lunedì, settembre 26, 2022

Cinque gocce in cinque giorni: romanzi vissuti in poco tempo

Una manciata di giorni dopo l’ennesima lettura dell’ennesimo classico, mi trovai dinanzi l’ennesima sfida di lettura: leggere 5 libri in 5 giorni. Sfogliando e spulciando qualche titolo dalla libreria virtuale del mio Kobo, fu così che in sette pomeriggi estremamente tedioso e in concomitanza alle ferie e al mio compleanno, mi vide cimentarmi nella lettura di sette romanzi letti in sette giorni, che hanno allietato il mio spirito. Desiderosa di mettermi alla prova, incuriosita di cimentarmi in questa nuova sfida maturando la consapevolezza che si trattava dell’ennesima sfida che mi avrebbe indotto a smaltire qualche titolo dalla mia TBR virtuale. A questi sette romanzi mi sono approcciata casualmente credendo che il Destino aveva in serbo per me qualcosa di più grande. Voglio dire, leggendo così tanti classici, non credo che semplici storie di stampo moderno o classico non avrebbero potuto scalfire la mia corazza. Un barlume di verità fondata dopo sette giorni di intensissima lettura, in cui l’angoscia del cuore che ha prevalso ha gravato sulla solitudine del cuore, sull’amarezza, sulla consapevolezza che il passato è così remoto e lontano che valuta e rappresenta la nostra vita. Una vita un po’ scialba ma ricca di costrinzioni, di cui bisognerà fare ammenda sulle azioni che spingono spesso l’uomo a compiere follie. E di follie io ne compio spesso e molte, e questa ennesima sfida ne è una prova, che inevitabilmente mi ha indotta ad accogliere

romanzi di narrativa, apparentemente banali ma di forte impatto, il cui tema centrale è l’amore per i libri, i legami famigliari e la buona letteratura. Come tali romanzi siano giunti nel mio personalissimo cerchio, che mi siano piaciuto o meno non ha importanza, e durante il tempo che impiegai in compagnia di queste letture persi un po' la direzione, nel senso che abbracciai questa ennesima sfida quasi impulsivamente, frequentando questi circoli librosi quasi come se fosse una seconda casa. Del resto, i libri colorano e conformano la mia vita. Sembra assurdo concepire questa idea come una dipendenza, ma leggere talvolta ci aiuta a conoscere se stessi, capire perché siamo al mondo e per quale motivo abbiamo adempiuto a certi ruoli. E se poi avvengono quei magici incontri che non ti aspettavi potessero avvenire, in un periodo particolare della tua vita, niente di tutto questo sarebbe stato possibile se non amassi così intensamente la letteratura. Amore profondo e indissolubile che non svanirà tanto facilmente.

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Titolo: La professione della signora Warren
Autore: George Bernard Shaw
Casa editrice: Edizioni Clandestine
Prezzo: 7, 50 €
N° di pagine: 112
Trama: Questa commedia, scritta nel 1893 e rappresentata per la prima volta a Londra nel 1902, vede il confronto - scontro tra due figure femminili. Da un lato, la signora Warren, nata in un contesto di indigenza, dove la lotta per la sopravvivenza porta a scegliere tra un lavoro onesto, e umiliante e la pratica illecita, ma proficua del meretricio, che le permette di divenire, col tempo, ricchissima proprietaria di diverse 'case'. Dall'altro, la giovane Vivie, che grazie al denaro materno, di cui ignora la provenienza, consegue una laurea in matematica e si fa strenua sostenitrice di un'etica professionale che non conosce compromessi. Quando ella scopre la reale professione della madre, lo scontro diviene inevitabile. Fino a che punto è possibile una riconciliazione tra chi ritiene prioritari l'onestà e il rispetto di se stessi e chi mai potrà rinunciare al lusso e alla totale sottomissione all'imperio di una logica capitalistica? In tutto questo, un coacervo di personaggi minori: dal vizioso baronetto George Crofts, al candido intellettuale Praed, allo sfrontato e ambizioso Frank, che, pur rimanendo di sfondo rispetto alle due figure femminili, permettono all'autore di scandagliare ogni aspetto dell'animo umano.

 La recensione: 

Quelli che hanno successo in questo mondo, sono quelli che si danno da fare e vanno a cercare le circostanze di cui hanno bisogno, e se non le trovano, le creano.

