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lunedì, maggio 18, 2020

Gocce d'inchiostro: Epepe - Ferenc Karinthy

Il romanzo di Ferenc Karinthy stanziava sullo scaffale della mia strapiena libreria da tantissimo tempo, poco più di due anni, e questa lettura da un'unica seduta mi servì a comprenderne la grandezza e soprattutto a prendere consapevolezza di come mi abbia fagocitato e ospitato nonostante il mio riserbo iniziale. Fra ebrei, politici, gente dal colorito di pelle diverso, una fetta della classe lavoratrice di una generazione che via via sta incamminandosi verso il declino e un’altra dalle fasce alte dei ricchi colletti bianchi, nessuno però protagonista del viaggio surreale, quasi magico di un estimato professore, uomo di lettere, amante delle parole e dell’idioma linguistico di una lingua o cultura incomprensibile ed impossibile da esaminare, che inevitabilmente si troverà invischiato nella lotta ad un tipo di liberazione di reclusione forzata in un luogo in cui non credeva potesse metterci piede.
Nelle duecento pagine che popolano Epepe, perdurano tracce della poetica kafkiana, in genere sotto forma di episodi surreali, onirici, quasi ovattati, silenzi e interdizioni, che sebbene non eguagliano né emulano i romanzi di Franz Kafka mi impedì di dimenticare la croce che il povero Budai si trascina inesorabilmente, dall’inizio alla fine. In un vortice di parole, frasi, nozioni, curiosità letterarie che sarebbero rimaste dov’erano e che ho studiato, esaminato come una creatura aliena capitata casualmente dinanzi a me che non è stato bellissimo ma straordinario come pochi romanzi ai miei occhi, rimpiattato in se stesso come un intrepido animale prigioniero in uno zoo, che da dietro le sbarre ha osservato con coraggio ciò e chi gli è stato attorno.

Titolo: Epepe
Autore: Ferenc Karinthy
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 13 €
N° di pagine: 217
Trama: Ci sono libri che hanno la prodigiosa, temibile capacità di dare, semplicemente, corpo agli incubi. “Epepe” è uno di questi. Inutile, dopo averlo letto, tentare di scacciarlo dalla mente: vi resterà annidato, che lo vogliate o no. Immaginate di finire, per un beffardo disguido, in una labirintica città di cui ignorate nome e posizione geografica, dove si agita giorno e notte una folla oceanica, aninima e minacciosa. Immaginate di ritrovarvi senza documenti, senza denaro e punti di riferimento. Immaginate che gli abitanti di questa sterminata metropoli parlino una lingua impenetrabile, con un alfabeto vagamente simile alle rune gotiche e ai caratteri cuneiformi dei Sumeri – e immaginate che nessuno comprenda né la vostra né le lingue più diffuse. Se anche riuscite a immaginare tutto questo, non avrete che una pallida idea dell’angoscia e della rabbiosa frustazione di Budai, il protagonista di “Epepe”. Perché Budai, eminente linguista specializzato in ricerche etimologiche, ha famigliarità con decine di idiomi diversi, doti logiche affinate da anni di lavoro scientifico e una caparbietà senza uguali. Eppure, il solo essere umano disposto a confrontarlo, benchè non lo capisca, pare sia la bionda ragazza che manovra l’ascensore di un hotel: una ragazza che si chiama Epepe, ma forse anche – chi può dirlo? – Bebe o Tetete.


