venerdì, maggio 24, 2024

Gocce d'inchiostro: Un mese in campagna - James Lloyd Carr

Fui entusiasta ad abbracciare un romanzo che evocasse gli antichi albori del mondo Hardyano, nel momento in cui dovetti confessare le mie colpe e i miei errori per aver giudicato malamente un romanzo, senza averlo prima letto. Non dovrei nemmeno essere qui, seduta alla scrivania, a riporre queste poche righe, ma non si può sempre attribuire la scelta di un romanzo una colpa, ma considerandolo bello nelle sue imperfezioni, almeno sino a quando è possibile avere una mera parvenza di questo elemento, avrei avuto successivamente tutto il tempo necessario per fare ammenda di ciò, riconoscere i miei ennesimi errori e allora, nel momento in cui la mia anima avrebbe sposato quella del romanzo, riconoscersi e legarsi a lei. Alla fine, penso, sono piccole grandi colpe che confesso alla luce morente di un giorno produttivo e soddisfacente che non modificano o raddrizzano chissà cosa, ma sono un buon spunto di riflessione.
La smania di constatare se in queste pagine avrei riconosciuto la voce suadente del mio amato Hardy non mi lasciò nemmeno il tempo per dire o fare alcunché. Non ci pensai due volte ad immergermi nella bellezza di un paesaggio, quanto la scissione fra mondo vecchio e mondo nuovo e il desiderio di non prevalere dinanzi a niente e nessuno, funse da invito ad avviarsi verso il progresso, come forma atipica a sé stante, che dà forti sensi di attesa, scandagliati mediante gli occhi infantili di un uomo che rappresenta il cambiamento. Un uomo che disgraziatamente resterà sino alla fine rinchiuso nel suo bozzolo di solitudine, nonostante vive e avverte forme di cambiamento, consumato dalle sue stesse radici e consapevole del suo se, percependo a fatica entità separate dalle altre ma che possono coesistere separatamente. Trascinato dalla corrente senza freni della devozione per le tradizioni, un certo attaccamento alle radici, al proprio passato che cozzano con forme antisemite che hanno un ché di nostalgico, ma in cui prevalgono la bellezza dei sogni, dei desideri repressi o sopiti dal tempo.
Non pienamente soddisfatta riporto queste poche righe, sebbene leggere di autori che richiamano la prosa hardyana mi faccia sempre storcere il naso, come due mondi opposti, nettamente separati, che sporadicamente accolgo nel mio cantuccio personale per semplice gusto di farlo. Ma con Hardy ho stabilito una certa sintonia, un certo legame, e inconsapevolmente ero immersa nella campagna inglese del Wessex con un manipolo di storie e personaggi, quest’ultimi non legati ne affini fra loro, ma che condividono il peso di sofferenze e drammi vari da renderli unanimi. 


Titolo: Un mese in campagna

Autore: James Lloyd Carr
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 12, 50
N° di pagine: 157
Trama: Tom Birkin, veterano della Grande Guerra e con un matrimonio fallito alle spalle, arriva nello sperduto villaggio dello Yorkshire di Oxgodby con l'incarico di restaurare un dipinto murale del quattordicesimo secolo appena scoperto in un'antica chiesa. Alla ricerca di un po' di pace e di una vita semplice, egli troverà molto di più: l'amore per la giovane moglie del Vicario e l'amicizia dello stravagante Charles Moon, incaricato di ritrovare la tomba perduta dell'antenato di una nobile famiglia del luogo. "Un mese in campagna" ha vinto il Guardian Fiction Prize nel 1980 e ha ispirato il film omonimo interpretato da Colin Firth e Kenneth Branagh. Introduzione di Penelope Fitzgerald.

La recensione:

Di romanzi che espugnano il tema dell’immobilità, nel santuario magico della letteratura, ce ne sono a bizzeffe. Si comincia alla grande con la descrizione di scenari bucolici che hanno una bellezza straordinaria, la cerimonia di un quadro prettamente romantico che conducono poi nel cuore di personaggi che intessono una trama semplice o arzigogolata. Generalmente questo tipo di romanzi sono la linfa vitale della mia intera esistenza. Il loro eco risuona come una dolce litania, e letteralmente leggere diviene quasi una libertà di proporre un tema su cui discutere. In questo caso di discutere c’è ne sarebbe bisogno, ora che ripongo queste poche righe sono consapevole che, Un mese in campagna, a dispetto dell’aura hardyana che trasmettevano le sue pagine non coincisero con l’idea che avevo realizzato prima ancora di leggerlo, cioè pronta ad osservare l’immobilità più assoluta, ma seduta nella mia poltrona preferita, pronta ad aspettare nel miracolo. Di miracolo questa lettura non ne ha subito alcun effetto, perlomeno io che sin alla sua fine ho confidato potesse accadere. Ma gli elementi proposti, un luogo avvolto in un'aura lucente che tuttavia non coincisero con quella del romanzo, mostrarono un intero harem di parole, voci e suoni che in un certo senso mi hanno permesso di godere dei fruscii e dei profumi che la brezza tiepida di un luogo di campagna generalmente trasmette e regala. Tutto sommato << contenta >> ad abbracciare un romanzo che evocasse gli antichi albori del mondo Hardyano, anche se in minima parte, nel momento in cui dovetti confessare le mie colpe e i miei errori per aver giudicato malamente un romanzo, senza aver prima letto. In questo caso, aver attribuito a questo testo un certo entusiasmo, considerandolo bello nelle sue imperfezioni, almeno sino a quando sarebbe stato possibile avere una mera parvenza di questo elemento. Avrei avuto successivamente tutto il tempo necessario per fare ammenda di ciò, riconoscere i miei ennesimi errori e allora, nel momento in cui la mia anima avrebbe sposato quella del romanzo, riconoscersi e legarsi a lei. Alla fine, penso, sono piccole grandi colpe che confesso alla luce morente di un giorno produttivo e soddisfacente che non modificano o raddrizzano chissà cosa, ma sono un buon spunto di riflessione.

Non propriamente soddisfatta riporto queste poche righe, sebbene leggere di autori che richiamano la prosa hardyana mi faccia sempre storcere il naso, come due mondi opposti, nettamente separati, che sporadicamente accolgo nel mio cantuccio personale per semplice gusto di farlo. Ma con Hardy ho stabilito una certa sintonia, un certo legame, e inconsapevolmente ero immersa nella campagna inglese del Wessex con un manipolo di storie e personaggi, quest’ultimi non legati né affini fra loro, ma che condividono il peso di sofferenze e drammi vari da renderli unanimi. La cornice in cui è proiettato il romanzo di Carr sufficientemente ricalca tutto questo, rappresenta il non essere poiché conferisce solo un’illusione, nonostante si percepiscono gioie, sofferenze di cui non è possibile esprimere ma condividerle mediante timori, fantasie.

La natura trasmette una certa solitudine, forme spontanee o volontarie quanto insite nell’esperienza del cambiamento. Per la solitudine di cuori forti e intransigenti, certo. Ma anche come qualcosa di pesante, che rientra in un preciso piano per rimanere soli, isolati da altre forme di vita, che sarebbe assurdo concepire diversamente come un desiderio irresistibile di comprensione.

Valutazione d’inchiostro: 3

2 commenti:

  1. Peccato il voto basso, sembrava interessante; grazie per la recensione

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    1. Voto basso perchè non mi ha convinta completamente XD Grazie a te :)

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