Quando un autore sconosciuto approda nel tuo personalissimo cerchio, in un momento imprecisato della tua vita, aprendo però una breccia nel tuo cuore, non credo sia necessario trovarsi nella posizione di giudicare un autore o il suo figlio di carta. Normalmente assumo gesti di indicibile freddezza, distacco. La reticenza, le perplessità iniziali incrementano il mio non voler stare fra le sue pagine facendomi poi distogliere completamente dal suo sguardo << minaccioso >>. Normalmente queste sensazioni convergono poi in certezze e fatti inespugnabili che mi inducono a scansarmi da qualche disastro imminente ma con l’autore di questa commedia mi accorsi di non avere delle buone scusanti. Più che altro mi sentì triste per non aver usufruito del mio tempo, in sua compagnia, molto prima del previsto. Alla fine, la realtà mi sconfisse, e non riesco a non <<vergognarmi>> per essermi lasciata sedurre dall’ennesimo pregiudizio perché so benissimo che da qualunque lato lo si osservi il Caso detiene una certa supremazia, e noi siamo piccole marionette mosse da un ordito crudele e inspiegabile.
Sporgendomi da una finestra virtuale dall’aria luminosa e vaporosa ho osservato la figura composta di una ragazza, una mia coetanea, Vivy, intenta a leggere e prendere appunti, che fra un’annotazione e un’altra si pose irrimediabili quesiti sulla sua esistenza. Forse era l’avanzo di qualcuno? Ma ogni cosa ha un suo colore, un suo perché… era necessario valutarne i motivi.
L’aria era come satura di forti desideri di rivalsa, forme di rinascita che, sospeso fra passato e presente, contestavano la società circostante per il suo stile, il suo modo di poter sopravvivere e fuggire dal Male della società, salvaguardando ogni principio morale.
Quella di La professione della signora Warren è una sceneggiatura, una commedia romantica che, proiettato sul mondo mediante strumenti di propaganda arguti e sorprendenti, svegliò la coscienza umana. Le classi sociali più elevate erano quelle più corrotte, poiché sfruttavano quelle più deboli e la vita si districava fra raziocini vari, lotte al capitalismo e alla parità di sesso, sotto l’ala protettrice di uno stato anarchico che distrugge e rade al suolo ogni cosa.
Per vivere queste brevi ma intensissime pagine, per ritornare indietro nel tempo, per non dipendere da niente e nessuno, ho dovuto mettere da parte le mie preoccupazioni quotidiane e soddisfare una mia più grande necessità. Scovare una "cura" contro gli effetti collaterali del tempo affinché il mio rapporto con l’autore perpetui nel tempo, in modo che, quando leggerò nuovamente qualcosa di Bernard Shaw, mi sentirò accolta. Di nuovo a casa.
Mi piacerebbe constatare tutto ciò con la raccolta di Perturbamento, ad esempio. Sarei curiosa di scoprire il mio atteggiamento nei suoi riguardi. Se mi abbandonassero adesso, non penso soffrirei dell'abbandono della mia profonda inclinazione nei suoi riguardi, e gioirei come persona e come aspirante autrice perché come Auster, Philip Roth, Irène Nèmirovskij, anche Shaw è un perfetto idioma da seguire. Così, in un certo qual modo, mi potrei accontentare. Rendere felice la mia anima.
Parlo un po' come una ragazzina infatuata del suo primo amore, e molto probabilmente chi mi legge potrebbe trovarlo incomprensibile e insensato. Volendo, avrei potuto smettere e semplificare il tutto. Ma preferisco abbandonarmi a quel po' di incoerenza ubriaca, che trovo sempre tanto interessante e piacevole. Con Shaw ho sperimentato qualcosa che non provavo da qualche tempo, scrivendo una commedia sociale in cui si muovono personaggi freddi e distaccati, brillanti ma privi di colore, in cui l’humor che caratterizza ogni cosa rende ogni messaggio sparso più incisivo e incomprensibile che altri non è che una scissione di storie che alla fine non sono altro che un'unica storia, in cui ognuna di esse rappresenta un diverso stadio della consapevolezza dell'autore su di essa. Accettando, addossando e andando dove le parole lo hanno condotto. In quanto scrivere non è altro che un pretesto, un alterità arbitraria, un modo per cimentarsi con l'ignoto. Un modo per poter sopravvivere e poi trionfare. E, scuotendole, un bagaglio di emozioni altalenanti aveva distorto la mia anima, rievocando con nitidezza quegli strani e forse per molti irrilevanti "dettagli" che a me hanno dato molto più di quel che credevo. Per esempio, che dietro a una prosa asciutta, semplice, si nasconde un abile lettore di anime. Un poeta, un cantautore che mediante esperienze forse realmente vissute si è avvicinato alle cose, sottolineandole nel modo più accurato possibile. Resuscitando in un luogo che è il più abietto di tutti, dove lo sfacelo è ovunque e la disarmonia universale.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Memoria delle mie puttane allegre
Autore: Carlotta Vagnoli
Casa editrice: Marsilio
Prezzo: 12 €
N° di pagine: 160
Trama: Se la Macondo di García Márquez è un paese isolato e circondato dalle foreste dove si succedono generazioni di Buendía e in cui ogni tanto arriva uno straniero, Marina di Castagneto Carducci – dov'è cresciuta Carlotta Vagnoli – ci somiglia abbastanza, se non fosse che a Macondo cercano il mare per tutto il tempo mentre a Castagneto Carducci ce l'hanno davanti. E a cos'altro somiglia un piccolo paese se non a una bolla social dove ognuno pensa di vedere e sapere tutto di tutti, o almeno ci prova? Raccontando la dicotomia "santa/puttana" come il modello fondativo dell'Occidente e prendendo le mosse da Úrsula, Pilar e Remedios la bella di Cent'anni di solitudine, l'autrice svela la furbizia di presupporre i buoni sentimenti o i cattivi costumi delle donne e ci accompagna, dentro e intorno ai romanzi di Gabo, a scoprire la possibilità di vivere avventure anche quando queste sono sbagliate. Per capire cosa c'entrino con tutto questo e l'adolescenza la statua di Nonna Lucia di Carducci, il camper itinerante di una sex worker e la chiesa su ruote che portava la messa a Marina, e cosa significhi che l'Italia, proprio come Macondo, è tutta provincia – ed è proprio qui che nascono le storie –, non resta che leggere il libro.

