Il surrealismo murakamiano non è qualcosa, un’idea che, un giorno, un uomo di soli settantacinque anni, si mise in testa come un cappello quando meditava. E’ una specie di patina che ricopre la sua esistenza, il suo stile narrativo, che nel tempo ho colto come piccole pietre, provenienti da qualunque parte del mondo. Di surrealismo, di oniricità questo testo ne è pregno, il cui valore artistico non dà molto spazio alla ragione quanto ai sentimenti, travolta così, come l’irruenza di un abbraccio, mediante una storia che parla di Realtà e identità, ma nel romanzo ritratta profondamente a una sequela di parole la cui salvezza, in primis, deriva da esse. Leggere un testo come questo ha equivalso a fare l’esperienza del significato di certe parole, l’impressione che fossero state messe su da un abile cantastorie. Un uomo che, durante il corso della sua carriera, ha fatto del loro significato una certa esperienza, ma in questo romanzo come moto sensoriale mediante cui è stato possibile avvertire mediante la storia di una donna/uomo che godrà della magia di certe parole, quelle che nel vuoto brillano di una magia tutta loro, ma non curando i dolori afflitti dalla sua povera anima.
Titolo. Creatura di sabbia
Autore: Tahar Ben Jelloun
Casa editrice: La nave di Teseo
Prezzo: 16 €
N° di pagine: 208
Trama: La nascita di Mohamed è festeggiata con grande clamore e sfarzo dal padre Hadj Ahmed: finalmente, dopo sette figlie femmine, è arrivato un maschio. Quella che sembrava una maledizione che impediva alla sua casa di avere un erede è finita, ma soprattutto sono state sventate le mire dei fratelli al suo patrimonio. Sarebbe tutto perfetto, se Mohamed fosse veramente un maschio. Invece è nato femmina e solo per volere del padre crescerà e verrà educato come un uomo, abituato fin dall'infanzia a essere il prossimo capofamiglia, colui che regge la casa e la servitù. Mohamed Ahmed, nonostante il prestigio della sua posizione, dovrà fare i conti per tutta la vita con un'identità fittizia, frutto di una metamorfosi coatta, che non tiene conto del carico di violenze, rimozioni, rinunce e sofferenze che ne derivano e che lo porteranno a un'esistenza di solitudine e incomprensione. Un romanzo intenso in cui la forza della scrittura è al servizio di una storia dolorosa e complessa che racconta - attraverso le voci di vari narratori, come in una favola mediorientale - il dramma della vita del protagonista mentre ci mostra anche qualcosa del mondo arabo, delle tradizioni e dei tabù del Marocco e della sua società.
La recensione:
Non si ritorna mai da così lontano come da se stessi. Un diario è talvolta necessario per dire che uno ha cessato di esistere.
La scrittura è l’unico espediente per esprimere il necessario? Nel mentre ripongo queste poche righe, penso a come essa, da qualche tempo a questa parte, sia per me divenuta sacra, perché come Dio, stringo il palmo attorno a una penna e ciò che ne scaturisce fuori ha a che fare con quella magia che il mio amato Murakami definisce battesimo, mette in relazione due mondi contrapposti ma uniti, in cui non c’è alcuna distinzione fra sacro e profano. Quello che gli scrittori fanno, quello che io faccio quando scrivo, perlomeno una certa parvenza, è guardare nella mente degli uomini e osservare il mondo mediante i loro occhi, che non è sempre così semplice. Quando fui invitata a farlo con Tahar Ben Jelloun fu parecchio diverso, in quanto, sulle prime, non potei non chiedermi come ero finita in Marocco, non mi meravigliai poi più di tanto se i dubbi iniziali svanirono nel giro di un attimo. Mi dissi che presto o tardi avrei dovuto fare i << conti >> con un atteggiamento simile, anche se delle volte certe precauzioni sono necessarie, da cui tento di barricarmi con una corazza forte e inestricabile. Eppure volevo vedere con i miei stessi occhi, e lo avrei fatto conoscendo ed esplorando questa storia.
