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venerdì, agosto 23, 2019

Amori di carta: Edward Carey

Quando un romanzo, una saga acquista una certa consistenza, una certa importanza, il mio animo di lettrice riesce a vedere come, effettivamente, il suo autore, la sua creatrice, fossero gli artefici di un incerto e ambiguo destino. Una manciata di romanzi dopo, che siano una decina o una terzina non importa, giudico come se tali romanzi valgono o meno nell'essere ricordati, chiamati, evocati quando più mi piace, in qualunque momento della giornata, solo perché hanno lasciato una traccia del loro passaggio che non può non essere rievocato. In questo caldo e afoso mese di agosto, Edward Carey aveva insistentemente bussato alla mia porta col desiderio imprescindibile di essere evocato, citato, qui, nel mio piccolo salotto virtuale. E cristallizzandosi con la lettura del terzo volume degli Iremonger, presentarvelo adesso pareva il risultato ottenuto dopo aver bevuto avidamente i suoi libri che impressionatamente avevano emesso un battito.

Allora la cosa mi è sembrata divertente, coinvolgente, buttare giù due parole, sfoggiando un discreto bagaglio di informazioni al riguardo. 
La prosa careyana è piuttosto semplice e veloce. Affonda come una lama con stupefacente facilità, nell'anima di chi legge, obbligando noi, povere e ignare creature a proferire un acuto gemito che riverberà fra le pareti di casa nostra, fra quelle fragili delle nostre membra, aprendo una nuova finestra su un tipo di letteratura perlopiù giovanile che conferisce una certa idea sull'importanza che hanno le cose. Sul modo per cui l'individuo le conserva, soprattutto nel momento in cui le lascia andare.
E di cose perdute e poi ritrovate, di oggetti che possiedono una loro anima, sono il tema principale della saga degli Iremonger che, sebbene la semplicità del tema trattato, hanno e costituiscono una certa forza sofisticata e bella di continuare a correre pur di ottenere la libertà, evadere da un mondo sempre uguale a sé stesso. 
Senza dunque il principio fondamentale di questo concetto, non penso che sarei rimasta così ammaliata da questa piccola grande favola inglese, ambientata in una Londra ombrosa e fuligginosa, sul finire del XIX secolo. 
Quei mostri in apparenza invincibili non terrorizzano ne sono portatori di incubi o malvagità, ma la loro è una presenza costante che presto o tardi raggiungerà chiunque, tramortendo con la loro imperscrutabile presenza.
Rassegnati a doverli contrastare, Clod, la sua amata Lucy, e gli appartenenti a una famiglia dall'aspetto malaticcio, insano, spaventosamente bizzarro, cammineranno insieme verso di essi con un paio di oggetti che prima erano persone appesi come iane di un grande albero, imprigionati per sempre. 
Edward Carey ha dipinto a questo proposito una favola che profuma di vecchio, contemplando e valutando le possibilità di usare gli oggetti come unica salvezza di vita. Senza innescare o propinare ai suoi personaggi gesti eroici o disperati dal momento che non c'è la presenza di alcuna entità malvagia impossibile da contrastare. Piuttosto ideando uno spettacolo particolare, bellissimo che è andato in scena sin dal primo atto senza particolari rumori o attenzioni, nell'intimità di un cimelio di famiglia dimenticato. 

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