domenica, dicembre 22, 2024

The lost review: ultime letture dell'anno 2024 parte 1

La fine dell’anno funge quasi sempre da espediente per tirare le somme, sedersi alla scrivania, prendere carta e penna e stilare una lista di tutto ciò che ha compreso trecentosessantacinque giorni. Nel bene e nel male, stabilire quali elementi positivi ci siano stati nella nostra vita, e quali negativi. Nel mio caso, nel caso delle letture, dei libri, di somme da tirare effettivamente quest’anno ce ne sarebbero, e non poche dato il numero esorbitante di letture vissute, durante il corso dell’anno. Però, quest’oggi, questo post non spiegherà né toglie niente che non abbiate già visto, quanto concede la parola o le ultime battiture, a seconda dei casi, a quelle storie, quegli autori che mi hanno affiancato, in questi ultimi giorni dell’anno.

Ultimi ma non meno importanti, affinchè l’anno nuovo sia pregno di tante cose, tante nuove opportunità, tanti sbocchi sull’anima in cui l’atto del leggere sia un segno lasciato nella sabbia del tempo, ringraziando ogni giorno trascorso con amici, figure che esistono solo sulla mia testa, come espediente per rinascere o comprendere a pieno ciò che ancora ai miei occhi è incomprensibile.

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Titolo: Il taccuino perduto

Autore: Pierre Yves Leprince

Casa editrice: Mondadori

Prezzo: 22 €

N° di pagine: 366

Trama: È la fine del 1906 a Versailles quando un ragazzino di diciassette anni, che ne dimostra tredici e si guadagna da vivere come galoppino, si imbatte in Marcel Proust. Lo scrittore non ha nemmeno quarant'anni e nessuno immagina che diventerà il più celebre autore francese del Novecento, per ora è solo uno scrittore che si è rifugiato al Grand Hotel per stare in pace e dedicarsi ai suoi appunti, almeno fino al momento in cui il suo prezioso taccuino non scompare. Di Nöel, il protagonista di questa storia, non c'è traccia da nessuna parte, non viene mai citato e non esistono testimonianze, lettere o biografie che lo ricordino, eppure per molto tempo fu la compagnia prediletta da Monsieur Proust, il compagno di numerose indagini segrete e l'abile risolutore di enigmi complicati. Soprattutto si deve a lui la ricerca e il fortunato ritrovamento di un prezioso taccuino indispensabile per scrivere un certo romanzo... Tra malintesi, ricerche misteriose, pagine perdute e abilmente ritrovate, Pierre-Yves Leprince costruisce un romanzo che è al tempo stesso una detective story intelligente e pronta a spiazzare il lettore in ogni certezza, la storia di amicizia tra un genio del secolo scorso e un ragazzino che ha letto pochi libri ma ha occhio per i dettagli, e soprattutto è un omaggio appassionato e acuto all'autore della "Recherche" da parte di uno scrittore che conosce ogni piega dell'opera.

La recensione:

I gialli? Ora che ho letto un romanzo di questo << tipo >> non posso esimermi a parlarne. La mia comfort zone ne esula completamente. Sa che di romanzi gialli, quelli in cui il mistery, le innumerevoli indagini che generalmente prevedono la scoperta di qualcosa o qualcuno, discende da fatti o eventi che generano in me sonnolenza, tedio, innumerevoli sbadigli che nemmeno una dose eccessiva di caffeina può sopprimere. 

Questo romanzo, tutto sommato, si è rivelata una piacevole compagnia. Distante eoni ed eoni dal mio silenzioso mondo ma da cui ci arrivai, anzi ci incontrammo per caso, sulla via di un percorso di ricerca, di indagine per l’appunto, che aveva come protagonista Marcel Proust. Un autore che nel giro di un anno ho tessuto lodi, ho letto per intero la sua splendida Ricerca del tempo perduto, il suo figlio brutalmente abortito Jean Santeuil, racconti che sfoggiano come un bellissimo crisantemo ne I piaceri e i giorni, accucciata nel mio splendido santuario magico ma pronta ad affrontare ogni cosa, ogni incombenza. Aspettavo silenziosamente quel momento in cui io e Marcel ci saremmo dovuti lasciare, posticipando la nostra venuta, e godendo di ogni singolo istante in sua compagnia.

Il tragitto che mi spinse fra le pagine di Il taccuino perduto però fu diverso, in quanto la conversazione che ebbi col suo protagonista, un ragazzino che sarà il tuttofare del niente e poco di meno poeta Marcel Proust, non fu quel solito dialogo che delle volte mi rende protagonista di strani eventi quanto un tuffo nella sua coscienza. Per qualche momento disorientata di non sapere dove volesse dirigersi, poi intrappolata in una gabbia da cui ne sarei uscita solo quando questo fantomatico taccuino sarebbe stato scovato. E quel poco che ne restava, a dispetto intendo delle indagini che implicano ciò, mi resi conto che anche questa nuova visione dell’autore, mi affascinò tantissimo. Poiché sopravvive ancora il suo ricordo, quel momento in cui mi premurai a raccogliere ogni rimasuglio della sua splendida opera, muovendosi silenziosa e imperscrutabile entro i limiti del possibile: abbastanza vicina da ascoltare i suoi pensieri - zeppi di interrogativi, strambe idee, spunti di riflessione che non richiedono altro che essere sviluppati in un romanzo, e abbastanza lontano da farmi vedere, nel riquadro della finestra del suo mondo tutta esposta a nord, la sua licenza da attore di dramma patentato intrappolato dai demoni del suo passato. Per questo motivo, il ragazzino che lo affiancherà e a cui si attacca come una seconda ombra non sarà considerato, al di là di semplici espressioni diverse dalla piattezza languida di un rito funebre. Ma come doveva apparire, questo strano uomo dall’aria malaticcia, triste, con lo sguardo perso chissà dove, alle orecchie di chi legge? Come se non bastasse, il suo taccuino era stato rubato, aveva ridotto le sue speranze a invisibili granelli di sabbia che, repentinamente e inesorabilmente, scivolarono sul palmo della sua mano. Forse per una creatura di questo tipo il Paradiso terrestre è un isola che non c'è, costretta a vagare come un anima in pena in una città in cui la sua miserabile vita è stata esibita in miserabili circhi e fiere ambulanti. Quelle opere di autori di cui tanto diligentemente legge e divora, nebulose come macchie d'ombra, si incroceranno nel suo viaggio con una carovana di segreti, follie che, sia per pure ragioni diverse, causeranno un brivido simile?

Non dovetti aspettare molto. E, dopotutto, il fatto che fossi stata invitata a prendere un tè produsse al mio animo una strana sensazione nella quale si mescolarono sorpresa e inquietudine. Se, qualche anno fa, non fui capace di frenare quelle sferzate di curiosità improvvisa, quegli attacchi violenti dietro a una facciata imperscrutabile con cui volontariamente nascondevo la mia insaziabile sete di conoscenza, sarei stata in grado di farlo adesso? Forse inconsapevolmente un pezzo della sua anima si era incastrata perfettamente con la mia, ma non per questo affrettai il passo andando oltre quella facciata da finta buonista che le situazioni estreme mi hanno fatto sviluppare.

