Quando un
romanzo, una saga acquista una certa consistenza, una certa importanza, il mio
animo di lettrice riesce a vedere come, effettivamente, il suo autore, la sua
creatrice, fossero gli artefici di un incerto e ambiguo destino. Una manciata
di romanzi dopo, che siano una decina o una terzina non importa, giudico come
se tali romanzi valgono o meno nell'essere ricordati, chiamati, evocati quando
più mi piace, in qualunque momento della giornata, solo perché hanno lasciato
una traccia del loro passaggio che non può non essere rievocato. In questo
caldo e afoso mese di agosto, Edward Carey aveva insistentemente bussato alla
mia porta col desiderio imprescindibile di essere evocato, citato, qui, nel mio
piccolo salotto virtuale. E cristallizzandosi con la lettura del terzo volume
degli Iremonger, presentarvelo adesso pareva il risultato ottenuto dopo aver
bevuto avidamente i suoi libri che impressionatamente avevano emesso un
battito.
Allora la cosa mi è sembrata
divertente, coinvolgente, buttare giù due parole, sfoggiando un discreto
bagaglio di informazioni al riguardo.
La prosa careyana è piuttosto
semplice e veloce. Affonda come una lama con stupefacente facilità, nell'anima
di chi legge, obbligando noi, povere e ignare creature a proferire un acuto gemito
che riverberà fra le pareti di casa nostra, fra quelle fragili delle nostre
membra, aprendo una nuova finestra su un tipo di letteratura perlopiù giovanile
che conferisce una certa idea sull'importanza che hanno le cose. Sul modo per
cui l'individuo le conserva, soprattutto nel momento in cui le lascia andare.E di cose perdute e poi ritrovate, di oggetti che possiedono una loro anima, sono il tema principale della saga degli Iremonger che, sebbene la semplicità del tema trattato, hanno e costituiscono una certa forza sofisticata e bella di continuare a correre pur di ottenere la libertà, evadere da un mondo sempre uguale a sé stesso.
Senza dunque il principio fondamentale di questo concetto, non penso che sarei rimasta così ammaliata da questa piccola grande favola inglese, ambientata in una Londra ombrosa e fuligginosa, sul finire del XIX secolo.
Quei mostri in apparenza invincibili non terrorizzano ne sono portatori di incubi o malvagità, ma la loro è una presenza costante che presto o tardi raggiungerà chiunque, tramortendo con la loro imperscrutabile presenza.
Rassegnati a doverli contrastare, Clod, la sua amata Lucy, e gli appartenenti a una famiglia dall'aspetto malaticcio, insano, spaventosamente bizzarro, cammineranno insieme verso di essi con un paio di oggetti che prima erano persone appesi come iane di un grande albero, imprigionati per sempre.
Edward Carey ha dipinto a
questo proposito una favola che profuma di vecchio, contemplando e valutando le
possibilità di usare gli oggetti come unica salvezza di vita. Senza innescare o
propinare ai suoi personaggi gesti eroici o disperati dal momento che non c'è
la presenza di alcuna entità malvagia impossibile da contrastare. Piuttosto
ideando uno spettacolo particolare, bellissimo che è andato in scena sin dal
primo atto senza particolari rumori o attenzioni, nell'intimità di un cimelio
di famiglia dimenticato.
Güzel bir yazı olmuş Gresi 😊
RispondiEliminaÇok teşekkür ederim ☺️☺️
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