mercoledì, giugno 17, 2020

Gocce d'inchiostro: Frieda - Christophe Palomar

Uno dei migliori vantaggi della letteratura è che riesce a donare molto più di quel che sembra. Questo fervido giudizio concerne una delle mie ultime letture, in quanto Frieda di Christophe Palomar è dotato di una << vena di ammaliamento >>, che mi ha strappato volentieri da una vita piatta e sempre uguale a se stessa. Mi sono avvicinata alle sue pagine quasi di soppiatto, nel cuore della notte, per qualche momento togliendomi persino il sonno. Frieda non è, certamente, migliore di tanti altri romanzi del genere apparsi sin da ora, non soltanto nella letteratura odierna ma sulle più importanti testate giornalistiche. La maggior parte dei giornali letti e apprezzati che attirano particolarmente per il loro essere uniforme. Col romanzo di Palomar però ho sguinzalliato sulle tracce di una famosissima pittrice di fine 800 il cui autore non ha potuto fare a meno di ricordare, rappresentandola nel fior fiore dei suoi anni.
Come? Impelagata nelle vicende di un giovane rampollo meritevole, scalcinato e dall’anima tremante che irruppe nella scenografia della sua vita nel momento in cui meno se lo sarebbe aspettato.
Ero venuta qui, a Vienna, con l’intenzione di risiederci per qualche tempo, invece il suo autore mi ha strappata a piccoli pezzi: chi l’avrebbe mai detto! Frieda viene armoniosamente e poeticamente rievocata con una prosa artificiosa ma coinvolgente, che mi ha indotta a rifuggire da altre storie citati in un contesto banale e intatto il cui messaggio è nascosto, lì, non fra le sue pagine, bensì nella sua stessa anima. Così evanescente al tatto e all’occhio nudo, affisso alla bacheca del mio cuore dove lì è rimasto e credo resterà per un bel po' di tempo.


Titolo: Frieda
Autore: Christophe Palomar
Casa editrice: Ponte delle  Grazie
Prezzo: 18 €
N° di pagine: 306
Trama: La Frieda che dà il titolo a questo sorprendente romanzo è Frieda von Richthofen, figlia di un alto ufficiale tedesco, cugina del Barone Russo e musa di D. H. Lawrence, il chiacchierato e geniale autore dell’ << Amante di Lady Chatterley >>. Donna dalla personalità eccezionale, è lei la grande fonte d’ispirazione e di passione del protagonista e voce narrante del romanzo, Joachim von Tilly. Questi, rampollo di una famiglia di conti tedeschi, sembra destinato a seguire le orme paterne a capo delle acciaierie di famiglia. Nella bellezza della Capri del primo Novecento, Joachim avverte tuttavia la possibilità di un’altra vita. Inizia allora per lui una fuga senza fine, costellata d’incontri, amori, speranze e tradimenti. Una fuga che lo porta da Vienna e Berlino fino a Buenos Aires, dove lo attendono le risposte alle tante domande lasciate in sospeso.


La recensione:

Non si impara a  vivere come si impara una lingua o una scienza. È un dono che si ha o non si ha.