Quella facciata di diffidenza dietro cui volontariamente nascosi il mio entusiasmo, che si scontrò contro oscuri e lontani echi, cominciò a scemare e svanire quasi completamente quando cominciai a leggere. Quando compresi che le sue nobili gesta viravano lungo l’ennesima indagine misteriosa, in una finestra virtuale dall'aria luminosa e vaporosa, in cui fu versato un liquido che ha assunto nella mia testa una specifica forma. Era un'indagine dal ricco sapore della suspense e dell'avventura a fare da sfondo. Uno specchio in cui sono riversati sprazzi di vite di personaggi che, sino a quel momento, avevo visto solo di sfuggita e da cui l'anima ha potuto attingere pur di mantenersi imperturbabile a decidere il modo più efficace di dire ciò che non riesce a dire.

La semplicità del tema trattato, e, soprattutto, un uomo meno fascinoso e carismatico di quel che avevo conosciuto, hanno collimato con il mio animo di lettrice. Spesso, durante il corso della lettura, mi domandavo se questo Marcel Proust non fosse che una sosia dell'originale. Ed effettivamente fu così, che poco abile ad interpretare il linguaggio contorto dell'amore, della vita, aggiunge un ulteriore velo di perplessità al nulla.

Osservandolo muoversi e scomparire fra gruppi di anime, ignari del loro destino, accogliendo la storia di questa diapositiva sfocata nel mio cantuccio personale in una veste deliziosa e priva di ambiguità, armata di penna a sfera e bloc notes. Fantasticare sulle vite altrui partendo dall'osservazione di un dettaglio, un oggetto, non è per niente facile. Eppure questa è stata una storia semplice ma accogliente come un posto che, per una manciata di giorni, ha funto da casa, e come mezzo per entrare ed esplorare magnifici sontuosi letterari e non sentirmi fuori posto.

Un'indagine che seduce e cattura per la freschezza e l'originalità della storia e che, fra grumi di idee, spunti e suggestioni, accoglie un numero spropositato di lettori che, "condannandoli" a distaccarsi dai ritmi di una vita piatta e monotona, permette di trovarsi gomito a gomito con un protagonista tendenzialmente pessimista, ma lucido e critico da ogni punto di vista.

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

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Titolo: Birra e cazzotti

Autore: Brendan O’Carroll

Casa editrice: Neri Pozza

Prezzo: 15€

N° di pagine: 190

Trama: Per sopravvivere a Snuggstown, turbolento sobborgo di Dublino, ci sono due possibilità: pagare il pizzo alla mala, oppure riscuoterlo per suo conto. E per un poliziotto, ce n'è una sola: chiudere entrambi gli occhi. Ma se nella chiassosa cittadina ti capita di nascere con il talento per la boxe, forse al destino c'è una via di scampo. È questo ciò che pensano i fans del venticinquenne Anthony "Sparrow" McCabe, il miglior pugile irlandese dei pesi leggeri, in una calda sera del 1982, mentre assistono o ascoltano alla radio la finale europea di categoria in corso al palazzetto dello sport Sanmartino di Madrid. All'ottavo round l'avversario di McCabe è alle corde e per la vittoria manca solo l'ultimo pugno, quello del knock-out. Ma Sparrow quel pugno a un avversario impotente e umiliato non riesce proprio a sferrarlo, vorrebbe ma non può, potrebbe ma non vuole... e il sogno finisce. Come succede per i grandi eventi, a Snuggstown quattordici anni dopo tutti ricordano ancora quel giorno, ricordano dov'erano e cosa stavano facendo nel momento della sconfitta di Sparrow: lo ricorda Kieran Clancy, che da giovane diplomato all'accademia di polizia è nel frattempo diventato sergente ispettore, intenzionato a tenere ben aperti gli occhi sulla malavita. Così come lo ricordano i fratelli Morgan e il loro capo, Simon "Semplice" Williams, intraprendente gangster diventato il boss della città, che risolve ogni contesa "semplicemente" suggerendo ai suoi sgherri di spargere sangue...


La recensione:

Il periodo che ci stiamo lasciando alle spalle, mi vide impelagata in una serie di vicende che hanno dell’incredibile. Ciascuno di esse, con una sua particolare specialità. Gente che si affannava alla ricerca di una propria identità, una propria coscienza, chi si umiliava in sobborghi decadenti e putrescenti pur di sopravvivere anche con un tozzo di pane, o chi in un’infinità di pesci, gente da poco affacciatasi nel mondo, pesca quello più grosso, quello più succulento, e lo espone al lume di una lampada ad acetilene: un affascinante mosaico di colori e forme, fra continue zaffate di fortissimi odori, e le fiammate di oli che erano maneggiati da barboni o vagabondi come se fossero prestigiatori. Nel buio, dietro a gente dotata invece di una sua coscienza si aggirava gente che desiderava sopravvivere mettendo in gioco le proprie capacità intellettive, il proprio carisma, le proprie doti. Da sotto un tavolo da pranzo comparve Anthony "Sparrow" McCabe, un ragazzino che pur quanto la vita abbia tentato di renderlo puro a certe malefatte, la sua identità sarà lavata continuamente. Una alla volta compirà gesti che avranno a che fare con il suo benessere spirituale, la sua sopravvivenza, la sua famiglia.

Tra la folla, Anthony ha destato la mia attenzione perchè sembrava possedere qualcosa di speciale, che mi chiamò dalla soglia di una città quasi dimenticata degli anni ‘70, finendo però sotterrato dalla stessa in cui la lotta alla sopravvivenza diverrà la sua unica ossessione. Perché ciò? Perché Brendan O’Carroll racconta di certe persone, forse realmente esistite, che hanno tentato di esserci state, di sopravvivere, ma la loro identità è avvolta da fumi di zolfo e birra fresca ancora rovesciata. E Anthony, in un momento particolare della sua vita, vomitando delle stranissime << capacità >> che, seppur a tentoni, lo discostano dalla massa. Portato in cima a una montagna e riportato in un luogo in cui la solitudine, il ripristino di certi affetti, lo hanno salvato.