La recensione:

 

Le donne sono fragili, debole e curiose, la bellezza è una dannazione, e poi curiose, la bellezza è una dannazione.

 

Non è poi così difficile comprendere le difficoltà di quando si domanda a un lettore qual è il suo autore preferito. L’ardua domanda inerpica in risposte, borbottii che non sembrano provenire da qualcosa di sensato e logico, trascinandoci in luoghi da cui tutto ha inizio, senza il quale niente avrebbe senso. Non credo sapremmo chi siamo. Nella mia carriera di lettrice, ho letto un’infinità di romanzi i cui autori sono divenuti nel corso del tempo preferiti. Autori che hanno lasciato e lasciano un segno del loro passaggio, e quando ci incontrammo non sapevo nemmeno che esistessero. Ero una lattante che arrancava carponi nell’erba dell’ignoto, e sulla soglia dei trent’anni ripongo queste poche righe col sorriso stampato sulle labbra. Perché? Perché ogni volta che mi viene posta una domanda del genere riscontro quasi sempre indicibili difficoltà. Quali? Il non saper chi indicare, nella lista di quegli autori che ho più amato. Gabriel Garcia Marquez è uno di questi, e sebbene la lettura dell’ultimo suo romanzo risale oramai a cinque lunghi anni fa, penso come mi sia sempre stato vicino – così come i suoi compagni. Creature in carne e ossa che respirano e non da milioni e milioni di chilometri, anni e anni e che << vedo >> nel momento in cui la mia mente partorisce una particolare immagine. Ma questo è un altro discorso...
Carlotta Vagnoli conobbe Marquez, e se ne innamorò. Fu amore a prima lettura e sebbene prima di questo incontro le loro strade fossero completamente distanti, credo che ogni cosa ha il suo tempo e che se questo doveva accadere è perché fosse scritto nel libro del Destino. Le nostre vite spesso ci guidano secondo schemi che non possiamo controllare, e a seconda delle emozioni che prevalgono scopriamo chi siamo e cosa vogliamo.
I primi mesi dell’anno mi sorpresero corteggiare la pubblicazione di questo piccolo libriccino, la cui lettura disgraziatamente giunse solo adesso, intimidita di riscontrarne l’ennesima delusione. Ma la situazione cambiò, quando decisi di abbracciare l’ennesima sfida di lettura, e avendo già letto qualche recensione nel web la mia curiosità crebbe sempre più.
Fortunatamente non sono stata delusa, e nel giro di un pomeriggio ho divorato queste meno di duecento pagine come racchiusa in una bolla in cui le relazioni umani e sociali diventavano esemplari, facili da decodificare, quasi l’autrice avesse strumentalizzato una favola che ci è stata raccontata mediante la poetica marqueziana. Vivace e coordinata, si parla di una città, Macondo, in cui si muovono figure che accolgono il peso di ogni forma di condanna in cui i sentimenti di famigliarità ed estrema tenerezza rendono ogni cosa estremamente umano. Proiettato in una metropoli gigantesca che travolge ogni stereotipo e attraverso cui si comprendono le dinamiche più pure e primordiali che sono alla base del comportamento umano, riabilitando le concezioni temporali del ruolo e dell’identità.
Niente che non abbia già visto nella prosa marqueziana, ma esperienza letteraria personalissima in cui ho potuto ritagliare un posticino tutto mio di cui la stessa autrice fonde l’amore per la letteratura con la consapevolezza che niente e nessuno può alleviare il senso di solitudine e isolamento che pregna nel nostro cuore, chiusi in forme di dannazione e incapace di trovare un contatto col mondo.