Per mettere a tacere la vocina della mia coscienza, ho impiegato una manciata di giorni per leggere e completare un romanzo la cui lettura non credevo potesse essere così ammaliante, che ha alleviato la monotonia, il tedio che imperversa particolarmente in questo periodo, rispecchiando perfettamente quel tipo d lettura di cui avevo particolarmente bisogno. Christope Palomar non ebbe nient’altro che carta e inchiostro, e il suo è un tipo di tentativo che affannosamente sfoga nella ricerca di un tipo di bellezza che possa avvolgerci, sedurci, allo stesso tempo persino inquietare, nell’ottenere un benessere effimero che disgraziatamente non si otterrà mai.
Una sfida fra amici indotta dall’autore oltre vent’anni fa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Palomar, in definitiva, creò dal nulla le vicende del rampollo Joachim e del suo rapporto conturbante con Frieda, nel quale per tutta la durata della lettura si crede si tratti dell’elemento più forte dell’intera narrazione mentre ai miei occhi fu l’elemento di gran lunga più debole; era la sua atmosfera, il suo essere avvolti in qualcosa di magico, sontuoso, uno spirito frenetico che è lo stesso di quello tedesco, le sue smisurate ambizioni, la sua arroganza, il suo sentirsi forte più di quel che è a spiccare in mezzo a carcasse fallite e nostalgiche, uomini o donne agonizzanti ma desiderosi di scovare una felicità meritevole ma che non raggiungeranno mai, destinatari però di tante cose: qualunque richiesta fosse loro rivolta, non potevano non aderire. L’unico modo, secondo il mio modesto parere, attraverso il quale l’uomo poteva essere un uomo, soprattutto << fortunati >> a solcare terre fredde e innevate. Fin dai primi albori soggettati da delusioni, dilaniamenti, preoccupazioni, che in parte li hanno privati di se stessi.
Per l’autore le mezze misure non bastarono. I suoi sforzi di voler raggiungere ciò che più si desidera, ciò che più aggrava fu sempre più difficile; i suoi personaggi, i suoi figli di carta furono sprovvisti di tranquillità spirituale. Nemmeno quando uno squarcio di luce sbucò dietro una coltre di tetraggine e drammaticità, nemmeno quando si sopportarono le scocciature di una famiglia bigotta e per nulla progressista. Un uso impersonale dei suoi stessi figli di carta che a mio avviso ha reso gli stessi logoranti, che non ci pensano due volte a calpestare o valicare qualunque barriera gli si presentava dinanzi. Qualcosa insomma di transitorio e inafferrabile.
È stata questa una delle ragioni per cui Frieda non mi ha convinta pienamente, un idea abbozzata, un corpo senza voce, che ha saltellato fra un epoca e un'altra, un ricordo e un altro, non riuscendo tuttavia a scrollarsi definitivamente di dosso ciò che lo attanagliò. Joachim era un anima inquieta, vagabonda, errante che ha sempre anelato ad allontanarsi da quel lungo baratro in cui è inevitabilmente sprofondato, affinchè qualcosa dentro di lui andasse al suo posto. Emulando la concetrazione di quei grandi poeti d’epoca, appassionato artista e seduttore, in pace con se stesso di sentirsi alleato in imprese comuni, rocambolesche, facendo così intravedere come avrebbe potuto aspirare a qualcosa di grande: si, l’uomo sereno e tranquillo, appagato e appagante che un giorno sarebbe diventato.
Freida però resta saldamente ancorata alla mia anima con qualcosa che ha invaso ogni minuscola particella del mio corpo. È stato qualcosa che ha avuto a che fare con le modalità con la quale questa storia è stata raccontata, un eco, per meglio dire, un collegamento, una vera e propria rappresentazione per questo progetto di rievocare una delle figure più importanti della storia francese, che credo sia derivato dall’importanza della sua stessa anima, così dannatamente conturbante, intricata, intrinseca, malinconica, quasi tragica, che in parte mi ha spiazzato in parte mi ha fatto storcere il naso, ma spazzato via qualunque remora o pregiudizio che avevo riposto alle sue pagine. Palomar aveva tirato al bersaglio, ma a mio avviso non l’ha centrato.
Nella trama di Freida, infatti, non c’è una storia lineare, scandagliata fra presente e passato come un gioco di parole, bensì una radura di rimorsi, turbamenti, segreti, luoghi perduti e poi ritrovati, figure di diverso tipo che scendono a picco coprendo qua e là i cuori di chi legge prima che acquistano la consapevolezza di cosa accade e chi li circonda. Un’inattesa privilegiata da cui l’autore mi ha concesso l’opportunità di osservare ciò che si districava ai miei occhi: il filo di una matassa che tuttavia resterà sempre aggrovigliato.
Lo scenario però è stato alquanto suggestivo. La seduzione più forte dello stesso timore, la persuasione più fruttuosa dell’assoggettamento, vicende che si sono intersecate fra di loro conferendo però un chè di inquieto e sofferto. Restano solo amori altalenanti e illusori, la pittura, la letteratura, il tempo nella sua natura quasi distorta, che certamente non saranno quegli elementi più adatti per rievocare Frieda nel migliore dei modi ma un mondo che mostra molto più di come appare.
L’aspetto positivo e straordinario del romanzo, è stato certamente dovuto dal modo in cui esso è stato raccontato. Attraverso uno spazio temporale discontinuo, cambi continui di narrazione, salti nel vuoto, sagaciamente pronta a raccogliere ciò che l’autore aveva seminato strada facendo. Cogliere cioè le tonalità evanescenti di un dipinto, catturare su tela l’anima di una donna comune ma bellissima, lo sguardo concentrato e fissato su un paesaggio devastato dalle due Guerre in cui l’anima con difficoltà è scivolata beata,
A tratti lento a tratti sincopato, racconto di donne forti e allo stesso tempo fragili, Frieda è un affresco carino e attraente per gli amanti del romanzo vittoriano, ma che estrapolato dalle soglie del tempo avrebbe potuto lenire la mia anima con una certa dolcezza. Attribuendo così un certo valore a ciò che disgraziatamente non ha avuto valore, non tanto per la compagnia di chi mi sono circondata quanto il potere stimolante della narrazione,
Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

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