venerdì, dicembre 20, 2019

Gocce d'inchiostro: Le disavventure di Amos Barton - George Eliot: L'ultimo Wallace - Riccardo Giacchi

Spontaneamente accolgo le richieste di giovani autori esordienti, ma con un certo riserbo; sincera e fiduciosa, non maschero mai l’entusiasmo di leggere opere sconosciute in cui, a seconda dei casi, trapela alla fine il mio giudizio. A voler essere precisa, non tutte le opere esordienti che ho accolto sono state di forte impatto; le mie sensazioni istintive, talvolta, mi hanno indotta a girarci al largo. Caratteristica elusiva pregiata del mio carattere, che attrae in un modo o nell’altro un numero ristretto di autori.
Potrebbe essere strano, bizzarro, presentare quest’oggi un post con ben due recensioni, dopo che su Sogni d’inchiostro promulgo sempre il proposito di non sforare per alcun motivo. L’avvento del nuovo anno, ma, soprattutto, il desiderio di poter parlarvi di quelle letture che presto o tardi concluderò entro la fine dell’anno, fu l’unico espediente a condurmi qui, a riporre nero su bianco, i miei più fervidi pensieri su due opere diversissime fra loro ma che coincidono per la brevità con cui sono state lette; sembra forse esagerato, ma è stato in una manciata di ore che ho divorato l’ultima pubblicazione di una delle mie scrittrici inglesi preferite, e un racconto particolarmente breve ma intenso del mio amico di penna Riccardo Giacchi. Attraversati da piccoli ponti invisibili non si sono mai scontrati ne intercorsi l’uno con l’altro. Ma cosa mi impediva a tacere il fragore assordante dei pensieri, il desiderio irrefrenabile di mettere per iscritto ciò che mi aveva assillato come un moto potente e involuto, mentre gli ultimi giorni di dicembre sentenziano quasi quanto, nel mio personalissimo mondo, la letteratura e la scrittura sono fibre indistricabili del mio essere?
Ed ecco spiccare, fra la nebbia del tempo, il mio entusiastico parere su Le disavventure di Amos Barton e L’ultimo Wallace, anche quando altre letture reclamano la sua attenzione, che come ombre fugaci si allaungarono davanti a me, quasi come due lunghe dita protese, verso distese erbose e bucoliche o cieli di fuoco e fiamme.