Poiché non leggo molti saggi e, solitamente, mi tengo lontana, per constatare la grandezza e l’originalità di questa opera riposai cautamente durante la lettura de Memoria delle mie puttane allegre venni spinta in una zona lontana ma affascinante che mi costrinse a restare ammaliata. Fa sempre troppo caldo sotto queste tettoie, in questi luoghi così vivaci e calorosi, profumi amarostici che invadono le nostre narici, con una girandola liquida che fiammeggiava sulla mia strada, scaldava quelli degli animi di lettori che preferivano giudicare anziché ascoltare e osservare tutto ciò che accadeva attorno. In una circostanza del genere, con l'attenzione rivolta esclusivamente alle sue pagine, ho accolto così questa splendida opera con tranquillità, serietà. Di cosa parlava nello specifico era abbastanza chiaro! 
Perché questo piccolo libriccino non vuol essere una critica o un componimento letterario a ciò che già è stato detto sulla letteratura spagnola, bensì qual'è il suo significato intrinseco per l'autrice. Come essa sia divenuta massima di vita, beneficio per l'anima di una donna comune appassionata di letteratura e scrittura, e che fece di questo saggio una dichiarazione d'amore a qualcosa che è ed continua ad essere estremamente potente, dilaniante, minacciosa, reale. Tutto certamente deriva da letture frenetiche e appassionate, da un grandissimo studio e ricerca sul campo, dal magnetismo che esso esercitó per l'autrice nel corso degli anni, le incertezze, i pensieri, le lunghe riflessioni, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane. 
Carlotta Vagnoli si pone delle domande su cosa differenzia la figura femminile dalle altre letterature e quale ruolo esse svolgono, e lo evidenzia in questo piccolo libriccino rivelando come tutto ciò sia inconcepibile. La donna ha una sua voce e come tale deve essere ascoltata, considerata. Le stesse figure marqueziane non sono delle vittime ma eroine coraggiose che combattono per rivendicare i loro diritti e, i maschi, a languire in forme di struggimento e desiderio. Guardandosi dentro vede come ci si cerca di farsi strada in mezzo ad anime dannate che vagano lungo la riva dell'assurdo, le implicazioni che ciò comportano o una visione più dettagliata della società circostante. Apostrofi, meccanismi mediante i quali si muove ogni cosa, spingono di nascosto tutti gli astanti verso l'inverosimile, l'inaspettato.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Storia del figlio
Autore: Mariè Helene Lafon
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 17 €
N° di pagine: 160
Trama: Il figlio è André. La madre, Gabrielle. Il padre è sconosciuto. André viene cresciuto da Hélène, la sorella di Gabrielle, e suo marito: coccolatissimo, unico maschio fra le cugine, ogni estate ritrova "la madre", misteriosa signora che ha scelto di vivere a Parigi e torna a trascorrere le vacanze in famiglia. Questo è solo l'inizio della storia, o meglio è una parte, perché le vicende narrate in "Storia del figlio" coprono un arco lungo cent'anni, raccontando il prima e il dopo, indagando sui molti perché, spostando di volta in volta la lente su un personaggio e su un momento diverso: due bambini gemelli di Chanterelle a inizio Novecento, un irrequieto collegiale che conosce i primi turbamenti erotici, una donna sola in un appartamento parigino, un partigiano in cerca di suo padre e molti altri ancora. A mettere insieme tutti i pezzi, in questa saga familiare costruita come un mosaico, è la penna di Marie-Hélène Lafon che, con eleganza, delicatezza e sensibilità, racconta la verità di una famiglia nelle sue pieghe più profonde, quelle che scavano i solchi della vita.

La recensione:

