Titolo: Alla ricerca del tempo perduto. La parte di Guermantes
Autore: Marcel Proust
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 13 €
N° di pagine: 672
Trama: Ne "La parte di Guermantes", edito tra il 1920 e il 1921, il Narratore fa il proprio ingresso nel "bel mondo" che, con i suoi riti e i suoi miti, le soirée, i pranzi, i palchi all'Opéra, occupa tanta parte del libro. È la storia di un disinganno, quello della snobistica attrazione per l'aristocrazia; un lungo, rarefatto racconto capace di esaltare la "poesia perduta" della nobiltà e svelarne insieme la sterile frivolezza. Ma anche di approdare, soprattutto grazie al personaggio del barone di Charlus che introduce in maniera vibrante il tema erotico, a una dimensione che trascende la mondanità per giungere a profonde rivelazioni esistenziali.
La recensione:
Se un ricordo o un dispiacere che ci affligge sono capaci di eclissarsi al punto che non li avvertiamo più, lo sono però anche di tornare, e a volte ci vuole un bel pezzo perché ci abbandoniamo.
Si arriva ad un certo punto, nella vita, non solo la mia ma quella di chiunque, di dover attraversare un fiume. La nostra coscienza ci chiede se ne siamo in grado, se possediamo quelle capacità che messe poi in pratica, potrebbero portarci dall’altra parte, dell’altra sponda. La coscienza continua ad spingerci, come un tarlo penetra nella nostra testa e con terribile sorpresa ci spinge a scoprire come non solo siamo capaci di attraversarlo ma persino di navigarci. A bordo di una piccola barchetta, all’inizio incerti del suo lento ondeggiare, poi pronti ad affrontare ogni cosa. Ogni incombenza. Quale? Qualunque se ne sarebbe presentata che sprigiona una certa luce, quelle che così accecanti, avrebbero sovrastato il silenzio. Facendo sorgere a galla la consapevolezza che ognuno di noi è possessore di un certo quoziente intellettivo, il talento che possediamo, le uniche fonti di superiorità. Indubbiamente incuneati o proiettati nel disordine di un mondo in cui ogni cosa sfocia o cozza in nozioni filosofiche opposte.
Il terzo volume della Ricerca aveva come tema, elemento primordiale il Dreyflusismo, che rese ogni suono più casto o smeplice di quel che si crede, imprimendo nel suo modo di essere un impulso, una deviazione, una perdita di se e del proprio prestigio che potè restituire la dignità al Narratore, riconducendolo lungo la retta via, allontanadosi dalle frequentazioni aristocratiche. Ogni cosa era dotata di una sua essenza e rivelava una verità filosofica, una convinzione nonché risposta emotiva a una mancanza. Ogni strada oscurata dai suoi occhi, l’unica che lo consentisse di percorrere e che avrebbe poi donato felicità. Quella stessa autentica felicità che avrebbe evidenziato l’inganno, lo smarrimento, il dolore frutto di errori di valutazione attraverso cui era possibile attingere da un Io incapace di guardare il mondo. In forme archetipe di desiderio represso solidificato sull'arte, da uno slancio emotivo mediante cui si tenta di cercare se stesso, le ragioni dettate dal cuore nell’oggetto che invece lo allontanano dalla sua verità assoluta. Come in una specie di trance il cui contatto col mondo esterno sembra quasi impossibile e da cui deriva l’esigenza di scrivere, intrappolare il pensiero astratto su carta, dipingendo la realtà con coraggio assoluto. Scrivendo ogni cosa, realizzando qualcosa di mentalmente possibile che è incuneato nei piaceri e nell’amore. Nella quotidianità, nel compito che la metafora del sapere esplica nel restituire alla mente tutte le forze per riprendere contatto con il mondo esterno, così inconoscibile, a dispetto di quello intimistico in cui l’arte modella mediante un processo di rinuncia, un abbandono ad ogni bene materiale, al dolore come estasi eterna.