Birra e cazzotti possedeva una marcia in più da altri romanzi che ho letto in passato e di cui io francamente non ne conoscevo nemmeno l’esistenza, vita quotidiana intrecciata a ricordi, nozioni, promesse mai mantenute che mi concesse la possibilità di osservare la letteratura << dei sobborghi>>, quella cioè attuale, con altri occhi, di stare piacevolmente in sua compagnia, comprendendo così di non poter quasi sempre dare per scontato nessuna di queste possibilità, perché certi pregiudizi mi rendo conto non mi aiutano anzi restringono un certo spazio rispetto ad altri, che la storia che l’autore si porta dentro, così soffocante ed intima, mi ha resa coinvolta, solidale a qualunque forma di pressione emotiva, poiché il tuffo che ho fatto sott’acqua mi ha indotta non solo a trattenere il fiato ma ad osservare ciò che avevo dinanzi con altri occhi. Forse si è trattato di un sogno, un miraggio che scovandomi mi ha avviluppato in una maglia di attimi sfuggenti, che disorientano, distraggono ma la cui luce rassicura. A volte mi è sembrato di essere entrata fin troppo dentro, o di non aver mai avuto possibilità di conoscerlo imparando ad comprenderlo nel modo giusto, perché la verità è che Anthony non è mai stato compreso da nessuno ed io ero pronta ad attraversare questa tempesta emotiva e la sua stramba storia. Mi rendo conto che si tratta di pensieri eccessivi, ma non riesco a zittire la vocina interiore del mio cuore. Sono rimasta impigliata, e questa lettura in un certo senso è stato quel giusto antidoto utile a scacciare la noia e la tristezza.

Non ci sarebbe nient’altro da dire. Quando si legge questa tipologia di romanzi l’idea non è di essere esclusivamente intrattenuta ma di amarlo, o perlomeno apprezzarlo, e solitamente ce la metto tutta per cogliere stati d’animo che rispondono ai muti ed incauti sussulti del mio cuore, sottili indicazioni che parlano molto più del normale, preferendo acquattarsi nel cuore della notte per ricordarci di chiedere se il tempo con cui trattenersi forse troppo poco o troppo eccessivo. Alla fine la decisione è sempre quella più adatta, concerne al mio animo perché solo così mi sento più libera e felice quando sono io a decidere, complice intrepida che ha viaggiato in svariati luoghi in patrie paludose e putrescenti.

In genere finisco per amare queste letture dalle prime pagine, spesso addirittura dallo stile dell’autore. Ma per squarciare il velo della monotonia, non solo certi viaggi improvvisi si rivelano splendidi ma accrescono il mio amore per la lettura. Ed ecco che con questa storia si è stabilita un’intimità spirituale troppo breve per essere intensa che a volte mi è sembrato di conoscere quest'uomo apparentemente forte ma fragile, avvolto nelle maglie del tempo, che ha adempiuto a ruoli che sotto certi punti di vista sono stati scomodi, ma conformi all’epoca narrata. Così fondamentale ascoltarlo, seguire i suoi gesti a piccoli passi, prestare molta attenzione a ciò che la sua bocca non aveva espresso quanto il suo cuore, perché a volte ho interpretato male i segnali maturando pensieri sbagliati, come afferrarlo e poi sfuggirmi, in quanto in tutto ciò che ha fatto ci ha messo il cuore ma non si ribellava mai e lasciava fare perché intimidito dal dubbio e dalle delusioni. Mi sono così sottomessa a questi pensieri con una specie di coinvolgimento passivo, quasi meccanico, che era peggio del non esserci, e quando mi accorsi di ciò mi indusse a capire che era il vero intento di Anthony. La sua panacea. Uomini e donne sono diversi, e per comprenderli a fondo bisogna fare più attenzione e imparare a pensare e sentire come a volte sia necessario tollerare certi comportamenti e certe scelte.

Uno squarcio nel tessuto del tempo che ho percorso in un pomeriggio inalberando momenti di vuoto in segno di rievocazione del ricordo contro tutto, che è appoggiato su posizioni di vita che invitano a guardarsi dentro, aderiscono alla nostra pelle come una patina invisibile, fatalista e moralista attraverso il quale abbracciamo questo mondo come una condizione cui non si può fare a meno.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: La vita contro

Autore: Rita Ragonese

Casa editrice: Fazi

Prezzo: 18 €

N° di pagine: 288
Trama: Umberto e Angela si incontrano. Lui alla soglia della pensione, alcolista, cresciuto al CEP - esperimento di aggregato popolare affacciato sulla laguna di Venezia - e lei poco più che ventenne, appena uscita dal carcere della Giudecca, proveniente da una rispettata famiglia ottusamente cattolica, la cui infanzia è stata scandita dalle ossessioni di un padre bigotto. Quando si incontrano per la prima volta, Umberto è il serio, scorbutico e apprezzato macellaio di un supermercato di Mestre che porta sulle spalle il peso di una terribile tragedia accaduta vent'anni prima. Abbandonato dalla moglie e dal figlio, trascina la sua esistenza in solitudine. Angela, ospite di una comunità, arriva al reparto macelleria come stagista, grazie al progetto di recupero proposto dai servizi sociali, al solo fine di ottenere l'affido di Martin, il figlio avuto da Florian, che durante la sua detenzione era stato affidato ai nonni. L'errore di Angela è stato quello di aver ingenuamente creduto alla lealtà del giovanissimo padre del bambino, finendo invischiata, invece, in una serie di attività criminali. Umberto e Angela, dopo un primo momento di collisione, iniziano ad avvicinarsi. Senza volerlo, senza sapere di esserne capaci, finiranno per proteggersi a vicenda, accompagnati dalla lenta scoperta della bellezza, sino all'inaspettato finale.


La recensione:

Parlare di un romanzo che effettivamente non possiede niente di speciale da altri testi letti, in precedenza, nonostante io insista o voglia convincermi che possieda qualcosa di speciale per sottolineare che è stato letto in un momento particolare della mia vita, fu quello di tastare il terreno apparentemente arido ma fertile di una storia, tutta all’italiana, di un’autrice che non conoscevo affatto ma che mi concesse l’opportunità di fare un grande viaggio, restando semplicemente seduta sulla mia poltrona preferita della mia camera; come prendersi una vacanza dalla normalità. E, sebbene le remore, mi è piaciuto molto stare in sua compagnia, anche se sentivo che avrei dovuto fare attenzione ad ogni cosa che avrebbero visto i miei occhi, ascoltato le mie piccole orecchie, o peggio, quando la verità mi sarebbe stata sbattuta in faccia, con un atteggiamento di finta condiscenza che avevo immediatamente percepito. Certo non mi ha folgorato o stravolto l’esistenza, ma dal periodo della sua lettura ad ora, quello cioè della stesura della recensione, continuo a pensarci, e il lasso di tempo prevede quasi un mese dalla sua venuta, il cui linguaggio semplice era indirizzato nient’altro che lungo una strada che parlava di rinascita, rapporti stretti e solidificati fra madri e figli.

Ma non si può sempre credere nella dicotomia di bianco e nero. A volte bisogna anche saper vedere oltre, fra le sfumature, con quella fievole luce che si sprigiona quando meno ce lo aspettiamo, o aggrappandosi a Dio affinché accada un miracolo. L’unico che possa farlo e che forse ci sottragga dalla pena della solitudine, delle negatività.

