Il romanzo di Ferenc Karinthy stanziava sullo scaffale della mia
strapiena libreria da tantissimo tempo, poco più di due anni, e questa lettura
da un'unica seduta mi servì a comprenderne la grandezza e soprattutto a
prendere consapevolezza di come mi abbia fagocitato e ospitato nonostante il
mio riserbo iniziale. Fra ebrei, politici, gente dal colorito di pelle diverso,
una fetta della classe lavoratrice di una generazione che via via sta
incamminandosi verso il declino e un’altra dalle fasce alte dei ricchi colletti
bianchi, nessuno però protagonista del viaggio surreale, quasi magico di un
estimato professore, uomo di lettere, amante delle parole e dell’idioma
linguistico di una lingua o cultura incomprensibile ed impossibile da
esaminare, che inevitabilmente si troverà invischiato nella lotta ad un tipo di
liberazione di reclusione forzata in un luogo in cui non credeva potesse
metterci piede.
Nelle duecento pagine che popolano Epepe, perdurano tracce della
poetica kafkiana, in genere sotto forma di episodi surreali, onirici, quasi ovattati,
silenzi e interdizioni, che sebbene non eguagliano né emulano i romanzi di Franz
Kafka mi impedì di dimenticare la croce che il povero Budai si trascina
inesorabilmente, dall’inizio alla fine. In un vortice di parole, frasi,
nozioni, curiosità letterarie che sarebbero rimaste dov’erano e che ho
studiato, esaminato come una creatura aliena capitata casualmente dinanzi a me
che non è stato bellissimo ma straordinario come pochi romanzi ai miei occhi,
rimpiattato in se stesso come un intrepido animale prigioniero in uno zoo, che
da dietro le sbarre ha osservato con coraggio ciò e chi gli è stato attorno.
Titolo: Epepe
Autore: Ferenc Karinthy
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 13 €
N° di pagine: 217
Trama: Ci sono libri che hanno la prodigiosa, temibile capacità di
dare, semplicemente, corpo agli incubi. “Epepe” è uno di questi. Inutile, dopo
averlo letto, tentare di scacciarlo dalla mente: vi resterà annidato, che lo
vogliate o no. Immaginate di finire, per un beffardo disguido, in una
labirintica città di cui ignorate nome e posizione geografica, dove si agita
giorno e notte una folla oceanica, aninima e minacciosa. Immaginate di
ritrovarvi senza documenti, senza denaro e punti di riferimento. Immaginate che
gli abitanti di questa sterminata metropoli parlino una lingua impenetrabile,
con un alfabeto vagamente simile alle rune gotiche e ai caratteri cuneiformi
dei Sumeri – e immaginate che nessuno comprenda né la vostra né le lingue più
diffuse. Se anche riuscite a immaginare tutto questo, non avrete che una
pallida idea dell’angoscia e della rabbiosa frustazione di Budai, il
protagonista di “Epepe”. Perché Budai, eminente linguista specializzato in
ricerche etimologiche, ha famigliarità con decine di idiomi diversi, doti
logiche affinate da anni di lavoro scientifico e una caparbietà senza uguali. Eppure,
il solo essere umano disposto a confrontarlo, benchè non lo capisca, pare sia
la bionda ragazza che manovra l’ascensore di un hotel: una ragazza che si
chiama Epepe, ma forse anche – chi può dirlo? – Bebe o Tetete.
La recensione:
Fu strano trascorrere del tempo prezioso con un uomo di lettere, colui
che si muove fra queste pagine, burlandosi quasi della mia presenza, andando in
un luogo sperduto e sconosciuto per un viaggio onirico e sorprendente fuori
dalla sua terra natia, un professore di lettere che è stato come risucchiato in
una realtà confusa di immagini, suoni e parole, in una sequenza di voci
chioccianti e apparentemente inarticolati che ho avvertito come stonanti, mi
hanno reso stranita, alienata da qualcosa che ha generato nient’altro che
sconforto. Non il tipo di professore che perde tempo a parlare del più e del
meno, ma tendenzialmente abitudinario e impaziente da mostrarsi restio ad
abbandonare la sua attività scolastica, rivelare i suoi sentimenti rispetto all’increscioso
incubo cui è stato costretto a vivere, e quello che ha confidato di scovare sin
dal primo momento in cui ebbe inizio. Eppure qualcosa ha impedito che ciò
accadesse, perlomeno non nell’immediato, e prendere consapevolezza di una realtà
che non è più nostra è davvero terribile.
