In qualche modo ho anche io << scritto >>. Si, ho scritto. Lo sto facendo adesso, che ripongo queste poche righe. L’ho fatto in passato, e lo farò anche in futuro. E, in qualunque caso, col cuore colmo di gratitudine, gioia. Un’intraprendente e folle viaggio per partecipare a quel l'ennesimo evento in cui la mia anima avrebbe potuto congiungersi non solo a quella dei suoi personaggi ma anche a quella dell'autore. Non scrivo questo perchè voglio sembrare arrogante, ma perchè trattasi di una certezza: la felicità di confidare in quel momento in cui le nostre anime si congiungono è desiderata con ansia, dolorosa e incontenibile attesa che sarà poi celebrata con ciò che resterà, alla fine, attraverso quel contenitore imperfetto della scrittura. Epifania di un mancato divenire dell’invisibile e del oltretempo. La bellezza e la felicità a cui mi riferisco, e che aprono le danze a questo nuovo anno, sono facilmente riconducibili ad un testo che ho letto dopo aver vissuto lo splendido ma difficilissimo viaggio della Ricerca. Un viaggio che si è protratto per quasi un anno e che le ore, i giorni, le settimane e i mesi che hanno scandagliato la lettura di un testo, un saggio, nella luce e nella musica, hanno funto da effetto dilatante. Poiché questo saggio, come tanti altri letti, fa parte di una splendida essenza, parte straordinaria e principale di un quadro, una magnifica architettura la cui linfa vitale risiede nel dolore, in quell’unica orma del povero Proust che penetrò non solo nel suo cuore ma anche nel cuore di chi lo lesse, lo conobbe e lo amò. Proprio come me.
Titolo: La colomba pugnalata
Autore: Pietro Citati
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 14 €
N° di pagine: 364
Trama: Né "La colomba pugnalata", Pietro Citati accetta una sfida temibile: avvicinarsi al mistero che fu Marcel Proust. Con la sensibilità e gli strumenti del narratore, con il rigore del saggista, egli ci rivela il paradosso di quest'uomo tutto dolcezza e passività che cela dentro di sé un grandioso architetto, un sublime legislatore, un pensatore metafisico capace di costruire una delle ultime cattedrali d'Occidente.
La recensione:
In fondo noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti coloro che ci amano con le preoccupazioni che diamo loro, con la stessa inquieta tenerezza che ispirano loro e che mettiamo di continuo in allarme.
Avrei potuto morire tante volte prima: in Austria con Stefan Zweig, in Francia con Irène Némirovsky o Louis Ferdinand Céline, in America con John Steinbeck, quando però conobbi Marcel Proust; nella mia camera, nel mio salotto letterario a cui spesso attribuisco l’aggettivo di <<magico >>, quando mi ostinai a cimentarmi nella lettura di un testo che, ero consapevole, la sua lettura non sarebbe stata alquanto facile, il vulcano di parole a cui avrei dovuto tenere testa, il flusso inarrestabile di pensieri che non scorrono come sembra quanto incastrate, incatenate in forme atipiche di elaborazione del pensiero, al lamento immenso e doloroso della vita. Se solo avesse voluto, Marcel Proust avrebbe potuto “guarire” da tutto questo, dalla nevrosi, da questo stato malaticcio che annientò le sue fragili membra, ma da essa stessa derivò la sua arte. Poiché tutto era perduto. Da sempre e per sempre e non esistette alcuna cura né rimedio. La vita e la storia erano dotate della stessa stoffa, lo spirito fatto degli stessi elementi della natura in cui il poeta raccoglie il visibile e l’invisibile, forme o echi di tutte le cose.
Il vento della poesia avrebbe potuto essere auspicabile, lenire i suoi malanni, le sue sofferenze, risucchiando dalla solitudine, dal grigiore, dalla desolazione. Ma la memoria, il tempo si confusero, si mescolarono, si accavallavano vorticosamente mentre attorno cambiarono le forme, restringendosi, allargandosi, turbando in muri invisibili.
Il sopraggiungere della morte avrebbe accresciuto il suo desiderio di finire la costruzione di una gigantesca cattedrale, poiché dominato da un forte senso di fallimento che lo divorò da dentro - come Faulkner - e dell’arte stessa, poiché i grandi capolavori non sono altro che relitti di grande intelligenza.
Scrivere avrebbe equivalso ad innalzare un monumento personale che aveva a che fare con l’abitudine, interiorizzando il metodo del mondo esterno, personificando e umanizzando gli oggetti, oggettivando e allegorizzante di sentimenti. Dovunque Proust volgeva lo sguardo, dinanzi a lui si snodava il filo rosso di un mondo compatto e ghiacciato che tuttavia non riusciva a farsi strada, e la scrittura avrebbe racchiuso la felicità, la serenità, la calma che tuttavia è scevra da ogni rapporto con l’arte.
Entrare in questo mondo, non è stato per niente semplice. Ma nel momento in cui l’ho fatto sono stata assorbita completamente al punto di esserne assimilata come una molecola. Poiché serpeggiava in tutta la Ricerca una sorta di male sacro che nasce dall’attesa e dall’assenza. Deriva dall irraggiungibile, dall imprescindibile, conferendo una certa pienezza alla vita. Una visione molto simile a quella di Flaubert, da cui attinse l’idea che ogni cosa era differente e fosse assorbita dall’arte, attraverso cui lo spirito umano avrebbe potuto divenire oggetto di studio. Da Dostoevskij invece unì al tragico il comico, il modo per cui ogni cosa divenne più intollerabile, più insostenibile mediante cui eventi o momenti estremamente dolorosi erano intrappolati in un vasto repertorio comico. Dalla Bibbia, la consapevolezza che i sodomiti di cui saranno protagonisti nel quarto volume, appartengono ad una razza di animali asessuati che covavano in segreto qualcosa che riposa su un’identità di bisogni, gusti e abitudini e pericoli di sapere, sul cui capo aleggia una maledizione: quella di essere dei prodotti del prossimo. Figure o simboli che interpretano l’infelicità, varietà psicologica della società umana, quella umanità condannata e minacciata dal fuoco che mira alla memoria che la salvi, impedisca di unirci a questo mondo.