Da una prosa asciutta ma non priva di emozioni, la Rovera esplica un bagaglio di esperienze in cui è evidente il forte desiderio di essere donne e di voler far ascoltare la propria voce, nel bel mezzo di qualunque caos atmosferico. Così inoltrata nell’anima di ogni soggetto o paziente che dovette studiare, esaminare, in cerca di qualcosa che forse non ha una sua collocazione precisa ma certa che la sua lettura avrebbe scaturito qualcosa. Io, sicuramente, che avevo minimalizzato ogni cosa, ne sono rimasta affascinata, certa che dalla sua lettura avrei solo scovato qualche sbadiglio. Ma la differenza fra chi è una semplice pedina e chi invece era una neo mamma ma dal passato turbolento divenne così tangibile da ridurre ogni poca certezza, quanto alimentando il suo essere importante e sensazionale del mondo conoscendo i limiti di un argomento ancora insuperato ma traendo svariati esempi, io che mi incuriosisco per qualunque argomento viene trattato in letteratura. In questo caso un lavoro artigianale modellato con cura, che mi ha donato delle piacevoli sensazioni, bei momenti in sua compagnia, depositano i guadagni di un dramma intenso, confidenziale poiché ho avuto come l’impressione di guardarsi allo specchio di cui la stessa scrittura è un buon modo per esprimere ciò che si ha dentro. Qualunque assetto caratterizza la nostra anima, alternata da due voci diverse, detenendo il potere di conferire vita.

La felicità, infatti, pur quanto assetto delicato da cui è facilmente auspicabile la dolcezza e il conforto, deriva da anni di riflessioni profonde che sconvolgono da dentro, divorano le nostre viscere con estrema cura, come se predisposte a una lenta agonia.

Mi è sembrato di avvertire una certa malinconia. Non proprio concerne alla tipica tristezza shakespeariana, bensì qualcosa che è stato piuttosto vicino. Si. Una certa drammaticità che nel corso della lettura ha sedimentato nel mio animo.

Per me è facile capire la solitudine. C'è stato un tempo in cui io e la solitudine eravamo fidate compagne di viaggio, amiche che non si separavano per nulla al mondo. Una situazione questa in cui nemmeno i miei figli d'inchiostro, i miei amati libri, potevano trarne beneficio. Datemi un pomeriggio freddo ma mite, una coperta morbida e accogliente, una tazza fumante e un buon libro e questo è il mio angolo di paradiso. O, quantomeno, quello che mi piace definire luogo di pace. Ristoro, serenità e spensieratezza in cui il mondo acquisisce una sua importanza; i colori si fanno più evidenti e marcati. I libri, così come la scrittura, hanno sempre funto come espediente per combattere gli assalti esterni. Ecco forse da cosa deriva questo mio strambo interesse per il romanzo della Ragoni, le sconosciute motivazioni per cui mi hanno indotta a lasciarvi un segno del mio passaggio, o, nel finale, l'emissione di un tacito lamento! Com'è assurda talvolta la vita! Com'è stato strano il mio incontro con Rita Ragonese e sua figlia d'inchiostro, Angela. Spuntata dal nulla, senza un ma né un perché, cornice di una melodia che non ha effettivamente una sua collocazione, seppur il romanzo si premura a tenerci ancorate a quelle note che rivelano una parte fragile e precaria della sua anima.

E così che ho conosciuto Angela. Ostinata e curiosa e non priva di ansie e preoccupazioni, in un momento di quiete spirituale che confidava di scovare. Non producendo quel meraviglioso suono che aveva creduto, bensì un mero gocciolio di una pozzanghera umana che lentamente era scesa e scivolata nelle grondaie coriacee della sua fragile figura. 

Un romanzo in cui il silenzio, la solitudine, la compassione, il dramma, sono categorici. Inzuppato di note che hanno una loro collocazione fissa, e che si sono ravvivate nel momento in cui la protagonista comincerà a parlare. Il titolo infatti allude a delle fasi della vita su cui si sbilancia Angela. Da un lato il suo ardente desiderio di essere mamma e il guazzabuglio di motivi che la spingono ad essere tale. Dall’altro le motivazioni per cui è importante lottare e volgere le spalle al passato, come modo di esprimere la propria individualità, la propria libertà. Spingendoci a comprendere chi siamo effettivamente e per quale motivo siamo su questa terra. Pallido riflesso di ciò che avrebbe potuto esserci. 

Quel genere di storia che sortisce un chè di ammaliante, quasi ipnotico, sin dalle prime pagine. Una storia lenta, densa ma non priva di emozioni che, dopo una settantina di pagine, mi aveva contagiata del tutto rendendomi comprensiva. La speranza che fra le sue pagine ci fosse un chè di profondo, tangibile, evaporò al sole nel momento in cui le parole che fuoriuscivano dalla bocca di Angela cozzarono nel mio petto, soffocarono la mia gola. Assaporando ogni cosa con una certa rilevanza, apprezzando tuttavia il coraggio dell'autrice di averci parlato di se stessa. Di donne e della sua identità.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Tonio Kröger

Autore: Thomas Mann

Casa editrice: Bur Rizzoli

Prezzo: 9, 50 €

N° di pagine: 220

Trama: Tonio Kröger, scrittore in erba, si trasferisce da Lubecca a Monaco dove raggiunge la celebrità letteraria. La fama non placa però la sua irrequietezza e il suo senso d’inferiorità nei confronti di coloro che, come l’amico Hans e la giovane Ingeborg, sono tanto lontani dall’arte quanto semplici, liberi e spontanei nel vivere. Vero e proprio ritratto dell’artista da giovane, Tonio Kröger ruota intorno al contrasto, acutamente sentito da Thomas Mann, tra le esigenze dell’arte, che lo portavano a un’esistenza fredda, artificiosa e lontana dal sentire comune, e l’inconfessata, profonda nostalgia per la pienezza del vivere, la solidità e l’onestà borghese. Un capolavoro della letteratura novecentesca, che la penetrante introduzione di Giuliano Baioni rivela in tutta la sua ricchezza e complessità.


La recensione:

Anche questa storia, questo piccolo gioiellino di stampo tedesco, piacevolissimo, fu davvero sorprendente. Si stava su una strada ammantata dalla neve, in compagnia di un ragazzo che portava sulle spalle il peso di una condanna, un fardello che grava sulla sua coscienza, e da cui dipende la sua stessa esistenza. Vari tipi di ragazzi, uomini o donne, prima di lui, parlarono o sussurrarono al mio orecchio temi in cui l’esistenza era intrinseca a qualche male incurabile. Dell’anima, dello spirito, del fisico. Gusci vuoti che erano riempiti da questo << peso >>, contenuti da queste sostanze e da cui dipendevano o pescavano, a seconda dei casi, vittime che avrebbero potuto poi fagocitare o esportare come piccole invisibili membrane. Poco dopo la vita, o qualche fortuito espediente cognitivo, li avrebbe ributtati nella mischia e i gusci di queste entità trasportati via.