Titolo: Le disavventure di Amos Barton
Autore: George Eliot
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 15 €
N° di pagine: 124
Trama: Amos Barton è il nuovo parroco della chiesa di Shepperton, una ciottadina della provincia inglese. Il reverendo è un uomo mite che cerca in ogni modo di far rispettare i dettami della Chiesa anglicana ai membri della sua comunità, ma il suo carisma inesistente, unito a una certa goffagine, fa si che non sia molto amato dai suoi concittadini.  Inoltre la parrocchia di cui si occipa non è sufficiente al mantenimento della sua famiglia, che può tirare avanti solo grazie al caritatevole prodigarsi di qualche parrocchiano e all’instancabile Milly, la moglie del curato, che ha totalmente immolato la sua vita al bene del marito e dei suoi figli. La situazione si complica ulteriormente quando la contessa Caroline Czerlaski si installa a casa Barton, portando con sé mille pretese neppure un centesimo, suscitando disappunto in Milly e una morbosa curiosità in tutta la comunità di Shepperton. L’intera vita di Amos Barton trascorre fra continue cadute e momentanee risalite, fino all’arrivo della notizia peggiore di tutte, che lo farà precipitare nello sconforto, ma vedrà finalmente i parrocchiani stringersi intorno a lui, nonostante incarni << la quintassenza concentrata della mediocrità. >>
La recensione:
Nel pieno delle fluenti attività natalizie e delle roventi fermentazioni di una vallata di pensieri e impegni vari, nella stagione in cui si può assistere ad un momento in cui la magia si deposita impetuosamente sotto il sibilo della nascita del bambin Gesù, è davvero impossibile che anche il mio amore per i romanzi non diventi giorno dopo giorno sempre più ardente. Il mio animo semplice era ben disposto ad accogliere nel suo cantuccio personale opere di autori conosciuti e non, che vivevano relegati nella mensola strapiena di una libreria forse troppo grande persino per me stessa.
Dicembre è oramai quasi agli sgoccioli e la stagione invernale che seguirà accoglierà l’avvento di nuove letture, nuovi inizi, nel quale i miei sforzi per non gareggiare da una parte con lo stato d’animo di alcuni cuori oramai non più sussultanti, adesso stagna e vive su di me, e con l’arrivo del 2020 mi premurò a partire con tale progetto. Innumerevoli romanzi annidano la cima dei miei pensieri, brillando con la loro magica essenza, crescendo dove lì mormorano i miei pensieri. Oppressa da certi paradigmi letterari, prima che si concluda l’anno, ho desiderato completare la lettura di qualche romanzo, e nel crescente ardore della mia passione per la Eliot ho così accolto Le disavventure di Amos Barton con bramosia e irruenza.
Il tempo di tirare le somme è sempre più vicino, di autori che desidero conoscere, quando rincaso dall’ennesimo viaggio in libreria, lambiscono la superficie polverosa della mia strada, seguiti da bianchi nastri di polvere e inchiostro come se lasciassero un impronta di fuoco come segno del loro passaggio. La storia del reverendo Amos Barton ballozzolò selvaggiamente nel mio cerchio personale, rendendomi impaziente, curiosa di conoscere ciò che nascondevano le sue pagine; il fattore del concetto della fede come mezzo di unione, redenzione, tenne a bada quegli istinti che, in un primo momento, mi avevano fatto giudicare questa opera tediosa; uno stile denso, ricco di dialoghi e riflessioni personali non favorivano alcun interesse personale, se non avessi proseguito imperterrita fra le mura di un cottage londinese, dall’inizio alla fine. E seguire di pari passo questo simpatico frate, sballottolato da una famiglia ad un'altra, situazioni o eventi vari che ruotavano attorno a situazioni drammatiche o difficili, si snodarono in una manciata di giorni.
In uno di questi giorni capitò che io e il reverendo ci incontrassimo, nel momento in cui meno me lo sarei aspettata, isolata da qualunque altro proposito dietro l’angolo, che prediligono di gran lunga il mio amore per la letteratura e la scrittura, che osservo e contemplo da tempo come un meraviglioso paesaggio. Quando decisi di cimentarmi nella lettura dell’opera più acerba della produzione eliotiana, dopo aver trascorso meno di ventiquattro ore con Wulf Dorn, che mi osservava da tempo, mi chiesi se fosse o meno il momento adatto per questo tipo di viaggio. Il mio animo assentì silenziosamente, e girai attorno alla siepe di questo piccolo giardino dirigendomi nella profondità dei personaggi. Una volta lì, sentii l’irrefrenabile bisogno di girare attorno a questo giardino, per acquietare la mia curiosità che girovagando mi aveva condotta qui; oramai non mi spaventa più niente e nessuno.
Così come il Reverendo, i protagonisti di questa storia vivono con l’irruenza e la paura dell’inaspettato, il rimbombo di un meccanismo frastagliante che pian pianino assesterà il suo procedimento. Come un triste scenario bucolico, mi ha colta del tutto impreparata al “nuovo” aspetto dell’autrice, in cui questa volta le mie intenzioni sono state avvolte in una fitta nube di perplessità e pensieri, che mi hanno fatto giudicare Le disavventure di Amos Barton come quel romanzo poco attinente ai miei gusti. Eppure, pur quanto semplice e veloce, farsi condizionare nella sua interezza non è stato semplice, ma col cuore colmo di malinconia. Il propagarsi di tanta insoddisfazione, coincidenze miracolose avvenute perché aggrappatosi alla fede, avvenimenti o persone che ritornano e poi svaniscono, è stato tutto così contagioso che gli oggetti inanimati sembravano dotati di una qualche magia.
Ed ecco che anche questa piccola grande opera ha toccato il mio animo, non invadendolo completamente per come credevo, ma esaminando con criterio e vigore un tema piuttosto importante nella produzione dell’autrice: la fede e il modo per come l’abbracciano gli individui.
Una storia imperfetta che è stata raccontata col proposito di redimere tutti quelli che decideranno inerpicarsi lungo le vette di questo cammino, che ha suscitato in me una certa empatia con i personaggi, risvegliando zone assopite nel fondo della mia coscienza.
Valutazione d’inchiostro: 3 +


