)
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