Tonio Kröger era un racconto di vita forse autobiografico di un uomo che avrebbe voluto vedere sempre tutto pulito attorno a sé. Se la letteratura, l’arte non fossero stati intaccati dalle brutture della società, della borghesia, avrebbe potuto scintillare, risplendere come una fulgida stella. Divenendo quell’esercizio artistico mediante cui a volte ci si perde ma poi si ritrova.

Facile riconoscerlo, per un ragazzo sensibile, reso forse fin troppo, come Tonio. Indirizzato a seguire una strada che aveva l’aria di seguire tutto ciò che era normalissimo, o appartenente a tale. Bastava guardarsi attorno, in cui i sentimenti o l’emozioni sono fin troppo evidenti ma repressi dall’artista che può scomparire o apparire a piacimento, nutrendo una certa sensibilità per il mondo esterno, in una particolare scissione fra artista e borghesia. Si perchè Tonio, così come l’autore, apparteneva a una minoranza di letterati, quelli esonerati dalle << colpe >> borghesi o aristocratici, che nell’insieme arrestarono quel processo di riscrivere la vita, frammenti di storie della diaspora economica e politica e la storia di un nuovo scontro bellico, come storia vecchia o passata, che avrebbe spiegato o annientato ogni cosa. E l’uomo, impossibilitato ad essere l'artefice di se stesso, quanto cercatore di quella luce, quella fievole speranza che, disseminata nel romanzo mediate la presenza di alcuni simboli o oggetti, camminano bisognosi o disperati in cerca di beatitudine. Forse solo così sarebbe stato possibile comprendere la vita, quella condizione irrimediabile di giudizio da cui è facilmente riconoscibile la figura del borghese svanito, quello che non può definire o perdonare.

Malgrado tutto non posso dire di essermi imbarcata in questa storia con l'animo particolarmente pessimistico. Lo feci semmai sprofondando nelle immense pene che furono causate a questo ragazzo, apparentemente normale e semplice, che non poteva contare nemmeno dell'appoggio dei parenti, degli amici in questa importante avventura. Thomas Mann, ne sono certa, ha descritto una fetta della sua vita, la sua famiglia, le sue folli scorribande nell'alta società, confermando così la mia ferma convinzione in base alla quale i suoi figli di carta, prima i Buddenbrook ora Tonio Kröger, erano buoni soltanto a lamentarsi, perché da una materia proficua come quella di possedere o modellare la letteratura era impossibile trarne giovamento. Tonio, a questo proposito, è la dimostrazione vivente che si può godere del fallimento come della felicità. Poiché nulla appare come sembra, bisogna avere una certa cura per i dettagli, per le piccole cose, malgrado la condizione stabile della sua esistenza, rimasto aggrappati all'unica cosa che aveva dato un 'senso' alla sua esistenza. Vagando come uno spettro rabbioso per i terreni borghesi, con un bagaglio di studi e poca esperienza, mentre la caduta dell'albero maestro andò definitivamente a schiantarsi in mezzo a loro. Da qui, la decadenza che si respira tra queste pagine, la solitudine che grava nel suo cuore come un fardello troppo pesante. Forma di disagio che immobilizza, destabilizza, ci fa comprendere che è di stampo esclusivamente psicologico poiché accade solo nella testa di questi personaggi perché perdono quella linfa vitale che li contraddistingue. La letteratura a questo proposito ci spinge a comprendere appieno la vita e il suo misterioso significato, e di ciò che l'individuo possiede e che non riesce a godersi. L’inclinazione fra etica ed estetica che trova sintassi nel momento in cui si tenta di scovare una certa armonia fra le cose semplici.

Ho conosciuto Tonio Kröger come tregua da una battaglia letteraria di crescita interiore, di vita e passione, che mi sentì quasi in dovere di avvicinarmi. Malgrado tutto, il rattrappito appetito cognitivo nei riguardi di questa lettura fu l'esperienza suggestionabile e bellissima che desideravo leggere da un bel pó e che presto scoprì come quel mondo provvisto di maldicenze, drammi interiori verso i quali la ipnotica oratoria dell'autore mi aprì le porte. Mi sono così abbandonata ai piaceri, se così si può dire, della narrazione dettagliatamente scrupolosa e tangibile del romanzo, all'esplorazione della crescita interiore nelle quali lo stesso Tonio si era avventurato, come la letteratura e l'arte, e godersi ogni secondo della mia esistenza affacciandomi ad un mondo splendidamente descritto.

Sebbene le vicende che si sono snodate non hanno propriamente lasciato un seducente sentore di fresco, quello di Mann è un romanzo che rievoca la libertà sopita dalla stoltezza, dalle inutili convenzioni sociali, che ha trovato compenso nella caratterizzazione di ogni personaggio, anche in quelli minori, nello splendore di ideali letterari dove la natura stessa è arcaica, come la rude architettura di un palazzo. 

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Le guardiane della notte

Autore: Cheon Seon Ran

Casa editrice: Mondadori

Prezzo: 19,50 €

N° di pagine: 192

Trama: Quando Suyeon, una giovane investigatrice alle prese con una serie di apparenti suicidi all'interno di un ospedale, incontra Wanda, una donna avvolta in un cappotto nero che si aggira sul luogo delle morti misteriose, non immagina certo di trovare in lei un valido aiuto per condurre le indagini. Wanda, infatti, non ha dubbi: le vittime non si sono gettate dal sesto piano, ma sono state uccise. Ed è convinta che il vero responsabile sia un vampiro. Da principio per Suyeon questa ipotesi non è contemplabile, ma effettivamente troppe cose non tornano. E in particolare è un dettaglio a far vacillare le sue certezze: sui cadaveri ci sono pochissime tracce di sangue, incompatibili con una caduta dal sesto piano. Wanda conosce fin troppo bene il mondo dei vampiri: sa che agiscono nel cuore della notte e che si nutrono del sangue di persone sole. Conosce la loro forza e le loro debolezze. E Suyeon ha bisogno di lei per identificare il colpevole. Accanto a loro, Nanju - l'infermiera del turno di notte - sembra muoversi nell'ombra: chi sta nascondendo, e perché? Per Suyeon e Wanda collaborare significherà molto più che risolvere un caso di omicidio: per la prima vorrà dire abbandonare le proprie certezze e contemplare la presenza di creature soprannaturali. Per la seconda, invece, significherà ripercorrere il proprio passato e rivivere, a distanza, quel primo amore mai dimenticato. Un romanzo dalle tinte fantasy estremamente avvincente, che mescola la componente romance con quella del giallo, dove le protagoniste sono eroine coraggiose che controllano il proprio destino e si aiutano per sopravvivere.