Fu l’ennesima sfida di lettura ad architettare questo nostro incontro. E non solo mi indusse a leggere romanzi, che non credo avrei letto nel giro di una manciata di giorni: io stessa ripongo queste poche righe con una certa sorpresa. Ma non ho mai dubitato delle mie capacità – mi conosco abbastanza per asserirlo -, e per una lettrice curiosa e avida di storie come me, inoltrarsi nel cuore dell’ennesima storia famigliare non poteva non scalfire il mio animo … è successo, ma non come credevo, che avevo immaginato di restare ammaliata, sedotta da una storia che apparentemente non possedeva niente di originale, ma il cui stile e simbolismi sparsi mi avrebbero indotta a decifrarne i messaggi. C’era un certo fascino in tutto questo.
Ma non ho ancora spiegato i motivi per cui il tono di questa ennesima recensione rivela disappunto, dispiacere, mista a una piccola dose di delusione, perché da questo tipo di storie mi aspetto di essere << sconvolta>>. La mia vita monotona ma tranquilla doveva essere travolta da eventi, situazioni che in un certo senso non mi apparterranno mai, ma come intrappolata nel tempo, in un’atmosfera oppressiva, ossessiva, soffocante non ho potuto accontentarmi di guardare semplicemente lontano, facendo ammenda di ciò che avrei potuto ricavare dal passato.
Questo in un certo senso il cuore del romanzo. A mio avviso, un esperimento letterario che non boccio completamente ma non mi ha conquistata poiché la sua autrice, rifacendosi alle opere di Navarina, dà un certo peso alle parole – se ben disposte nella corrente di un fiume avrebbero mosso qualche cosa -, senza però dare anima, respiro ad una storia priva di trama, ambientazione, un intreccio traboccante di simbolismi e doppi sensi che disgraziatamente non mi hanno condotta da nessuna parte. Saggiarne la raffinatezza con cui è stato raccontato? Certamente! Ma reprensibile, col frastuono incessante del silenzio, e fantasmi provenienti chissà dove che conducono esistenze intermittenti, nei recessi delle nostre coscienze. Era mai possibile, mi domandai durante il corso della lettura, pararsi di fronte al mondo, languendo nel grigiore gelido di giornate di inizio inverno, perennemente in lotta contro qualcosa di indefinibile e apparentemente più grande di loro? Sarebbe stato possibile persuadermi ad intrappolare questa storia nella soffitta impolverata della mia anima? In altre parole, fino a che punto un lettore impaziente e curioso avrebbe potuto tollerare i continui sballottamenti da un’epoca a un’altra, lo stile raffinato ma ellittico, nonostante sia stato concepito come una storia distante? La risposta è ovvia, no? Per poco. Ed io che per indole sono parecchio calma e paziente ho riscontrato certi effetti. Con sommo dispiacere, ma tant’è… alla fine è quello che desideravo: leggere per colmare l’ennesima curiosità letteraria.
Appoggiandomi allo schienale della sedia girevole, sorrido con un certo rammarico. Il mio disappunto era piuttosto evidente, ma ne comprendo anche le motivazioni di chi abbia invece amato questa opera. Sembra una specie di situazione atona, una barzelletta che si interrompe prima della battuta conclusiva, una risata isterica, senza un movente vero e proprio. Storia di un figlio aveva emesso il suo vagito, ed io nel momento in cui aprì bocca mi adombrai in volto.
Un romanzo in cui il silenzio, la solitudine, la comprensione, il passato, sono categorici. Inzuppato di eventi che hanno una loro collocazione fissa, sebbene concepiti confusionariamente e che si sono ravvivati nel momento in cui i protagonisti cominceranno a parlare. Il titolo infatti allude a delle fasi della vita su cui si sbilancia Andreas. Da un lato il suo ardente desiderio di essere figlio e il guazzabuglio di motivi che lo spingono ad essere tale. Dall’altro le motivazioni per cui suo padre l’abbia ripudiato tanto tempo fa. Spingendoci a comprendere chi siamo effettivamente e per quale motivo siamo su questa terra. Appare quasi assurdo aver inseguito una felicità vana, illusoria, inconsistente quasi come l'intera storia, e fare il possibile pur di non convincersi che quanto avevamo vissuto era solo il pallido riflesso di ciò che avrebbe potuto essere. Poi i pensieri avevano preso vita, e a quel punto non potevo più tirarmi indietro: Andreas mi aveva scelto.
Quella della Lafon è quel genere di storia che sortisce un chè di ammaliante, quasi ipnotico, ma densa e priva di emozioni e di strutture letterarie che, dopo una settantina di pagine, avevano smorzato il mio entusiasmo. La speranza che fra le sue pagine ci fosse un chè di profondo, tangibile, evaporò al sole nel momento in cui le parole che fuoriuscirono dalla penna dell’autrice cozzarono nel mio petto, soffocarono la mia gola. Assaporando ogni cosa con una certa rilevanza, apprezzando tuttavia il coraggio dell'autrice di aver realizzato l’ennesimo esperimento letterario.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: La chiave
Autore: Junichiro Tanizaki
Casa editrice: Bompiani
Prezzo: 11 €
N° di pagine: 133
Trama: La chiave di un cassetto, lasciata cadere apparentemente per caso da un marito ansioso di esplorare nuovi orizzonti sessuali insieme alla moglie, dalla quale è irresistibilmente attratto, conduce la donna su una strada di lussuria e perdizione da cui non riuscirà più ad allontanarsi. La donna scopre infatti, leggendo il diario del marito, i suoi segreti, la sua inarrestabile passione, la necessità di fomentare i suoi istinti sessuali con un gioco ingegnoso ma rischiosissimo, alimentato dalla gelosia. Si fa invischiare in questa rete, in una crescente tensione fatta di amore-odio che coinvolge a poco a poco anche altre persone, come l'amante e la figlia e condurrà infine il protagonista all'autodistruzione. Il significato di questo piccolo gioiello però non sta tanto nella descrizione del folle crescendo erotico che irretisce i personaggi del romanzo quanto, come dice Geno Pampaloni nella prefazione "nel fitto di un labirinto stupefacente che sembra costruito nel corso di accumulazioni secolari entro la psicologia umana, ad avviluppare passioni, errori, proibite delizie, infingimenti."