La Ricerca avrebbe così funto da presa di possesso etico dinanzi all'erotismo di alcuni aspetti sociali in cui si enfatizza determinati affetti, criticando lo snobismo di certe classi sociali, fallendo nell’amore ma denunciando la società che ha spalleggiato ciò che non avrebbe dovuto esserci. Ma se il poeta diviene quel che professa l’arte di un amore lontano, remoto, un amore in cui l’immagine dell’amata appare fin troppo violenta, troppo franca, troppo integra, subendo le violenze delle delicatezze poetiche, dinanzi a uno spettacolo come questo, non si può non restarne indifferente. Io stessa non ho potuto non sentirmi parte integrante, e come riuscire ad aprirsi una strada attraverso un aggrovigliata composizione, se fu necessario il crollo della società e una violenta rottura del nostro mondo per vedere le cose, imporsi con forza inconfondibile su una prospettiva diversa dalla realtà quotidiana gravata da così tanta angoscia? La sofferenza riportata genera curiosità perché soffrendo pensiamo, e pensare ci aiuta a capire le origini del dolore, a denigrare l’eternità o quell’entità proiettata a riconciliarsi con l’esistenza. Eppure, solo quando ho letto e compreso tutto questo che il mondo attraverso gli occhi del Narratore mi indusse a vedere ciò che ai miei occhi era invisibile.
Come una lunga commedia dantesca, Proust non scova quel paradiso dantesco quanto un’ipotesi di Paradiso incerto, quasi timoroso di essere frantumato mentre ogni cosa era disintegrata. Perché mentre Dante fu affiancato dal poeta Virgilio, la ragione, qui è impossibile ridurre l’esperienza a discorsi razionali, dato che l’inferno personale proustiano è quello intimo, quello che sembra folle, assurdo ma anche brutto, come è brutto un oggetto che non si comprende pienamente poiché affidato all’intelligenza. Ogni cosa dotata di << coscienza >> ci aiuta a capire, e l’intera Ricerca funge da gigantesca cattedrale in cui alloggeremo.
Era l’arte che viveva agli occhi dell’autore come un'esistenza assoluta. Era l’arte ad avvolgere il mondo dell'esperienza coerente, in cui persiste ed esiste mediante una sua identità l’anima assorbe ogni cosa, il mondo dell’assoluto che non è più fenomeno simile ad altri quanto fenomeno in cui si prende coscienza come spettatori. Verificata dal genio creativo, sottratto dalla sofferenza pagana che crea un’idea di corpo dinnanzi all’anima, lo assimila e si diffonde rendendo tale materia più bella, come un regno rinchiuso nelle frontiera invalicabile ma la cui materia è incomparabile.
Il ricordo sposa le emozioni, i sentimenti che rievocano la natura, quello involontario mostrato al Narratore come all’inizio della Ricerca unica speranza di essere felice, affidato alle sue capacità di smaterializzarsi, modellando ogni sofferenza mediante una penna invisibile. Una penna intinta in un arcobaleno di colori le cui sfumature sono oscure, grigiastre. Alla fine morirà ogni cosa, alla fine ogni cosa si ricongiungerà alla materia che continuerà a persistere nell’oggetto, nei libri, in un dipinto, in una foto, nella reminiscenza sottratta al tempo, rinchiuso in uno stato potenziale.
Il Tempo continua a gravare sulla coscienza e, tutt’intorno, una certa immobilità che si fissa come un punto finale sul nulla, donando l’impressione di possedere una fugolevolezza in cui si avverte lo scorrere del tempo, la vita in attimi che sono snocciolati nel romanzo in un gioco di luci e ombre. In una cornice narrativa, un paesaggio immaginario che si desidera scoprire, esplorare, sembra appartenere al mondo onirico, incuneato in terre e itinerari reali impregnati di particolarità araldiche. Parte di un utopia personale, la dimora dei Guermantes, in cui il Narratore ha potuto rifugiarsi dall’atmosfera di mancata allegria di alcune volontà relegate in forme d'azione che inquinano il sorriso di chiunque. Forme in cui il ricordo aleggia in sospensione ma anche richiama la felicità, parte della saggezza.