La recensione:
Fu strano trascorrere del tempo prezioso con un uomo di lettere, colui che si muove fra queste pagine, burlandosi quasi della mia presenza, andando in un luogo sperduto e sconosciuto per un viaggio onirico e sorprendente fuori dalla sua terra natia, un professore di lettere che è stato come risucchiato in una realtà confusa di immagini, suoni e parole, in una sequenza di voci chioccianti e apparentemente inarticolati che ho avvertito come stonanti, mi hanno reso stranita, alienata da qualcosa che ha generato nient’altro che sconforto. Non il tipo di professore che perde tempo a parlare del più e del meno, ma tendenzialmente abitudinario e impaziente da mostrarsi restio ad abbandonare la sua attività scolastica, rivelare i suoi sentimenti rispetto all’increscioso incubo cui è stato costretto a vivere, e quello che ha confidato di scovare sin dal primo momento in cui ebbe inizio. Eppure qualcosa ha impedito che ciò accadesse, perlomeno non nell’immediato, e prendere consapevolezza di una realtà che non è più nostra è davvero terribile.
Epepe è un racconto kafkiano che, su una piccola barchetta che non si cura di rivelarci chi siamo, mi ha trascinata in una lenta corrente di angoscia, insoddisfazione, disagio, ansia, nelle fauci di una grotta che ha funto da avvio all’ingresso di un pellegrinaggio spirituale ove vi hanno ondeggiato lanterne luminose, ma ricche di scarabocchi e ghirigori. Ben presto però parte integrante di una flotta fluttuante, abituata quasi a condurre uno stile di vita computa, attesa, incerta, in cui pur di sopravvivere è necessario sgomitare fra la ressa. Il più faticoso cammino intrapreso, ma non il primo, che tuttavia è un tipo di equivoco metatartico travestito in incubo che non ha fine, impossibile da risolvere, incomprensibile, ma solidificato in un’inestricabile massa umana che non si districherà mai. Qualcosa che ha avuto a che fare col torpore, ma non solo quello fisico ma anche quello spirituale, che ci induce a restare imprigionati e impelagati in una stupida disavventura? Il romanzo di Karinthy evidenzia questo concetto mediante l’uso dell’immaginazione: mentalmente il lettore ricostruisce i frammenti isolati di un mondo in cui la solitudine, l’alienazione, lo straniamento, l’incomprensione, la mancata fiducia restano sospese come particelle invisibili nell’avverso universo, o qualcosa in più di una semplice fetta territoriale che colgo il frammento di una miniatura geroglifica. Come Budai, il lettore sarà così costretto ad osservarsi, guardarsi dentro per esaminare se stesso, la sua anima e giungere alla conclusione che non sarebbe mai stato in grado di riconoscersi se si fosse trovato ancora intrappolato in questa landa desolata, in piedi, in mezzo a masse di carne, pelle e ossa che con toni concitati, drammatici, confidenziali, quasi ossessivi ci inducono a vivere in una condizione in cui non resta nient’altro che lasciarsi andare a situazioni estremamente << convenzionali >>. I limiti della follia, del delirio ad un certo punto planeranno anche nelle stanze polverose del nostro animo, come un grumo di saliva inghiottito improvvisamente, che ha strisciato sulla mia trachea, senza dubbio espettorato da qualcosa che sovrastava il tutto. Ci si domanda se, alla fine, sia stato il caso di pilotare tale imbarcazione nel punto dove io e Budai siamo sprofondati, un distinguo importante dell’anima dell’intero romanzo, perché essa stessa è racchiusa nelle forze riposte di un mondo governato da cattiveria e malvagità, un mondo in cui gli uomini – quasi invisibili e inconsistenti – assalgono viaggiatori sconosciuti solo per concerdersi il piacere di restare saldamente uniti, mentre un gesto accidentale come quello di dover fare i conti con una realtà disgustosta e spiacevole come questa presupponeva un mondo in cui gli esseri umani non sono altro che forme vaghe, imprecise che seppur con un po' di fatica, pazienza e felice ingegno, interpretano parole, nomi, cose che hanno un significato progressista della sua poetica.
Certamente non dimenticherò tanto facilmente questo romanzo. Al buio spettrale di un tunnel, che sembrava non potesse esserci alcun barlume di speranza, a un uomo dall’aspetto ordinario ma inquieto, che si aggirò furtivo in questo ambiente, insolito e inavvicinabile. Da questi pensieri si direbbe che ne ho fatto parte in maniera del tutto volontaria, spontanea, ma in questo ambiente infinito di persone e nomi impronunciabili, con il tempo scandito da un regolare tic tac e, in sottofondo, vecchi suoni e vecchie voci, la forma di questi pensieri non è stata precisa. Piuttosto distorta e instabile, da sembrare più che un sogno un incubo lento e nocivo, impossibile da riconoscere – artificiale, innaturale, sottilmente ridicolo – di cui ne ho piacevolmente fatto parte. Come rinchiusa in una scatola di cartapesta cui ha a malapena filtrato la luce, e nel quale Budai è stato colui che si è sentito in trappola come un uccello, nel grigiore di una vita che si proietta nella solitudine e nella malinconia e che, giorno dopo giorno, aumentava precipitosamente, non cambiando tuttavia molto, se non le sfumature di una strana malinconia.
Una composizione letteraria che ha rispecchiato una certa tristezza, e che comprendomi dentro di sé, percependo le sue pulsazioni e la sua freddezza, mi ha reso parte di essa, col cuore che sembrava impregnarsi di una tinta grigiastra, avvolgente ma scura. Se chiudo gli occhi, in questa cupa oscurità, ho visto galleggiare forme bianche, immagini sospese nel vuoto, come bolle di sapone. Semplici sigle che indicano delle fantasie, la vita che affonda in un nulla senza fondo, davanti a una distesa di niente, compatto come i ricordi.
In Epepe, la costruzione di eventi che si sono susseguiti e tutti i passi che ho seguito non sono stati per niente facili. Nemmeno per il protagonista, stimato professore di lingue finlandese, che desidera ritagliarsi un posto nel mondo. Ma una volta imboccato il sentiero, mi ha indotta a negare la vita come una serie di occasioni perdute. In un periodo trascorso a leggere con avidità, il romanzo di Ferenc Karinthy a tratti mi è risultato un po' carente per la matassa di eventi a ripetizione che intaccano e annebbiano questa storia, priva di nesso. Un surreale viaggio onirico che oscilla fra il possibile e il necessario, in cui i sogni e le fantasie oscillano come un pendolo in equilibrio precario. Non il più emozionante dei romanzi, ma zeppo di una catena di eventi che tracciano il personale destino di un uomo che si riversa continuamente su stesso, impedendoci di soffermarci, anche solo per un istante, per capirne il significato. Affiorato dalle tenebre e in poco tempo riassorbito dalle stesse.
Valutazione d’inchiostro: 4

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