La recensione:

Due giorni dopo mi trovai dinanzi a una storia, un classico della letteratura giapponese, che, sfogliandone virtualmente le pagine, scoprì con sorpresa che alcuni fatti narrati erano assolutamente autobiografici. Lì per lì fui come affascinata: leggere di storie in cui gli autori rivelano sempre qualcosa di se è per me motivo di grande interesse. Credo che contengano messaggi, simboli che al lettore è dato il compito di interpretare, un barlume di verità che potrebbe cambiare le cose. Ma poi, tornando alla realtà, comprendi che le sue pagine non celavano niente di così sconvolgente da travolgere la tua anima ma in cui sin da subito è nata una certa intimità, una certa tensione. Non propriamente una storia originale o mai sentita ma un’analisi attenta sul rapporto, i legami, l’emozioni che intercorrono in una coppia di cui la scrittura è un buon surrogato per far trapelare le nostre emozioni. Lo stimolo sessuale, il dialogo indiretto, le confidenze esacerbate dovrebbero provocare felicità in cui la validità dell’inganno avrebbe cozzato con i legami intrinsechi.
Niente che non abbia già visto, dunque. Leggo romanzi da che ho memoria, la mia anima è sempre così insaziabile che trova sfogo in letture che hanno svariati sapori, il cui cammino è spesso sconosciuto e irto di ostacoli. Sempre alla ricerca di risposte che mi aiutino a comprendere il mondo …. O forse i significati dell’universo? -, indizi che sorprendono, stravolgono e che poi conducono dinanzi a innumerevoli segreti. Il ritrovamento di una chiave che genera confusione e scompiglio, ma anche consapevolezza di chi siamo e cosa potremmo fare in relazione agli altri.
La chiave fa uso di elementi letterari che ho riscontrato spesso in letteratura giapponese e di cui il suo autore adopera una prosa onesta, semplice, diretta, in cui è impossibile farsi illusioni, poiché consapevoli sin dal principio che ciò che è stato creato non dovrebbe portare a sentimenti contrastanti in cui prevale la depressione, il rammarico, il disgusto, l’odio, la repulsione, quanto esaminarsi con profondità donando così forza e vigore a personaggi scipiti e inconsistenti. Ritrovarsi leggendosi con gli occhi degli altri, svelare un IO che non era mai stato esaminato, colmare la noia mediante prestazioni sessuali che avrebbero dovuto conferire amore, intimità anzichè concezioni o assetti di vita quotidiana. C’è un fremito in questo ignorare forme di staticità in cui l’eros cozza con la passione, la confidenza, ma che mantiene all’erta, il che di per se fa male, no? Dubitare di tuo marito, dell’uomo con cui vorresti condividere la tua vita sino alla morte.
Ma il Caso spesso ci induce a conoscere nuovi sviluppi: non siamo mai esclusi da qualcosa che ci renda estranei quanto partecipi di una vicenda in cui è possibile rispecchiarsi. Giri le pagine e prosegui pensando che, sfortunatamente, potrebbe accadere a chiunque, in cui si indugia brevemente come in cerca di qualche indizio, facendo qualche passo indietro, riflettendo su ciò che ci circonda, avanzando a tentoni affinchè ci sia data qualche risposta.
Io in tutto ciò non ho potuto fare altro che seguirli, perché il fascino che avevo riservato a queste pagine non evaporò nemmeno nel momento in cui presi consapevolezza che la sua storia celava qualcos’altro, l’eccitazione di cui riporta la quarta di copertina sembrava indicare molto più di quel che è stato narrato, con esclusivamente queste due anime che tengono su un complesso meccanismo di pensieri e riflessioni di cui non sempre mi sono sentita partecipe.
