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lunedì, agosto 24, 2020

Gocce d'inchiostro: Furore - John Steinbeck

Non sono certa di poter scrivere. Le parole, in certi casi, non ti << risollevano >> completamente da certi fatti. E di fatti, Furore di John Steinbeck, ne detiene in una morsa  a dismisura, che registrano eventi, situazioni, momenti in cui lo spirito, la bontà d’animo che ci indirizza a fare ciò che facciamo ci mostrano esattamente per come siamo: figure dotate di sentimenti, passioni. Quando si è come intrappolati a vivere in lembi di terra che procurano nient’altro che rinunce, qualcosa che ti induce a lasciare, abbandonare, ogni frase o parola che si desidera estrapolare dalle sabbia del tempo concerne un certo tipo di speranza che illuminerà il cammino fosco, buio e tetro di ognuno di noi. Non si sopravvive, si vive a stento, non si considera nemmeno la possibilità di uscire da questo lungo tunnel in cui si è rimasti intrappolati.
Solitamente, letture di questo tipo sortiscono sempre effetti devastanti. È anche il caso di Furore, di cui ho parlato, straparlato incessantemente per quasi una settimana, vagliando le diverse alternative di rinchiudere ermeticamente i miei pensieri su un foglio bianco intrappolato in una cartella virtuale dall’aria vaporosa e luminosa. Il dramma concerne l’estirpare il comunismo, piaga del secolo che ha sovvertito l’intero sistema legislativo mediante il quale certi preconcetti, certi pregiudizi, sebbene essi non garantiscono la sopravvivenza sono forme di vita costruttive e riconducibili alla fame, alla povertà, alla smania di lavorare, stanziati nel cuore pulsante di questo romanzo come forme da estirpare totalmente. L’incessante faida apocalittica fra Bene e Male svanirebbe, e gli innumerevoli sforzi di benessere fisico e spirituale potrebbero affermarsi come parole sussurrate dinanzi al mondo. Perché John Steinbeck, dotato certamente di un animo sensibile e profondo, non potè più tollerare l’esistenza di questo Male assoluto, e dunque scrisse questo romanzo – così come tanti altri – per denunciare l’irruzione di questo temibile << virus >> a non protrarsi più. Solo pochi autori sono in grado di ascoltare, in un silenzio assordante che sfrega persino nelle orecchie, l’urlo lanciato da figure recise che come uccellini hanno sbattuto le ali, tentato di volare ma spezzate per gli innumerevoli tentativi di fuga. John Steinbeck fu uno di questi ed avendo vissuto Furore non posso non controbilanciare la grandezza assoluta di un capolavoro come questo. L’equivalente di guardarsi dentro, non potendo più concepire di essere altrove. Sebbene è altrove che mi sono trovata, nella settimana che ci siamo lasciati alle spalle.

Titolo: Furore
Autore: John Steinbeck
Casa editrice: Bompiani
Prezzo: 14 €
N° di pagine: 633
Trama: Nell’odissea  della famiglia Joad sfruttata dalla sua casa e dalla sua terra, in penosa marcia verso la California, lungo la Route 66 come migliaia di americani, rivive la trasformazione di un’intera nazione. L’impatto amaro con la terra promessa dove la manodopera è sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria “come un marchio d’infamia”.



La recensione:

 Non c’è nessun peccato e nessuna virtù. C’è solo quello che la gente fa. È tutto parte della stessa cosa. E certe cose che la gente fa sono belle, e invece altre non sono belle, ma questo è il massimo che qualsiasi uomo ha diritto di dire.