Epepe è un racconto kafkiano che, su
una piccola barchetta che non si cura di rivelarci chi siamo, mi ha trascinata in
una lenta corrente di angoscia, insoddisfazione, disagio, ansia, nelle fauci di
una grotta che ha funto da avvio all’ingresso di un pellegrinaggio spirituale
ove vi hanno ondeggiato lanterne luminose, ma ricche di scarabocchi e
ghirigori. Ben presto però parte integrante di una flotta fluttuante, abituata
quasi a condurre uno stile di vita computa, attesa, incerta, in cui pur di
sopravvivere è necessario sgomitare fra la ressa. Il più faticoso cammino
intrapreso, ma non il primo, che tuttavia è un tipo di equivoco metatartico
travestito in incubo che non ha fine, impossibile da risolvere,
incomprensibile, ma solidificato in un’inestricabile massa umana che non si
districherà mai. Qualcosa che ha avuto a che fare col torpore, ma non solo
quello fisico ma anche quello spirituale, che ci induce a restare imprigionati
e impelagati in una stupida disavventura? Il romanzo di Karinthy evidenzia
questo concetto mediante l’uso dell’immaginazione: mentalmente il lettore
ricostruisce i frammenti isolati di un mondo in cui la solitudine, l’alienazione,
lo straniamento, l’incomprensione, la mancata fiducia restano sospese come
particelle invisibili nell’avverso universo, o qualcosa in più di una semplice
fetta territoriale che colgo il frammento di una miniatura geroglifica. Come Budai,
il lettore sarà così costretto ad osservarsi, guardarsi dentro per esaminare se
stesso, la sua anima e giungere alla conclusione che non sarebbe mai stato in
grado di riconoscersi se si fosse trovato ancora intrappolato in questa landa
desolata, in piedi, in mezzo a masse di carne, pelle e ossa che con toni
concitati, drammatici, confidenziali, quasi ossessivi ci inducono a vivere in
una condizione in cui non resta nient’altro che lasciarsi andare a situazioni
estremamente << convenzionali >>. I limiti della follia, del
delirio ad un certo punto planeranno anche nelle stanze polverose del nostro
animo, come un grumo di saliva inghiottito improvvisamente, che ha strisciato
sulla mia trachea, senza dubbio espettorato da qualcosa che sovrastava il
tutto. Ci si domanda se, alla fine, sia stato il caso di pilotare tale
imbarcazione nel punto dove io e Budai siamo sprofondati, un distinguo
importante dell’anima dell’intero romanzo, perché essa stessa è racchiusa nelle
forze riposte di un mondo governato da cattiveria e malvagità, un mondo in cui
gli uomini – quasi invisibili e inconsistenti – assalgono viaggiatori
sconosciuti solo per concerdersi il piacere di restare saldamente uniti, mentre
un gesto accidentale come quello di dover fare i conti con una realtà
disgustosta e spiacevole come questa presupponeva un mondo in cui gli esseri
umani non sono altro che forme vaghe, imprecise che seppur con un po' di
fatica, pazienza e felice ingegno, interpretano parole, nomi, cose che hanno un
significato progressista della sua poetica.
Certamente non dimenticherò tanto facilmente questo romanzo. Al buio
spettrale di un tunnel, che sembrava non potesse esserci alcun barlume di
speranza, a un uomo dall’aspetto ordinario ma inquieto, che si aggirò furtivo
in questo ambiente, insolito e inavvicinabile. Da questi pensieri si direbbe
che ne ho fatto parte in maniera del tutto volontaria, spontanea, ma in questo
ambiente infinito di persone e nomi impronunciabili, con il tempo scandito da
un regolare tic tac e, in sottofondo, vecchi suoni e vecchie voci, la forma di
questi pensieri non è stata precisa. Piuttosto distorta e instabile, da
sembrare più che un sogno un incubo lento e nocivo, impossibile da riconoscere –
artificiale, innaturale, sottilmente ridicolo – di cui ne ho piacevolmente
fatto parte. Come rinchiusa in una scatola di cartapesta cui ha a malapena
filtrato la luce, e nel quale Budai è stato colui che si è sentito in trappola
come un uccello, nel grigiore di una vita che si proietta nella solitudine e
nella malinconia e che, giorno dopo giorno, aumentava precipitosamente, non
cambiando tuttavia molto, se non le sfumature di una strana malinconia.
Una composizione letteraria che ha rispecchiato una certa
tristezza, e che comprendomi dentro di sé, percependo le sue pulsazioni e la
sua freddezza, mi ha reso parte di essa, col cuore che sembrava impregnarsi di
una tinta grigiastra, avvolgente ma scura. Se chiudo gli occhi, in questa cupa
oscurità, ho visto galleggiare forme bianche, immagini sospese nel vuoto, come
bolle di sapone. Semplici sigle che indicano delle fantasie, la vita che
affonda in un nulla senza fondo, davanti a una distesa di niente, compatto come
i ricordi.
In Epepe, la costruzione
di eventi che si sono susseguiti e tutti i passi che ho seguito non sono stati
per niente facili. Nemmeno per il protagonista, stimato professore di lingue
finlandese, che desidera ritagliarsi un posto nel mondo. Ma una volta imboccato
il sentiero, mi ha indotta a negare la vita come una serie di occasioni
perdute. In un periodo trascorso a leggere con avidità, il romanzo di Ferenc
Karinthy a tratti mi è risultato un po' carente per la matassa di eventi a
ripetizione che intaccano e annebbiano questa storia, priva di nesso. Un
surreale viaggio onirico che oscilla fra il possibile e il necessario, in cui i
sogni e le fantasie oscillano come un pendolo in equilibrio precario. Non il
più emozionante dei romanzi, ma zeppo di una catena di eventi che tracciano il
personale destino di un uomo che si riversa continuamente su stesso,
impedendoci di soffermarci, anche solo per un istante, per capirne il
significato. Affiorato dalle tenebre e in poco tempo riassorbito dalle stesse.
Valutazione d’inchiostro: 4
Questo libro non lo conoscevo proprio!
RispondiEliminaUna bella lettura. Mi ha sorpresa parecchio ☺️☺️
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