La mente, quel centro operativo che come una gigantesca metropoli, detiene gruppi di anime che si affastellano nella lotteria della vita, è quasi sempre un filo sottilissimo che inevitabilmente guida ogni essere umano. Forse scrivere << guida>> è un eufemismo: ciò che svolge la mente è un processo che ha a che fare con i gesti, le parole, alcuni volontari, altri no, in cui ognuno andavano a ritirare un manipolo di esperienze mediante cui tenta di adornarsi per comprendere meglio se stessi o la realtà. Sul finire dell’ottocento, numerosi furono i testi, le letture, le ricerche attuate in relazione al cervello. Da sempre oggetto di studio, da sempre simbolo di rivolta per chi invece preferiva affidarsi ad altro. Basta guardarsi attorno, tutt’ora, purtroppo, in epoca moderna, per comprendere come quando si parla di cervello, di mente, ci sarebbe da fare un discorso un po più ampio. Ognuno ragiona con la propria testa, ognuno possiede una visione particolarissima del mondo e se si accrescono le nostre vedute mediante un certo rendimento culturale, è possibile organizzare qualcosa in cui la conoscenza può spingersi oltre. Forse, quello che ritrae questo romanzo, secondo romanzo che leggo di questa autrice, era una tematica simile. Perlomeno, questo, doveva essere l’intento della sua autrice, che fece della mente, specialmente del tema della frenologia, la linfa vitale di queste pagine, così seducenti, all’inizio, impantanate in una cortina di insoddisfazione e malessere dalla metà fino alla fine. Il risultato? Una famiglia che fu divisa dalle << nobili >> gesta di una pazza, cavia di un’abile dottoressa di frenologia che non solo tenterà di studiare ogni parte del corpo, ma persino lo spirito. Un filo invisibile che aveva acceso il mio interesse, reciso dalla natura di questa malattia, il suo legame intrinseco con la protagonista e i tentativi innumerevoli di poterne uscire salvi o indenni da cui non ne sono ancora convinta di averne subito il fascino.
Titolo: Il filo avvelenato
Autore: Laura Purcell
Casa editrice: Oscar Vault
Prezzo: 20 €
N° di pagine: 420
Trama: Gran Bretagna, prima metà dell'ottocento. Dorothea Truelove è giovane, bella e ricca. Ruth Butterham è giovane, ma povera e consumata da un segreto oscuro e terribile. Un segreto che rischia di condurla alla forca. I loro destini si incrociano alla Oakgate Prison, dove Ruth è rinchiusa in attesa di processo per omicidio e dove Dorothea si dedica ad attività caritatevoli; soprattutto, qui la ragazza trova il luogo ideale per mettere alla prova le neonate teorie della frenologia – secondo cui la forma del cranio di una persona spiega i suoi peggiori crimini – che tanto la appassionano. L'incontro con Ruth fa però sorgere in lei nuovi dubbi, che nessuna scienza è in grado di risolvere: è davvero possibile uccidere una persona usando solo ago e filo? La storia che la prigioniera ha da raccontare – una storia di amarezze e tradimenti, di abiti belli da morire – scuoterà la fede di Dorothea nella razionalità e nel potere della redenzione.
La recensione:
Mentre si dilaga in mano a forze superiori a cui, purtroppo o per fortuna, non ho alcun potere, i romanzi fungono da grande e gigantesca metropolitana pur di acchiappare o estrarre qualcosa dalla nostra inutile vita. Abbellire, adornare con colori o sfumature calde o fredde, affinché lo spettacolo ricavato è a volte più bello di quel che si crede. Così terribilmente realistico, suggestivo, affascinante come un bellissimo tramonto da farmi venire una sorta di struggimento per non esserne l’autrice, la creatrice, quanto una semplice spettatrice, che in un giorno qualunque, è stata destinata a vivere tutto questo, che tutto sommato trova sempre qualcosa per cui trarre ispirazione. Fagocitata a tal punto da continuare a cercare una parte di me, in questo splendido mondo.
Nelle pagine del romanzo di Laura Purcell, secondo approccio con questa autrice che, all’epoca, mi aveva solo annoiata, c’era la solita storia di donne forti che sperano di imbarcarsi in qualcosa di più grande di quel che credono. Una giovane dottoressa, cinica, testarda ma sfortunata ad essere incappata nello studio di una cavia, ostinata e compulsiva, da cui nessuno ebbe la pazienza di saper studiare. comprendere. Non che Dorothea fosse entusiasta, ma quella donna possedeva qualcosa che celava molto più di quel che si crede.
