Titolo: Un mese in campagna
La recensione:
Di romanzi che espugnano il tema dell’immobilità, nel santuario magico della letteratura, ce ne sono a bizzeffe. Si comincia alla grande con la descrizione di scenari bucolici che hanno una bellezza straordinaria, la cerimonia di un quadro prettamente romantico che conducono poi nel cuore di personaggi che intessono una trama semplice o arzigogolata. Generalmente questo tipo di romanzi sono la linfa vitale della mia intera esistenza. Il loro eco risuona come una dolce litania, e letteralmente leggere diviene quasi una libertà di proporre un tema su cui discutere. In questo caso di discutere c’è ne sarebbe bisogno, ora che ripongo queste poche righe sono consapevole che, Un mese in campagna, a dispetto dell’aura hardyana che trasmettevano le sue pagine non coincisero con l’idea che avevo realizzato prima ancora di leggerlo, cioè pronta ad osservare l’immobilità più assoluta, ma seduta nella mia poltrona preferita, pronta ad aspettare nel miracolo. Di miracolo questa lettura non ne ha subito alcun effetto, perlomeno io che sin alla sua fine ho confidato potesse accadere. Ma gli elementi proposti, un luogo avvolto in un'aura lucente che tuttavia non coincisero con quella del romanzo, mostrarono un intero harem di parole, voci e suoni che in un certo senso mi hanno permesso di godere dei fruscii e dei profumi che la brezza tiepida di un luogo di campagna generalmente trasmette e regala. Tutto sommato << contenta >> ad abbracciare un romanzo che evocasse gli antichi albori del mondo Hardyano, anche se in minima parte, nel momento in cui dovetti confessare le mie colpe e i miei errori per aver giudicato malamente un romanzo, senza aver prima letto. In questo caso, aver attribuito a questo testo un certo entusiasmo, considerandolo bello nelle sue imperfezioni, almeno sino a quando sarebbe stato possibile avere una mera parvenza di questo elemento. Avrei avuto successivamente tutto il tempo necessario per fare ammenda di ciò, riconoscere i miei ennesimi errori e allora, nel momento in cui la mia anima avrebbe sposato quella del romanzo, riconoscersi e legarsi a lei. Alla fine, penso, sono piccole grandi colpe che confesso alla luce morente di un giorno produttivo e soddisfacente che non modificano o raddrizzano chissà cosa, ma sono un buon spunto di riflessione.
Non propriamente soddisfatta riporto queste poche righe, sebbene leggere di autori che richiamano la prosa hardyana mi faccia sempre storcere il naso, come due mondi opposti, nettamente separati, che sporadicamente accolgo nel mio cantuccio personale per semplice gusto di farlo. Ma con Hardy ho stabilito una certa sintonia, un certo legame, e inconsapevolmente ero immersa nella campagna inglese del Wessex con un manipolo di storie e personaggi, quest’ultimi non legati né affini fra loro, ma che condividono il peso di sofferenze e drammi vari da renderli unanimi. La cornice in cui è proiettato il romanzo di Carr sufficientemente ricalca tutto questo, rappresenta il non essere poiché conferisce solo un’illusione, nonostante si percepiscono gioie, sofferenze di cui non è possibile esprimere ma condividerle mediante timori, fantasie.
La natura trasmette una certa solitudine, forme spontanee o volontarie quanto insite nell’esperienza del cambiamento. Per la solitudine di cuori forti e intransigenti, certo. Ma anche come qualcosa di pesante, che rientra in un preciso piano per rimanere soli, isolati da altre forme di vita, che sarebbe assurdo concepire diversamente come un desiderio irresistibile di comprensione.
Valutazione d’inchiostro: 3
Peccato il voto basso, sembrava interessante; grazie per la recensione
RispondiEliminaVoto basso perchè non mi ha convinta completamente XD Grazie a te :)
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