Questo terzo volume di un viaggio che non è nemmeno il punto di intercessione tra due mondi che sembrano completamente distinti, ha segnato il passaggio dalla vita fanciullesca a quella adulta, e le innumerevoli metafore presenti simboleggia la nobiltà più pura rendendo di fatto questo testo un esempio di pittura moderna. Intermezzo o forma transitoria anche per la società a cui era rivolta, l’identità di un uomo che grazie ad un viaggio interiore comprenderà se stesso. Poiché fluente, in stretta relazione al paesaggio circostante, sovrano di un luogo che è incastrato o incantato sulle rive conservatrici di un passato apparentemente inviolabile.
I Guermantes erano una razza rimasta isolata in mezzo a tutti gli altri esseri umani, che non si disperse quanto generata dall’accoppiamento di una dea con un uccello, in cui la donna a cui saranno quasi sempre rivolti i pensieri del Narratore, appare come un oggetto da cui è possibile attingere curiosità, interesse e che tuttavia sa come muoversi in una scena. Le sue caratteristiche, la sua goffaggine, l’impudenza attraverso cui entra in relazione col mondo esterno, la rendono ancor più reale di quel che sembra, collocazione in un tempo in cui realtà e fantasia entrano in coesione.
Un mondo onirico, quasi surreale in cui le metafore che sono disseminate sono le fondamenta di una fortezza che fronteggiano le porte di un universo bizzarro, strambo. Un universo che ero intimorita di non poter comprendere, contemplare i suoi splendidi connotati, quanto spinta a cogliere quell’essenza proustiana di salvare il soggetto rendendolo padrone delle sue esperienze: luogo in cui l’IO esiste, ma incapace di riconoscersi nella realtà odierna perchè creazione del soggetto. Condizione indeterminata, indefinita, illimitata allo spirito, come una verità estrapolata dal passato che prende forma nel ricordo, racchiusa o rinchiusa nell’infanzia, e riconoscibile mediante il suo destino, le sue qualità snaturando o deformando ciò che faceva parte del contesto originario. Perché Proust insegue e influisce l’eterno, ciò che si presenta sempre uguale a se stesso, fra spazio e coscienza, in derivati di una forma che è ben concatenata al clima, all’atmosfera.
Nel giro di qualche settimana, la dimora di Guermantes era divenuta fonte di splendore, ammirazione come un dipinto allegorico, un’individualità screziata di diffidenze che popolano di meraviglie uno splendido universo come questo. Leggendo, pensavo, se tale luogo è conservato nel ricordo, in sensazioni remote simili a quelle strumentali in cui la natura serba, la sonorità e lo stile dell'artista, ecco come la distanza fra sogno e realtà diviene sempre più tangibile. Ma se ci si sforza di recuperare qualcosa dal passato, ogni nozione matematica, rallentando o sospendendo il moto perpetuo che trascina, raggira i colori di un medesimo nome o luogo, ecco come Combray diviene quel luogo di perfezione, magnificenza che si colloca fra il labile confine fra sogno e realtà. Artisti che impongono un'inflessione carezzevole, una dolcezza supplichevole che mettono in risalto un insieme di fenomeni acustici.
In questo luogo incantato ogni cosa era propizio al sonno, ad un sonno di piombo in cui si tenta di trovare o riconoscere il proprio Io. E Proust riconosce o modella le proprie idee mediante l’arte. Il mutamento che offre trasformazioni analoghe, in cui ci si sorprende ad essere ripiegati su noi stessi, in una cornice di parole in cui prevale una spiccata intelligenza, la delicatezza o la finezza di sforzi che sembravano essere stati sepolti per sempre, moderno ma anche postmoderna per la prevalenza di certi valori frammentari, sepolti per sempre dalla polvere di una fioritura mondana.
Ed è per questo che le opere veramente belle, se le ascoltiamo con sincerità, sono quelle destinate a deluderci di più giacchè la collezione delle nostre idee non ne ospita nessuna che corrisponda a un’impressione individuale.
Valutazione d’inchiostro: 5
Ottima recensione, grazie
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