Ma cosa? Cosa celava per davvero questa pazza, assurdamente legata al filo, all’ago e a cui si aggrappa come il sapere di tutta una vita? Esistono delle malattie, delle ossessioni psichiche e fisiche in cui non ci si rende conto dell'inutilità di certi gesti, certi comportamenti, perché sono l’eccezione alla regola e non il miracolo. Sarebbe potuta essere un miracolo, una cavia speciale che Dorothea avrebbe potuto studiare con un certo fascino e ammaliamento. Ma sono certa che il fascino, di fascino, questa storia, ne ha sortito, ma molto poco, perlomeno all’inizio, quando ero ignara di dove volesse andare a parare l’autrice e che, come una cieca, camminavo fra gli sterpi, i dirupi di un palazzo diroccato e vecchio. I miracoli non esistono, sono accessibili solo al Padre Eterno. Eppure, in letteratura, ho sempre creduto a questa magia, specialmente se appartenente a mondi lontanissimi da noi e dalle nostre usanze, che tuttavia non guariscono niente e nessuno, forse redentono povere anime che vagano lungo la riva dell’assurdo ma non tolgono la sete. Non smorzano quelle perplessità nate al principio, quanto accrescono le lamentele, le implorazioni di chi desidera acquistare questa fonte << miracolosa >>. E in fondo, noi lettori, io che leggo, cosa andiamo incontro? Cosa cerchiamo, se non quella fonte meravigliosa che possa dissetarci da ogni desiderio o pretesa? Se i romanzi, ogni romanzo, regalasse tutto quello che è celato nel nostro cuore, nel giro di mezz'ora saremmo contenti e appagati.
In questo senso ho sperato che questo secondo incontro con l’autrice potesse essere miracoloso, data la delusione incassata nel dicembre del 2020, con una storia avvolta in una patina di sterilità, piattezza, insoddisfazione dell’animo che pesarono sul mio spirito come un fardello troppo pesante… e la paura? La paura completamente assente, che si lega al concetto di vita che intercorre nel mezzo di qualcosa che recide del tutto nel farsi scorrazzare a destra e a manca nei corridoi luminosi della coscienza. Come moltitudine umana, entità di carne e ossa, separata dall’oblio più assoluto di catturare il pensiero astratto.
Il filo avvelenato tuttavia fu una lettura a cui mi sono approcciata con una certa curiosità. Curiosità e un forte interesse perché di questo romanzo avevo letto un mucchio di recensioni positive, ed era da troppo tempo che agognavo questo momento… quale miglior periodo, se non questo, per non immergersi in una lettura che si tinge di nero? Forse questo è stato un pensiero fin troppo affrettato per sapere se effettivamente Il filo avvelenato avrebbero funto da seconda possibilità per sapere se l’autrice parlasse o meno al mio cuore, perché ad un certo punto della sua lettura, che è anche il momento più cult dell’intero romanzo, quel momento particolare che avrebbe reciso un certo legame fra me e la sua protagonista, Dorothea, ogni cosa fu deformandola del tutto. Perché la sua paziente Ruth, rifugge da ogni cosa immergendosi totalmente in uno stato di quieta malinconia, sofferenza dell’anima che sebbene spicchi continuamente il perpetuo desiderio di rievocare i ricordi affinché essi possano acquietarsi, il tutto è avvolto in una patina appiccicosa e fastidiosa di mistero, tedio, preoccupazioni che non si discostano più di tanto dalla sua anima semplice e insulsa. In quanto lo stesso romanzo è un cantuccio immerso nella paura, nello sconforto, che genera solo quest’ultima sensazione. Sgradevoli sensazioni di appagamento, tormenti che risiedono nella sua anima sola e incompresa a non poter sfuggire dal purgatorio del suo passato. Intrappolato in un pozzo oscuro da cui è impossibile scorgere la luce, ricerca perpetua fra il labile confine della razione e la coscienza.
La forza di questa fede di approcciarmi, una seconda volta, ai romanzi di questa autrice,sostenne i miei propositi letterari di leggere altro, consapevole che i temi trattati avrebbero potuto non essere concerni ai miei gusti, e ai quali mi sarei rifiutata di credere alla tentazione che Dorothea e Ruth fossero l’ennesime vittima di turno, che tanto mi aveva infastidito sin dalle prime battiture, cercando un approccio diverso, un appiglio su cui dirigere l’attenzione, il dolore della delusione, il dolore di vivere nel mondo di merda che l’autrice dipinge egregiamente ma che non reca alcun senso di paura o spavento, sennonchè irrequietezza dovuta principalmente dall’impossibilità di saper affrontare la vita a testa alta. Fine XIX secolo; un periodo che ha sempre suscitato un certo fascino in me. Una villa fatiscente, una ragazza che si circonda dell’amore della sua famiglia, e che spesso si diletta con l’arte del cucito. Una lettura essenzialmente disincantata, che disgraziatamente mi ha resa estranea alle vicende narrata dall’autrice, ad essere coinvolta, desiderosa piuttosto di farla finita con tutto ciò che la legava alla sua infanzia.
Non riconoscendo nella scrittura forme di vita intrinseca in cui l’esperienza momentanea di essere una creatura appena visibile non galleggiò nemmeno sull’onda del necessario, lontano da quegli autori che ossessivamente rinchiudo nel mio cerchio. Un guazzabuglio di eventi che coincisero col desiderio di scovare una via di salvezza in un mondo che ti stringe nella sua morsa, ombroso, criptico, soffocante, quasi fastidioso, nel silenzio solenne e nel battito compulso del mio cuore, avrebbe potuto avere una sua importanza. Mi avrebbe potuto fagocitare nelle sue viscere, catapultata in un luogo che ha generato un certo interesse ma niente di più. Metafora di paure represse, segreti mal celati che impediscono qualunque via di fuga.
Valutazione d’inchiostro: 3 -
Non conosco, peccato il voto basso; ottima recensione, grazie
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