Per Anna de Noailles, Proust destò un certo fascino poiché dal suo incontro comprese se stessa: come guardarsi allo specchio, prolungando se stessa. Dilatazione, ebbrezza espansione di un Io per cui l’universo diviene piccolo, così piccolo che albergherà persino nel suo cuore. L’esaltazione che fa scovare la verità, la genialità fantastica che dona una certa importanza o vita al mondo creato, riempiendole di figure colorate e animate. Come in Noè e la sua arca, solo dalla sua personalissima arca Proust potrà vedere il mondo. E la malattia diviene protagonista nel momento in cui era avvolta dall’amore: la dolcezza della sospensione del vivere, la tregua di Dio, la Grazia che interrompe le fatiche e i disegni malvagi e che avvicina la realtà al di là della morte.
L’arte era quell’unico appiglio a cui aggrapparsi pur di esprimere il fallimento in cui l’ansia e il desiderio di raggiungere qualcosa coincide con le << intermittenze del cuore>>. Non a caso, Citati lo definì la sua colomba pugnalata, in quanto alla fine di ogni desiderio, ogni sospiro tirato sarebbe stato possibile riconoscere una certa identificazione col mondo assoluto, identità di anime in cui il ricordo, la sua presenza evocativa equivale a un tipo di superiorità che diviene tale solo quando è ricongiunta agli altri.
La memoria, il ricordo costituiscono quel l'architettura su cui si regge la Ricerca, definita come monumento in cui gli spettri che aleggiano attorno a lui divennero luminosi e immortali mediante parole, riconoscendo l'eterna resurrezione, poiché è il Narratore che ne stabilisce l’essenza. Non potendo afferrare quelle del presente, perché l’immaginazione non partecipa nè al passato in quanto l’intelligenza della memoria involontaria inorridisce nè al futuro in cui la volontà costituisce dei frammenti del passato e del presente. Proust, in veste di metafisico e non solo di scrittore, poté scovare queste essenze celate nelle cose poiché solo al presente era possibile identificarsi col passato. E dunque nel ricordo, quel filo invisibile col passato, dà forma e respiro all’arte. L’arte che è costruzione di questa magnifica architettura, l’arte che è rappresentazione di una vetrata da cui trapela una certa luce in cui è possibile avvertire forme atipiche di delirio, di immobilità, angoscia e smarrimento. E a cui ci si aggrappa alla fedeltà del cuore, al rimpianto che il Narratore nutre per il passato, e che << smaltisce >> mediante la bellezza di un sentimento che tuttavia si rivelerà più nocivo di quel che crede: l’amore. L’amore nella sua singolarità e nei suoi segreti.
Lezioso e sentimentale, sin da bambino, Proust credeva che a reggere la morte del mondo degli uomini dipendesse dagli dei. La Ricerca divenne caccia disseminata di delusioni, illusioni, inganni o false promesse, e l’autore incapace di possedere un suo Io quanto rappresentazione di un luogo, un contenitore capace di raccogliere tutte le sensazioni da cui scoverà imperfezioni pastose. Perché come le ombre dell’Odissea, nella Ricerca Proust rievoca i mostri - tutte le persone che conobbe - che precipitarono come fantasmi, senza più voce né memoria, tendendo le braccia, chiedendo di essere rievocati. E il suo personalissimo Ade risiedeva di queste ombre, essenzialmente tristi e senza luce che solo l’eternità potrà conferire, gridando e aleggiando tra loro. Dimenticare avrebbe equivalso a snellire il sacrificio in ogni sua forma, espiare, alienandosi o trapassando e ciò era incarnato in Albertine, passione prigioniera che resterà intatta sino alla sua morte ma assoluto.
Ho letto La colomba pugnalata dopo un anno della mia permanenza a Babet. Ho letto questo saggio, così come tanti altri che ne hanno susseguito la lettura per intero della Ricerca, consapevole di ciò che avevo appena assistito, della magia che il tono, la trasposizione della gamma centrale di questi testi fosse così elevato, quasi tendesse all’infinito. Proust, in questo lasso di tempo, è divenuto per me come una specie di mito, una trama così complicata che a molti potrebbe condurre all’esasperazione, alla parodia di un sogno romantico che tuttavia ha le fattezze di una portentosa bolla di piacere. Quel tipico piacere che sarà caro anche a D’Annunzio, ma che in Proust avviene come un moto volontario a cui si riflette nella bellezza dell’arte e delle parole.
La Recherche e ciò che ne consegue, divengono così le fondamenta di un'immensa cattedrale in cui popolano due mondi opposti: quella dell’eterno e quello del mutabile. Ed entrambi possessori di emanazioni di luce, che solo quella cura che l’arte, la letteratura cui aspirava hanno impresso nel mio cuore un segno indelebile.
In tutti i momenti della nostra vita siamo discendenti di noi stessi e l’atavismo che pesa su di noi è il nostro passato, confermato dalle abitudini.
Valutazione d’inchiostro: 4
Non conosco ma sembra interessante; ottima recensione, grazie
RispondiEliminaA te :P
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