Un'improvvisa vertigine, un calore che percorre il corpo, una confusione dei sensi. Qualcosa nel corpo che si risveglia, d'indistinto e osceno, come una sensazione strana e particolare, dovuta da una specie di appetito ed inquietudine, misto a fascino.
Sequela di esperienze di vita, che segnarono la vita dell’autore, in cui il sesso è dissolubile dal sentimento, dall'amore per l'uomo come essere totale. Abitudinario, usuale, talvolta monotono, estremamente liscio e semplice. Naturale, come l'aria che respiriamo.
Per l’autore, l'uomo ha un innato bisogno di scoprire se stesso. Ed il sesso è una risposta intrinseca di come qualcosa che non prospera nella monotonia, senza sentimento, invenzione o stati d'animo. Piuttosto innaffiato di parole, promesse, scenate, gelosia, di tutte le esperienze terrene che gli facciano pensare che da qualche parte, in un piccolo spazio di mondo, ci sia un paradiso in cui gli essere umani amandosi sono in pace con se stessi e dunque, non più sottoposti alle leggi della società, liberi da tutto. Magari anche dalla morte. Lì, fra queste pagine carnali, tutto era privo di magia ma zeppo di movimenti di cui non è stato poi così difficile sottrarsi al suo fascino. Neppure l'uomo più bigotto e religioso che esiste nell'intera faccia dell'universo.
Vasti sono i richiami sul conflitto tra il desiderio di essere amati come persona ne come cosa in sé, il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, rivisitazioni di epoche irraggiungibili che scivolano nel passato. In un centinaio di pagine, catapultata in una vecchia stanza, offrendoci come spettacolo qualcosa di malinconico, che resta ai bordi, a cui fanno da cornice personaggi che entrano nella lotteria della vita, e che cadono in questa torbida malinconia come gelatina. Inconsapevoli del loro vagabondare e le cui uniche avventure si svolgono fra bianche e candide lenzuola, nel silenzio delle loro riflessioni, fra fiumi e fiumi d’inchiostro.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Il diario geniale della signorina Shibata
Autore: Emi Yagi
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 17, 50 €
N° di pagine: 168
Trama: Se c'è una cosa che Shibata non sopporta è dover servire il caffè, pulire e riordinare. Nessuna di queste cose fa parte delle sue mansioni, ma Shibata è l'unica donna in un ufficio popolato da uomini. Così una mattina, davanti all'ennesima richiesta del suo capo di raccogliere le tazze sporche dalla sala riunioni, annuncia che non può, perché l'odore del caffè le dà fastidio. È incinta, o almeno questo racconta ai suoi colleghi. Inizia così la gravidanza di Shibata: un diario dettagliato in cui, settimana dopo settimana, racconta a se stessa e agli altri le tappe di un percorso che dovrebbero portarla a diventare madre. Con l'aiuto di qualche asciugamano appallottolato sotto i vestiti e una app che le segnala i progressi del feto, Shibata trascorre nove mesi in cui ha finalmente l'occasione di rallentare il ritmo frenetico del lavoro e recuperare tempo per se stessa. Per fare la spesa e cucinare, godersi un bagno rilassante, iscriversi a un corso di aerobica. Ma anche per osservare il mondo attorno a sé e incontrare una società alienata, popolata di individui schivi e incapaci di guardarsi in faccia. E, soprattutto, un mondo di madri sole, alle prese con la gestione dei figli, il rientro al lavoro e le incombenze quotidiane che le lasciano stremate. Un velo di solitudine sembra ricoprire ogni cosa, ma il bambino fantasma che cresce nella sua pancia è in grado di farle vedere il mondo con occhi diversi e farla sentire meno sola. O forse dentro di lei c'è davvero una nuova vita?