La recensione:

Da quando ho letto la Recherche di Marcel Proust non sono stata più la stessa; ho maturato un certo istinto, una certa predisposizione nel saper riconoscere, da poco, pochissimo, se una storia possiede del potenziale o meno, e se, soprattutto, la sua presenza o venuta, possa fare al caso mio. Le tracce della sofferenza di certe brutte esperienze vissute in passato erano dovunque, sparse sul mio corpo, sulla mia coscienza, fra le stanze polverose del mio spirito, e l’invisibile carica di dolore o insoddisfazione che si era accumulata come una nuvola invisibile che per qualche tempo ha gravato sulla mia testa, poi risucchiata da altre storie o dalla vita stessa. 

Quando decisi di leggere questo romanzo, esordio di una giovane scrittrice giapponese, la solitudine che si respira fra queste pagine appesantiva ogni silenzio, rendeva insonni le notti. Anche io, che ho letto questa storia nel giro di solo due sedute, mentre attendevo il bus, non ho potuto fare a meno di esserne coinvolta, senza contare i gridi, metaforicamente parlando, naturalmente, che trapelavano dalle sue pagine. Come si fa con i petali della margherita fu così che mi interrogai: << Perchè così tanta malinconia? Quale fosse la radice, il terreno fertile o arido per cui questo fiore si era così dissipato? >>. 

Decisi di partire nel momento in cui meno me lo sarei aspettata. Sull’esordio di una settimana intensa e già stancante, dal santuario magico della mia camera, sarebbe passata la nave americana diretta nel cuore di personaggi opachi, quasi privi di anima, troppo angosciati e perfetti quasi si trattasse di un’illusione magistrale. Una bellezza superba, incolore, era quella che circondava come un aura lucente l’anima di questa storia, il cui stile semplice ma quasi profetico coincise col dogma religioso che abbracciò l’autrice. Desiderosi di divenire capi supremi in cui la vita avrebbe potuto vincere la morte, riportare la pace, arrestare qualunque forza maligna e sovversiva.

Avrei preso questa nave. Salirci a bordo, di primo impatto, non fu così semplice come credevo, ma dopo aver scandagliato un po’ tutto ciò che avevo intorno, non riuscì a scendere se non quando giunsi alla fine. Alla meta. Nel frattempo tutto ciò che avevo letto e sentito dire nei riguardi di questa storia mi trasmise il brivido eccitante dell’avventura che non provavo da un sacco di tempo. 

Il mio soggiorno, però non potè essere così entusiasmante. Perchè apparentemente inaccessibile, la storia di Suyeon reclama l’emblema primordiale della solitudine vera  e propria. Quella che intacca l’anima, lo spirito, persino il corpo, concepibile come male o malattia incurabile. Lacrime calde che rigavano un volto fin troppo giovane, il vento che sussurra un altro tempo, un altro luogo, il silenzio rotto dalle risa beffarde di forze esterne che congiurano con poteri terribili, rapporti con l’oscurità che non si possono immaginare. Pareva che fossi stata investita da una grande bufera e che questa nave mi avrebbe portata in un luogo essenzialmente perverso. Maligno, crudele e zeppo di omicidi, quasi un messaggio del mio subconscio che mi indusse a comprenderli esattamente così com’era. La storia di Cheon Seon Ran, però, che aspira ad essere “normale “come tante altre ma intaccata dalla crudeltà, da azioni confuse e impure, un moto nostalgico di ricerca in una proiezione illusoria, una forma di bontà apparentemente umana.

Nel mentre ripongo queste poche righe ripenso a tutte le storie che ho letto con protagonista la solitudine. Ma che cos’è la solitudine, se non uno stato d’animo? Un'entità superiore che si differenzia dall’uomo per il peso insopprimibile che grava sul suo cuore, subire crudeltà, quasi una blasfemia verso la vita stessa? O una << condizione >> a cui bisogna adattarsi. Chi, dotato di una certa tempra, con facilità e sopportazione. Chi, invece, come il peso insopprimibile di una condanna. Ma, qualunque sia la ragione, nel romanzo, derivazione di una nuova forma di esperienze, del bello e del travolgente, in squarci di potere, vita rammendati dal ricordo e dalla tela inestricabile del passato, così vana e disseminata alla passione del cuore. Un tipo di confusione che genera tristezza, la cui vita è molto più inutile di quel che sembra e i sensi di colpa, le sterili passioni del cuore umano non sembrano più importanti.

Quanti, almeno una volta nella vita, cadendo nello sconforto più totale, non si sono rispecchiati nella vita altrui, desiderando prenderne il posto? Capita a tutti! Ed è capitato anche a me. Ma ciò che capitò in passato non lo si può definire una vera e propria esperienza letteraria. Piuttosto la vita. E questa, seppur romanzata, è stata la vita dell’autrice. Un universo completo ma fagocitato in se stesso, scavato e foggiato nella crudeltà di perdere qualcosa o qualcuno in cui il resto del mondo sprofonda nell’oscurità. Essenzialmente descritto in mezzo a gruppi di anime in cui il panico e l’infelicità serpeggia.

Leggere Le guardiane della notte ha scatenato in me qualcosa di indefinito che mi ha impedito di giudicare non più che discretamente una storia, che ho custodito sul palmo delle mie mani solo per qualche attimo. Perché era successo che questa solitudine si rivelerà incurabile, e da grande professatrice del positivismo, a lungo andare tutto questo mi ha resa insoddisfatta. Un caffè amaro sorbito troppo rapidamenre. Ma vittima degli stessi peccati, delle stesse colpe di figure che hanno una loro voce, ma avvolte nell’oscurità più assoluta. Ma questa è una forma di lettura, di conoscenza che mi piace abbracciare ogni qualvolta mi imbatto nella lettura di romanzi tendenzialmente tristi. E questo romanzo lo è. La mia mente fa già voli pindarici. Il mio equilibrio personale era stato sconvolto da una buona dose di malvagità involontaria, la morte come forma irrimediabilmente legata al presente. E incurabile, imprescindibile, ineluttabile come un punto alla fine di un paragrafo. Un conflitto che l’autrice proietta in ciò che ci riguarda e ci sta attorno … e avanti a sragionare. Il bello è che non c’è un perché vero e proprio. Il nulla che deriva dal nulla, finchè non c’è che il nulla. Con la coscienza che non c’è alcuna coscienza. Eppure chi tocca il male in prima persona, guardarlo in viso, sapere che nonostante tutto un giorno la felicità, la vita stessa sarà risucchiata via, squarciare quel velo invisibile che ci avrebbe separati dalla natura umana, può forse spingerci ad essere umani? Intimorendoci, nutrendo nient’altro che il nostro spirito di pensieri nefasti a cui niente e nessuno può trarre beneficio. 