Il fatto che la scrittura può diventare surrogato di inferiorità umana, espediente per comprendere ogni cosa, ritratto di un mondo arabo in cui la parola scritta e orale divennero un unica cosa, mi piacque tantissimo, col passare del tempo divenuta pura ammirazione che mi lasciò qualcosa impresso non solo nella mente ma anche nel cuore. Tutto questo era derivazione di un incastro perfetto di verità come la scrittura spesso rivela, incuneata in una splendida terra, quale il Marocco, in cui la scrittura avrebbe funto da espediente per poter rievocare un rafforzamento rigoglioso di sangue e ossa, una protezione alle gioie represse di un’anima priva d’identità. Ogni cosa riportata come un diario. Non evidenti quelle menomazioni naturali di cui tutti si fanno una ragione, quanto una violenza che giustifica e privilegia qualunque cosa. Un’identità che richiede di essere vista la cui provenienza è remota, lontana intrappolata in un'intimità con la morte, come un tesoro prezioso o un pozzo lungo e profondo in cui mi sono mossa come se il narratore di queste pagine fosse un cantastorie che snocciolano sette sedute vespertine. In corrispondenza alle porte della città, rappresentando una chiave di lettura che sopraffanno ogni forma di racconto diretto, quelle ossessioni sensoriali che turbano profondamente il prot… - ah, perdon! - la protagonista, e la sua dolorosa consapevolezza di non poter trasformarsi in donna.
Un piccolo bocciolo che presto o tardi sarebbe mutata in rosa e che ha percorso un itinerario penoso in cui non si accetta di cadere in un precipizio con la sporgenza di sfigurare il suo essere interiore, mascherandosi, umiliandolo in cui l’identità appare come una vera gioia, ma vuota e assente, un dolore diffuso sull’estensione intera del suo corpo e della sua memoria. Ahmeid è frutto di uno studio sociologico e individuale che racchiude le condizioni alienate e derivate dall’emigrato sradicato, soffocato in un sistema travolto e annullato dai valori di una tradizione millenaria legata ai principi dell’Islam. Una condizione androgina tesa alla ricerca della sua identità, sottoposto ad una doppia dissociazione culturale: quello virtuale dell’apparenza e quello reale della fisiologia. Lacerazione doppia come conseguenza all'impossibilità di vivere la sessualità, artificio di un ruolo sociale e famigliare.
Concordo nella consapevolezza che queste pagine trasmettono, in cui la Realtà che conosciamo è sorda alle orecchie di molti, ma non cieca, che il linguaggio erudito, un tipo di narrazione frammentaria in cui l’avvenimento si imprime nella nostra coscienza come schegge roventi, poggiano su un'alchimia che come una frontiera suddivide il reale dall’irreale, una struttura molto simile ai dipinti naif, intenti a sovrapporre elementi del quotidiano ricomposti da immagini disgiunte dalla serietà di una catena di eventi che si rivelano più oniriche e metaforiche di quel che si crede. Dalla struttura circolare, aperta, eclettica, in cui ci si sente non solo trascinati quanto divorati da frasi in cui le parole sembrano svanire dal testo per dispensare qualunque cosa, qualunque tentativo di non poter abitare in questo splendido harem di lettere. Viaggio metaforico e di metamorfosi sorretto da monologhi frammentari in cui è evidente una certa predilezione per la proliferazione del racconto nel racconto, in cui il protagonista si confonde col narratore, trascina in un luogo la cui parvenza è ammiccante ma ingarbugliata, confusionaria, ma dirette lungo un’unica strada: quella di poter trovare se stessi. La propria natura.
La voce di un cantastorie si era intersecata allo stile di vita di una giovane donna la cui esistenza assume una certa luce, una certa importanza, solo grazie alla voce altisonante di certe storie. A dialoghi che, come uno scambio, si contrappongono fra lei e l’anima di chi le scrive, in una ricerca costante alla complicità attraverso cui le vicende di Ahmed si erano contrapposte alla mia: generando fascino, ammirazione, ammaliamento, pietre in giardini rigogliosi e già verdeggianti, in cui la bellezza delle emozioni sfocia nella sua costruzione onirica, surreale.
Io non sono amore, ma una cittadella inespugnabile, miraggio in decomposizione. Parlo da solo e rischio di sviarvi nel cespuglio delle parole farfugliate del balbuziente…
Valutazione d’inchiostro: 5
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