Ho trascorso una settimana intensa con John Steinbeck, e dal momento in cui dovetti separarmi mi fu impossibile non pensarci. Furore, con il suo fragoroso frastuono, diventò parte di me. Convissi con persone fatte esclusivamente di carta e inchiostro che nel giro di qualche pagina erano divenute persone, più intimamente di quanto mi sarei aspettata. Dalla bellissima lettura de La luna è tramontata, sono trascorsi diversi mesi. Sono accadute tante cose, innumerevoli cambiamenti, sorprese inaspettate, e con mio perenne stupore, mi scoprii pronta ad abbracciare un opera come questa. Sono del parere, che certi romanzi reclamano la loro attenzione in un momento particolare della nostra vita, e questo periodo coincise con l’idea di leggere qualcosa di estremamente forte, violento, brusco, burrascoso, che è un lucernario in un mare di atrocità e debolezze. Proiettato in un mondo attrezzato e completo di amicizie create, inimicizie sancite, provato da spacconi, codardi, uomini umili e cordiali in cui il grembo famigliare è l’unico luogo in cui rifugiarsi nel momento in cui la riservatezza, il diritto di far baccano, la seduzione o lo stupro, l’adulterio o il furto violano la nostra sfera personale. Strano che a farmi vedere tutto questo fu proprio John Steinbenck. Se non fosse stato per lui, non svrei compreso i meccanismi di questo cosmo prostrato dalla mancanza di lavoro, perpetue sensazioni di paure che sono il contrappeso di forme di sostentamento alla miseria, al nulla più assoluto.
Questa recensione sembra produrre gli effetti desiderati, ma solo in parte. Dopo tutto l’interesse suscitato da una splendida lettura come questa qualche effette avrebbe dovuto sortirlo. Uscire dal mondo apocalittico ritratto dall’autore è stato difficilissimo. Una volta entrata, fu piuttosto arduo tornare alla vita di tutti i giorni. Non potevo chiedere di meglio. Il sogno di ogni lettore si era avverato, e ammetto che non avrei voluto svegliarmi. Nella realtà queste cose, tuttavia, succedono. Quella di Furore è una tematica piuttosto attuale, moderna, incessante e destabilizzante che, in una struttura a specchio, in capitoli che portano avanti e intercapitoli di contestualizzazione storica e universale, è la forte testimonianza diretta, quasi giornalistica, delle problematiche di un paese che lentamente si avviò lungo la distruzione, in cui è evidente la crescente indignazione dell’autore per questo popolo di emigrati. Capolavoro assoluto della letteratura americana, nonché frammento di vita in cui ognuno po' rispecchiarsi, in cui l’individuo è quella massa informe, compatta, solidificata in un unico recipiente: siamo uguali a tutti gli altri. A suo agio con la terra, con l’aratura, con l’idea di possedere un luogo che – nonostante non garantisca un certo benessere – lo fa sentire più grande di quel che è. Poiché l’uomo è proprietà. Non può fare quello che vuole, non può pensare liberamente, ma combatte finchè scova qualcosa che solidifica non più quel concetto di << mio >>, bensì << nostro >>. Essere uniti, compatti avrebbe tenuto lontano dalla solida barriera della solitudine. La scintilla della speranza avrebbe alimentato questa luce, e nemmeno trincerarsi dietro a solide barriere avrebbe abbattuto la forza devastante del comunismo.
Per certi versi, la trama di Furore si consolida in tutto questo. Una famiglia come tante che detiene il possesso di una terra, di un comunissimo acro, coincise con quello di salvaguardare la famiglia, i membri di una società che mediante fondi o raccolto aumentano o riducono il loro benestare. Le faide hitleriane del secolo accrebbero questo proposito iniziale di scrivere qualcosa che avrebbe sovvertito il sistema, mediante una forma e una sostanza che avrebbe rivoltato ogni cosa. Questo avrebbe dovuto portare la sua lettura, ed in effetti così è stato. E si dà il caso l’inizio di un contesto politico/ culturale attualissimo, modernissimo nonché il preludio, il veloce riassunto di gruppi di anime dannate della storia della loro sopravvivenza che Steinbeck ha raccontato magistralmente. Se non lo avesse scritto, non ci sarebbe stato niente. Perché niente avrebbe spinto queste anime a cominciare. Ad aprire gli occhi, per comprendere il mondo circostante. Solo le tenebre avrebbero potuto persuadere un uomo di lettere come Steinbeck ad aprire il proprio cuore al mondo, e ogni volta che penso che ciò che ritrae Furore è fedelissimo alla realtà ci si trova circondati dalle tenebre. Come ho detto, per scrivere serve coraggio, e per l’autore è stata l’unica ancora di salvezza. Sebbene sia una lotta quasi del tutto inutile perché non molti si sono salvati dalla morsa del comunismo, neppure nell’aver trascritto la realtà. Storie come queste durano per sempre, ed essere invischiati in una di queste significa dover morire prima che la gente reciti una parte già terminata. L’unica e sola speranza era quella di abbatterlo, e se c’era motivo di sperare ci sarebbero state maggiori possibilità di salvezza.
Come se emersa da un luogo lontano, ma allo stesso tempo vicino, da un epoca classica, condottieri di una faida inestricabile e furiosa, Furore è la rappresentazione letteraria e diretta e urgente di una condizione storica e sociale precisa che evoca una condizione umana attualissima. Mediante uno stile definito realismo magico, descrive quell’Inferno, quel tugurio, a cui è stato impossibile sfuggire, ritraendo una storia che su quell’orizzonte avrebbe visto la luce. Allineato in disgrazie e disgrazie, messo assieme a quello che è il vero obiettivo dell’autore: evidenziare la << disgrazia >> del secolo, l’appello all’idignazione in cui la convinzione dell’esistenza occulta ma attiva unisca. Niente di così vero. Agli occhi di Dio siamo tutti uguali, e così come Faulkner l’autore evidenzia questa << condizione >> mediante continue rivolte, lotte, riparando agli errori del passato, combattendo pur di liberarsi dalla stretta di una morsa.

La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume; magari cambia un po', ma non finisce mai.

Valutazione d’inchiostro: 5

4 commenti:

  1. Mai letto ma sembra interessante; ottima recensione, grazie

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  2. Ciao Gresi, questo romanzo mi incuriosisce da sempre, spero di trovare l'occasione giusta per leggerlo :-)

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