L’insoddisfazione, la ricerca perpetua della felicità provocano un malessere mortale che stona con l’aura di finta incorruzione che serpeggia fra queste pagine. Dio non esiste, il Male non conosce gradi poiché ciò che lo sorregge è la soppressione della vita umana. Un romanzo che mi ha appassionato sin dall’immediato, monito alla malvagità non necessariamente implicata nella morte o nell’uccisione, contornato da esseri umani che erano scintillanti, preziosi quanto invecchiati, morti, confidenti di scovare presto quella forma di salvezza che solo l’eternità potrà donare. Ma misurando i limiti del Bene e del Male, scrutando ogni parte del nostro spirito, impossibilitato a scovare qualunque forma d’innocenza. O felicità.

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

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Titolo: Il dolore è una cosa con le piume

Autore: Max Porter

Casa editrice: Sur

Prezzo: 18,90€

N° di pagine: 124

Trama: Una sofferenza indicibile che travolge e stordisce. Un uomo, studioso di Ted Hughes, è rimasto solo con i due figli, nella loro casa di Londra, dopo la morte della moglie. I tre devono fare i conti con un tempo che si è fermato, con un dolore ingombrante come una presenza. Fino alla visita inaspettata di uno strano personaggio che ha le piume e l'aspetto di un corvo. Un corvo dotato di un feroce senso dell'umorismo, un po' babysitter, un po' terapeuta, ma soprattutto amico. Un corvo che potrebbe aiutarli a venire a patti con la sofferenza e a dare un senso a un evento terribile. Sogno o realtà? Quello che è certo è che i ricordi feriscono, ma a poco a poco leniscono anche. E giorno dopo giorno il tempo ricomincia a scorrere.


La recensione:


Il concetto di voltar pagina e andare avanti funziona per gli stupidi, perchè chiunque abbia un pò di buon senso sa che il dolore è un progetto a lungo termine.


Ultimi giorni, ultime battiture, ultime emozioni. Dopo questa carrellata di romanzi, si sussegue un periodo di pausa che, come un liquido caldo, tenterà di ristabilire la mia flora << vitale >>. Il bello, in tutto questo, risiede nelle possibilità che certi romanzi ti sbattono in faccia, come uno schiaffo ancora pulsante sulla guancia, il desiderio di cibarmi di qualcosa che possa acquietare il mio spirito. Adesso, al presente, desidero soltanto raggiungere alcuni obiettivi. E di ciò che desidero raggiungere o compiere il prossimo anno, comincia a serpeggiare nella cittadella della mia coscienza e lentamente a prendere vita. Se però ora sono qui, a parlarvi dell’ennesimo romanzo letto, credo che ciò dipenda dal fatto che la sua lettura, letta oramai quasi un mese fa, mi ha lasciato qualcosa addosso, strisciante che ha avvelenato la mia esistenza.

Sulla sala d’aspetto della vita, certe letture sconvolgono il nostro universo spirituale sostenendosi miracolosamente su una gamba. Questo romanzo però, nonostante il tema trattato e l’aura melanconica che trasudano le sue pagine, si è mangiato ogni tentativo di proporsi sotto una prospettiva migliore, un po meno tragica di interpretare la vita, la vita che lentamente stava appassendo in una casa, in una famiglia qualunque. Con la sua forza sovrumana, la morte mediante le sembianze di un corvo, aveva carpito l’anima di una giovane donna, una madre e una moglie e lasciato addosso un vuoto incolmabile che nemmeno il tempo potrà estinguere. Il mondo sembrava nascondersi dietro una cortina di sofferenze, oscurità, pretese e Max Porter è consapevole che dietro ad ogni messa in scena, nel palcoscenico artificiale della vita, si celi la vita stessa, la realtà. Quanto essa delle volte possa essere breve, per alcune povere anime, fallendo miseramente dinanzi al progetto del Creatore che non avrebbe voluto di certo che ci consumassimo dinanzi all’ineluttabile. Se ci soffermassimo un attimo o qualche minuto in più per pensare, sarebbe questa la fine che spetta ad ognuno di noi? Se la morte sopraggiungesse repentinamente nella nostra quotidianità, nella nostra vita, sarebbe davvero la fine del mondo? O un semplice << espediente >> per incassare il dolore della perdita di una persona amata, e guardare avanti?

Per me, dotata da sempre di una certa tempra, avendo ben costruito nel tempo una corazza dietro cui ho modellato e plasmato la mia identità, la morte è l’unica cosa che mi spaventa. Contrae le mie povere viscere, turba i miei pensieri, inquina il mio sorriso, consapevole che costituisce la vita. La vita di ognuno di noi, qualunque forma maligna a cui spesso si tenta di sfuggire, costituisce qualcosa di fondamentale a cui spesso si tenta di fuggire. Perché quando sopraggiunge non solo consuma e progredisce in forme di distruzione o annientamento, quanto equivale a risucchiare ogni cosa. 

Max Porter questo l’ha compreso, nel suo modo semplice, toccante e delicato nel narrarci una storia, una favola nera in cui il mondo tentava di nascondersi dietro sofferenze in cui non vivere non implica a cercare o ricreare la bontà, a scovare la bellezza in un universo sommerso dalla sofferenza, quanto crivellato dalla consapevolezza che l’umanità ha davvero bisogno di essere sottratta da un dolore così acuto e predominante, non modificando il sistema o l’approccio quanto rinunciando alle banalità, scrollandosi di dosso ogni forma di cattiveria. Come una bellissima poesia, avanzando a tentoni scovando qualunque sprazzo di felicità  e in cui l’individuo sembra perdere il senso, la lucidità.

Arte e poesia, in un connubio di emozioni che intaccano la corazza persino dei più coriacei, lasciano un vuoto incolmabile nel petto. Dickinsiano, insolito ma bellissimo, riflesso dell’anima del suo autore, avido lettore di romanzi per bambini, di favole dal sapore amaro, la cui vita fu dilaniata dalla morte del padre. La morte aveva condotto al limite, all’estremo, la condizione di un uomo impreparato a gestire un dolore così forte come quello per una persona cara, i cui fantasmi del passato danzano sulla sua coscienza, si intrecciano alla complessità della vita. Ibrido del dolore, della perdita, scritto come cogliendo una nota musicale, un dipinto, che se per un momento sembra disperdersi nel testo, in un secondo sorreggersi in un corpo, in una struttura architettonica robusta, le cui fondamenta sono l’amore e la perdita. Delineando i limiti dell’eredità di una famiglia nonché ossessione malsana che rivela la verità, l’identità, la natura. Lettera d’amore al potere delle parole, un connubio di emozioni in cui la vita e la morte sono protagonisti o spettatori di qualcosa di potente e nostalgico mediante cui possiamo comprendere per intero la vita.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: La tormenta

Autore: Vladimir Sorokin

Casa editrice: Bompiani

Prezzo: 17€

N° di pagine: 200
Trama: Platon Il'ic Garin, medico di provincia, cerca disperatamente di raggiungere il villaggio di Dolgoe, dove una misteriosa epidemia sta decimando la popolazione. Ha con sé il vaccino, ma il suo percorso è ostacolato da una tempesta di neve impenetrabile. Riesce a trovare un passaggio di fortuna, ma il viaggio, che dovrebbe durare solo poche ore, diventa un'esperienza quasi onirica, una spedizione fitta di incontri straordinari, fughe disperate, visioni confuse e avventure amorose in un paesaggio che deve molto alle campagne russe descritte da Cechov. "La tormenta" è un'opera che mescola sensibilità avanguardista e gusto per il grottesco, e nel solco di Lev Tolstoj ci offre un ritratto potente della Russia di oggi.

