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domenica, aprile 18, 2021

Slanci del cuore: la saga de Il cimitero dei libri dimenticati - Carlos Ruiz Zafon

Carlos Ruiz Zafon: ho una leggera dipendenza e nessun antidoto è mai riuscito a curarmi. In pagine di memoria che sono state scritte col sangue, ho visto uomini soli e contriti, e resi poco sensibili, trascinarmi in un gioco di luci e ombre, sino a quando non hanno esalato l'ultimo respiro. Facendoli fuggire nell'unico luogo dove né il cielo né l'inferno potranno mai trovarli. Perdendomi completamente: imboccando una strada, senza trovare alcuna via d'uscita.
A svegliarmi è quasi sempre il silenzio. Affascinata da immagini nitide ed evocative che si affacciano nelle frasi e che riportano quasi sempre nella vecchia e tenebrosa Barcellona - che ha segnato me che il giovane Daniel -, abbracciando una realtà che presto sarebbe diventata mia.
Il rumoroso, insolito spettacolo messo in scena da un uomo la cui prosa cattura chiunque creda al potere dei romanzi mi sconcerta quasi sempre. E, come un magnifico sole arancione, si leva dietro la frastagliata lontananza di un eco, un rintocco dell'anima, facendomi lentamente uscire dall'oscurità in cui ogni tanto sprofondo. Fumi bianchi che velano gli occhi, il cuore, trasmettendomi il loro nocivo profumo.
La durata delle parole è dipendente, la loro forza interiore scandiscono attimi di vita ed ecco che, come i mesi precedenti con Murakami e Sparks, un altro autore, con suo lirismo e la sua prosa magica, è un compagno segreto cui so di potermi affidare nel momento del bisogno. Il Dickens moderno del XXI secolo. Celebre nel panorama della narrativa contemporanea mediante testimonianze di racconti di amori impossibili, tradimenti, morti, odi e amicizia che, con un pizzico di drammaticità e una spruzzatina di romanticismo, ci lasceranno con uno strano senso di vuoto.
Chiudo gli occhi e comincio a sognare. Sogno di sprofondare in un sonno tetro come un tunnel. In un sonno in cui riconosco una parte di me stessa e che mi sembra di aver già fatto, qualche tempo fa.
Mi trovo ai margini di una strada avvolta nella foschia. Sotto un cielo di cenere, un sole spaventoso che si spande in una ghirlanda di rame liquido e i lampioni che, con la loro luce fioca, impallidiscono accompagnando il pigro risveglio della città.
E' quasi l'alba e, a eccezione dei passi di una qualche guardia notturna, la città sembra essere sprofondata nel silenzio. In un silenzio fitto e pesante come una coperta d'inverno.
Sono le cinque. E' presto. Troppo presto. Per un istante mi lascio cullare da questa calma e penso a come sarebbe bello se il mondo fosse sempre così.
Confusa, mi guardo intorno. Cerco di orientarmi. Non ricordo di essere mai stata in questa zona, anche se mi trasmette un piacevole senso di famigliarità.
Cammino per una decina di metri finché, me li trovo davanti. Due figure evanescenti che camminano tra la nebbia: un padre e suo figlio. Un uomo giovane, con qualche capello bianco, e un bambino dai capelli e gli occhi scuri e lo sguardo pieno di una strana frenesia che, incuranti della mia presenza, percorrono questa piccola stradina simile a una cicatrice.
Passando dietro di me, colgo un briciolo della loro conversazione la quale, in quel momento, verte sui libri e su un posto magico chiamato Il cimitero dei libri dimenticati.
Il cimitero dei libri dimenticati.
Mi sveglio di soprassalto. La fronte aggrottata e madida di sudore. Il cuore battere all'impazzata come se volesse aprirsi un varco nel petto e dileguarsi. L'eco di quelle parole che credevo dimenticate, si conficcano nella mia memoria come schegge roventi. Aprono un varco nei recessi più reconditi ed erigono un castello al quale questa sera, tra lenzuola bianche e matasse di coperte e piumoni, feci finalmente ritorno. In quel santuario, impregnato di mistero, da cui ebbe tutto inizio. L'inizio. Il primo incontro. Il primo ricordo. La prima sensazione: quella più intensa.