Ttitolo: L’ultimo Wallace - Entombed
Autore: Riccardo Giacchi
Casa editrice: Genesis Pubblishing
Prezzo ebook: 3, 99 €
Trama: Nonostante la strage che ha decimato la popolazione mondiale, perpetrata da un nemico mostruoso e implacabile, il genere umano non si è arreso, non ancora.  Bisogna spingersi fino al Nord della Scozia per trovare uno dei focolai di resistenza. Un focolaio quanto mai tenace, se a tenerlo vivo ci sono indomiti combattenti: gli Highlander! Arroccati nel castello di Dunnottar, ove gli spiriti dei guerrieri caduti vagano inquieti reclamando sangue, essi decidono di sfidare una sorte ormai certa, pur di permettere l’esodo di migliaia di civili superstiti verso una precaria salvezza.


La recensione:
Per rendere il mio soggiorno più discreto, ho accolto la lettura di questo brevissimo racconto, di cui qualche anno fa ne lessi la sua genesi, con il Natale oramai alle porte. Riccardo Giacchi è una figura alquanto nota nel salotto letterario di Sogni d’inchiostro e per questo motivo vidi in questo spin off fusti recisi di anime combattenti e coraggiosi nel luogo nel quale ero precipitata, sprofondata e che avevo seguito con una certa insistenza; Entombed mi aveva reso unnanime ai suoi protagonisti, da cui ne sono rimasta alquanto affascinata; e adesso, dopo qualche anno, L’ultimo Wallace è stato lo scenario del nostro nuovo incontro. L’arancio del quadro ritratto in copertina era ammantato in una coltre di fuoco, polvere e nebbia i cui colori accesi ha reso questa piccola creatura terreno fertile trasformato in poche battute in lotte sanguinose e agonizzanti. Il fattore mi sorprese in compagnia di un coraggioso e leale combattente, che mi venne incontro con aria maliziosa, e che visse una temibile battaglia considerandola appropriata per la realizzazione dei suoi più grandi desideri: riportare in vita ciò che si era creduto perduto, emergendo da luoghi fangosi con parecchie alte truppe, sebbene non tanto diverse le une dalle altre. Nel tacito accordo di mantenere in vita l’agognata promessa di una riscossione, una “rinascita”, mi comportai come se di Riccardo e del suo magnifico Entombed non leggessi da qualche settimana. Ho ascoltato attentamente la storia che si porta dentro, ritornando in luoghi ove vi ero già stata, temendo per la vita di ognuno di loro.
Per dissipare l’inquietudine di questa finzione, ho accarezzato l’anima de L’ultimo Wallace avvicinandomi sin dal primo momento in cui fui invitata, insieme, fianco a fianco, come se uniti in uno scontro che sembri non aver mai fine, non notando tuttavia alcunchè di diverso – se non qualche nome o luogho impronunciabile – nell’aspetto di come anni fa mi si presentò Entombed.
Rivolta verso una comune strada, per una spettatrice romantica e sognatrice come me, una strada del genere non sarebbe mai stata intrapresa se non mediante sollecito dello stesso autore. Eppure, rispondere affermativamente, ancora una volta, mi ha reso molto più vicina all’anima del romanzo di quel che credevo. Forse la determinazione, il coraggio, una certa difficoltà nel far sentire la propria voce in un mondo che non ha una sua voce, diversa dalla naturale timidezza di altre mie coetanee, è stato l’elemento scatenante che mi ha indotta a sentire Riccardo come se immersa in un sogno. O meglio, un piccolo cortometraggio che non assomiglia proprio alla orgogliosa natura di certi romanzi a cui sono abituata, ma la cui brutalità di questo episodio sembrò funzionale per me.

Valutazione d’inchiostro: 4

6 commenti:

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