La recensione:

Trovo magnifico leggere dei testi ibridi, romanzi che sulle prime appaiono di semplice lettura, si pongono domande sulla natura, sul rapporto che intercorre tra questa e l’uomo. L’ho notato altre volte, durante il mio percorso di lettrice: certi romanzi parlano, parlano come se non avessero un freno, non ne volessero sapere niente di noi comuni mortali, a dover porre una certa attenzione. E forse è così: ci ho pensato, ed effettivamente questa tipologia di romanzi, fanno riflettere molto più di quel che si crede.

Nei miei trentadue anni di vita, ho passato molto tempo fra le pagine dei classici. Ho visto cose che mi hanno incuneata, proiettata in luoghi in cui la mia anima è entrata in sintonia, in sincrono col suo autore, e fatto prendere consapevolezza di qualcosa che al presente mi hanno resa la persona che sono oggi. In questi romanzi non vedo solo un certo fascino, quello che mi piace osservare da letture che espugnano nient’altro che la vita stessa, quanto ho visto lo specchio di una realtà riflessa a quella attuale. Una Russia spietata, in cui La tormenta è allusione, metafora o parabola di vita alla possibilità di saper vedere la stessa da una prospettiva diversa: per poter comprendere è necessario accettarne il riflesso, seppur si tenti di fuggire dalla sofferenza. Ma la letteratura è l’atto di vedere oltre, strettamente formato mediante neologismi che non hanno una loro e precisa collocazione, permeato da una visione strettamente personale dell’autore, il cui unico oggetto d’indagine è quello rappresentato dalla possibilità di descrivere la realtà, lasciandosi però andare a una visione statica in cui si resta fermi, intrappolati nello stesso luogo e a non poter progredire, poichè cristallizzati nel tempo. La Russia di Sorokin è molto simile a quella attuale, quella ancora decimata dal regime sovietico, da Putin, incapace di uscire da se stessa, quanto condannata a seguire certi stereotipi celebrati da piccoli uomini le cui ferite sanguinanti sanguinano e pulsano come ferite ancora aperte.

Tutto questo è avvenuto dinanzi ai miei occhi. In una città immaginaria della Russia ho visto un uomo, un dottore, tentare di giungere nella città più vicina per somministrare dei vaccini, solo con la sua volontà, con il suo pensiero, a dar fuoco a chiunque gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote. E intrappolato e condannato ad avanzare, vanamente, in un luogo in cui sembra impossibile giungere. Un'utopia in cui il pensiero sokoviano coincide con l’impossibilità, quel forte senso di inadeguatezza, violenza esplicato da sentimenti che apparentemente modellano una corazza impenetrabile ma che evaporano, svaniscono dinanzi al tempo. Quel tempo crudele che scorre ma sembra essere fermo, statico, intrappolato nell’immobilità più assoluta mediante cui i tentativi umani divengono ostacolo, forme di barriere inviolabili che sopraggiungono quando meno le si aspetta. Al dottor Gorin, forma di coscienza e sapere che cozza con forma aliene di vita che spediscono con la mente chiodi così roventi che ben presto si pianteranno nel legno della sua coscienza, e il sopraggiungere della tormenta, di questo sconvolgimento naturale nonché effetto o disastro naturale in cui rivela ciò che ai nostri occhi era saldamente nascosto, la letteratura diviene cura o beneficio per sottoporci a un esame attento sull’anima che abbia a che fare con i rimedi, quelle rivolte etiche solitarie che diventano vettori di un unico movimento polifonico e collettivo. Sussistendo ad un unico invito, un bisogno di aggregarsi alla solitudine di quei cuori che vivono di letteratura, e da cui è possibile riconoscere quella visione insoddisfacente, inappagante e meramente triste che l’autore riserva alla Russia. Una visione condannata alla vana speranza di confidare in delle forme di salvezza.

Mi è sembrato di essere dinanzi a qualcosa di potente, una lettura nel cui piccolo grembo era celata una storia che è tuttavia ammantata nella neve, ma resa ai bordi poichè incartamento di un meccanismo che non porta da nessuna parte, un meccanismo incantato ma inceppato. Quasi incomprensibile e vacillante, fra presente e passato in cui l’uso di neologismi e frasi a volte incomprensibili affondano le loro radici in qualcosa di intraducibile, inafferrabile. E da ciò deriva questa forma ibrida di racconto e forma lunga il cui titolo è derivazione da una novella celeberrima di Puskin in cui non esiste soluzione di continuità, e non solo temporale ma anche linguistica poiché l’uso della parola resta circoncisa fra l’ipotetico mondo che sarà e quello che è stato con quello che è, ed infine quello tradizionale. Donando una visione esistenziale a dir poco soffocante, affannosa in cui la natura spietata diviene forma catartica per comprendere cosa ha effettivamente valore per l’uomo, causa o effetto di forme di distruzione che scivolano tra l’insoddisfazione, la malinconia, l'impossibilità di sopraggiungere in immagini di salvezza o speranza.

Primo approccio con l’autore, La tormenta si è stanziata nella mia isola, quella personale in cui sono ben nascosti i miei più intimi segreti, che parla con foga, con passione ma non per convincere me, ma come monito a farsi comprendere. La storia raccontata il cui respiro è russo, è quel genere di storia che non credo dimenticherò tanto facilmente, quanto desidero tornarvi quando mi pare e piace, leggendo di questo racconto che irrimediabilmente intrappola in un luogo in cui è ancora destabilizzato dall’impronta sovietica. La stagione invernale del romanzo, e anche quella in cui mi appresto a riporre queste poche righe, declamano la fine di un percorso in cui risuona, echeggia quella mancata speranza, quel fango che è stato versato e rovesciato addosso a una tela bianca, costellato da forme di humor nero che esplicano quelle colpe inflitte ai più deboli, in un connubbio di azioni non estranei al grembo russo, la cui struttura è memorabile, si poggia su aspetti fantastici che sono proiettati sulla vana ricerca di qualcosa che abbia a che fare col bene collettivo.

Satira o antiutopia che contrasta ogni forma umana innocente e bonaria, una Russia spettatrice di qualcosa che disgraziatamente ancora persiste, il cui finale è ambiguo seppur lascia spazio all’immaginazione, che prevede quella ennesima dimostrazione del passato che si fonde nel presente e nel futuro.

Valutazione d’inchiostro: 5

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