La recensione:

Potrei farmi coinvolgere da tante cose. Potrei farmi sedurre da tante distrazioni, in progetti che inizierei ma non so se porterò a termine, per così dire, ma quello del perseguire una strada e non volgere le spalle per niente al mondo, se non quando giungo alla fine, è uno degli assetti del mio carattere che, da che ho memoria, mi ha sempre portata lontano. Dinanzi questo periodo scordo me stessa; sono così presa che non do peso all’idea di poter realizzarmi in tante altre cose…. Una cosa per volta! Perciò quando decisi di partecipare all’ennesima sfida di lettura, quella cioè di leggere 7 libri in 7 giorni, non ebbi alcun dubbio che non avrei potuto dedicarmi a nient’altro. Non c’è storia, non c’è niente da dire …. Sono piuttosto testarda, ambiziosa e se decido di imbarcarmi in qualcosa devo portarla al termine. Come sarebbero andate le cose, questo non so dirlo. Ma cosa fare, quando si sceglie qualcosa a tentoni? Voglio dire, per giudicare un romanzo bisogna prima leggerlo. E fortunatamente le letture scelte mi hanno quasi tutte stampato un sorriso.
In quanto a questa lettura, l’ennesima, la sua autrice è una giovanissima esordiente giapponese il cui intento di raccontarsi credo avvenne per necessità. Non ci sono testimonianze, non ho la presunzione di conferirne la veridicità, sono solo congetture che hanno popolato la cittadella della mia coscienza, durante il corso della sua lettura. Possibile che nella realizzazione di questo testo abbia concepito un figlio, o addirittura lo partorì, ma ciò che posso asserire con certezza è che è un opera statica che non possiede niente di speciale da altri testi che gironzolano nel mercato editoriale straniero, ma immerso in un’atmosfera nostalgica, ovattata, piatta in cui ogni cosa sembra essere priva di vita, è una disamina attenta sulla condizione femminile e in particolare sul significato intrinseco che si attribuisce alla donna come surrogato di creatura priva di volontà, agire, proiettato in un luogo in cui il tempo scorre come la scioglievolezza dei sogni. Io non ho potuto fare a meno di seguirla dappertutto, pedinandola anche nei momenti più impensabili, osservandola attentamente consumarsi dinanzi agli occhi del mondo. Anche quando si sedeva alla scrivania e riportava ogni cosa in queste pagine di diario: chi avrebbe potuto capirla, se non se stessa? Cosa avrebbe equivalso, in un’epoca come questa, concepire un figlio se non rivestire una spessa patina di nullità che ci avrebbe estraniato da tutto e tutti. Ma in genere le donne orientali passeggiano in certi cataclismi interiori contemplando il passato e il presente, carezzando l’arte della possibilità come forme utopistiche e lontane.
Più o meno la letteratura giapponese è una grande fonte di conoscenza. Sino ad oggi ho letto pochissimo che spiegasse cosa voglia dire essere madre e donna in un’epoca come la nostra, mettere su un figlio checché sia stato generato da tuo marito, dal tuo compagno, da un donatore anonimo, né come mai la protagonista abbracci questo assetto filosofico, fosse diventata una necessità, qualcosa di così gretto ma naturale che inducesse a riflessioni spontanee, profonde. Le affettuose premature per un nascituro, il suo concepimento, l’incosciente noncuranza per l’avvenire di una creatura che abbia i tuoi stessi occhi, le tue stesse labbra, il sacrificio di sviscerare qualunque entità maligna che potrebbe sovrastarci a tal punto da distinguerci dal sesso maschile affinchè possano raggiungere la felicità. La felicità, infatti, pur quanto assetto delicato da cui è facilmente auspicabile la dolcezza e il conforto, deriva da anni di riflessioni profonde che sconvolgono da dentro, divorano le nostre viscere con estrema cura, come se predisposte a una lenta agonia.
Mi è sembrato di avvertire una certa malinconia. Non proprio concerne alla tipica tristezza shakesperiana, bensì qualcosa che è stato piuttosto vicino. Si. Una certa drammaticità che nel corso della lettura ha sedimentato nel mio animo.
Com'è stato strano il mio incontro con Emi Yagu e la sua figlia d'inchiostro, Shibata. Spuntata dal nulla un banalissimo giorno di metà agosto, senza un ma né un perché, cornice di una melodia che non ha effettivamente una sua collocazione, seppur il romanzo si premura a tenerci ancorate a quelle note che rivelano una parte fragile e precaria della sua anima.
E così che ho conosciuto Shibata. All'esordio commessa in un negozio, all'epilogo neo mamma. Disseminato nel vento come le ultime foglie di un albero invernale.
Facilmente si resta concentrati; me ne sono accorta mentre proseguivo spedita e coglievo nozioni grazie allo stile semplice, limpido che adopera la sua autrice. Come un canto distinto e significativo, con ansie e preoccupazioni smorzate da una realtà illusoria, in un momento di quiete spirituale, Il diario geniale della signorina Shibata si levò al di sopra dei miei pensieri. Non producendo quel meraviglioso suono che avevo creduto, bensì un mero gocciolio di una pozzanghera umana che lentamente era scesa e scivolata nelle grondaie coriacee di chiunque. Se così dovessi paragonare o descrivere il romanzo, ecco la mia spiegazione.
Un romanzo in cui il silenzio, la solitudine, la compassione, il dramma, sono categorici. Il titolo infatti allude a delle fasi della vita su cui si appresta a riportare Shibata nel suo diario. Da un lato il suo ardente desiderio di essere mamma e il guazzabuglio di motivi che la spingono ad essere tale. Dall’altro le motivazioni per cui è importante far sentire la propria voce in un coro di voci e suoni indistinti come modo d’esprimere la propria individualità, la propria libertà. Spingendoci a comprendere chi siamo effettivamente e per quale motivo siamo su questa terra. 

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

2 commenti:

  1. Anche io volevo fare la sfida di sette libri in sette giorni in questo periodo, mi sa che domani la comincio visto che ho già scelto i libri. Mi dispiace che alcune letture non siano andate proprio benissimo però anche per quelle che ti sono piaciute meno hai acceso la mia curiosità. ❤️ Sempre belli i tuoi post amo sempre di più il tuo blog ❤️

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