Io e Carlos Ruiz Zafon ci scontrammo, qualche anno fa, in una libreria: in un labirinto che odorava di carta vecchia, polvere e magia. Tra pile di libri disposte in lunghe file, titoli ormai illeggibili - scoloriti dal tempo - che davano l'impressione di sapere di me molto più di quello che sapessi di loro e parole in lingue conosciute che non riuscivo ancora interpretare.
Con una storia che parlava di libri maledetti e del suo giovane autore, di tradimenti, amicizie perdute, amore, odio e sogni vissuti all'ombra del vento, aveva dato luce all'oscurità. Un personaggio misterioso con l'animo di poeta maledetto che, tra le pagine di un romanzo che esalta valori come la lealtà, la sincerità, l'amicizia e l'amore, nell'intreccio di vite di svariati personaggi - fatti esclusivamente di carta e inchiostro -  fece della loro storia il proprio cantuccio personale.
Perdersi nuovamente tra le pagine della saga de L'ombra del vento, a due anni di distanza dall'ultima intensissima lettura, è stato davvero fantastico.  Come Murakami, - con la sua prosa semplice, surreale e fantastica - per me, Carlos Ruiz Zafon è garanzia.  La mia scialuppa di salvataggio dinanzi a un mare in tempesta. Lo spiraglio di luce che illumina un intero mondo di tenebre e ombre. Il contrasto perfetto tra bellezza e semplicità.
Nel corso della lettura, mi sono resa conto che leggere euforicamente e per l'ennesima volta una delle mie storie preferite in assoluto, non aveva spezzato in due il filo dei ricordi. Quei ricordi che tengono ancora intatto il legame straordinario che si era instaurato tra me e il libro di Zafon parecchi anni fa.
Desideravo tornare dai miei amici di vecchia data. Sperare che esistessero anche nel mio mondo e tornare nella bellissima Barcellona degli anni '50 in cui avrei volontariamente fatto perdere le mie tracce. Una città semplice, come tante altre, ma che per me ha sempre suscitato un certo fascino: ville fatiscenti; librerie insormontabili e misteriose; stradine anguste e suggestive. O, per di più, gli esilaranti ragionamenti di Fermin Romeno De Torres nei riguardi della donna e sul rispetto che bisognerebbe mostrarle; i continui borbottii dell'ingobbito Isaac: un ometto con la faccia da uccello rapace, i capelli d'argento e lo sguardo impenetrabile; l'attraente Nuria Monfort con i lineamenti di una giovane modella da rivista, ma la cui giovinezza sembra esser fuggita dal suo sguardo.
La prima volta che "vidi" la meravigliosa, misteriosa e tetra Barcellona che, Zafon, descrive magistralmente nei suoi romanzi, avevo quindici anni. Ero un'adolescente come tante altre, con qualche chilo di troppo, una fervida immaginazione e, nel mio curriculum di avida lettrice, un numero piuttosto elevato di letture.
Storie dalle venature fantasy o dai risvolti romantici che, così come all'epoca, simboleggiano tutt'ora una parte del mio animo sognatrice e masochista.
Quando scopri il tuo libro preferito, uno dei tanti della tua infinita lista, il brivido della prima volta è indimenticabile. Vorresti impersonare i personaggi, assistere con i loro occhi alle vicende in cui si troveranno invischiati. Ma, al termine della lettura, tutto quello che ci rimane sono esclusivamente ricordi. Una risacca lenta e disomogenea che ha segnato i momenti più cruciali della vita. Ha marchiato l'anima col suo segno indelebile.

6 commenti:

  1. sono tra i pochi, pochissimi, a cui Zafon non è piaciuto, ma capisco bene il tuo pensiero

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  2. Di questa saga ho letto solamente il primo libro parecchi anni fa, e probabilmente ci starebbe proprio una bella rilettura per poter poi proseguire con i successivi. Ho dimenticato gran parte dei dettagli, però la ricordo come un'esperienza di lettura suggestiva e molto particolare!

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