mercoledì, marzo 12, 2025

Gocce d'inchiostro: Il trasgressore - D H Lawrence

Fu sul finire del mese di gennaio che sbarcai sul suolo americano che David Lawrence dipinse così bene in un ritratto sociale e culturale come questo, arrivando a possedere persino me, ritrovandomi seduta nel bel mezzo di personaggi che desidererebbero raggiungere la purezza, una chiara essenza, un tempo infusi fra loro, mostrando sempre la stessa faccia, ma vincolo temibile e terribile agli occhi del sesso più forte, così sprezzabili e diffidenti, isolati in luoghi che ripudiano qualunque intento maligno, qualunque rapporto disinteressato. Entità disgiunte, separate, prive di qualunque significato. L’inesauribile battaglia contro la Materia, contro la terra e tutto ciò che essa racchiude portano alla luce la materia ignominia del sottosuolo e la riducono alla volontà in cui il desiderio di realizzare un perfetto meccanismo valica ogni cosa. Questo folle e spietato meccanismo che è una subordinazione alla vita, e in cui, delle volte, mi sono sentita persino intrappolato, soffocata, oppressa da qualcosa che è esistito solo nella mia testa, perché fui così immersa in qualcosa che mi affascinò e infastidì tantissimo, sbandando e perdendo un po' la direzione, mettendo gli occhi in primis su anime algide e opache, non riuscendo però a valicare i confini del possibile, la dolcezza del mio cuore era in netto contrasto con quella dei protagonisti. Proiettati in una realtà disumana, l’inizio di un processo amorfo e ineluttabile in cui l’intento fatalista era reso all’estremo, si abbraccia o si segue una linea di nullità come un male incurabile e invincibile, impossibile da estirpare, ma così accecante persino per i nostri occhi deboli. Così facile da trovarsi lì, ora che alla soglia dell’età adulta, questo mondo mi aveva fagocitato.



Titolo: Il trasgressore

Autore: D H Lawrence

Casa editrice: Elliot

Prezzo: 17, 50 €

N° di pagine: 232

Trama: Siegmund, violinista di mezza età e padre di quattro figli, si innamora di una sua giovane allieva, Helena, e fugge con lei per una vacanza segreta sull'isola di Wight. I due, però, fuori dal contesto metropolitano di Londra non riescono a trovare la pienezza dell'amore, né a isolarsi realmente dalle loro preoccupazioni cittadine. Invece di vivere in modo spontaneo il loro rapporto, si rifanno continuamente ai grandi miti della passione - come quello del "Tristano e Isotta" di Wagner - trasformando la fuga d'amore sull'isola in qualcosa di inautentico. La fallimentare trasgressione delle regole borghesi avrà un effetto incurabile su Siegmund, facendolo precipitare in un crescente stato claustrofobico. Pubblicato nel 1912, il romanzo prese spunto dal diario dell'amante di Lawrence, la scrittrice inglese Helen Corke. In esso Lawrence anticipò i temi su cui l'autore costruirà la sua fortuna: il conflitto tra passione e responsabilità etica, l'atmosfera esaltata e febbrile, il paysage moralisé, le fecondazioni wagneriane, la ricerca di una libertà effimera e ansiosa.

La recensione:


“ So che il cuore della vita è buono perchè lo sento, altrimenti sceglierei di vivere come atto di sfida. Ma la vita è spesso più grande di chiunque altro. Soffriamo e spesso non sappiamo perchè. La vita non lo spiega. “


I romanzi che << fanno per me >>, quelli in cui amo sguazzarci impunemente, scorrazzare come un furetto in una splendida e verdeggiante prateria, sono quelli il cui respiro è tendenzialmente lontano, se non preistorico. Chi mi conosce, bonariamente mi ha sempre definita come lettrice dall’anima vecchia, quella che ama impegnarsi in vicende complicate, cervellotiche e pragmatiche, in cui non basta una semplice e risoluta pacca sulla spalla a condensare o smorzare qualunque tensione, quanto un’indagine a fondo. Quasi sempre questa indagine coincide con quella relativa l’anima, negli ultimi tempi frequentatrice di salotti letterari in cui fanno da sfondo vicende che un tempo non avrei mai immaginato o sognato. Ad inizio anno, mi sono intestardita a voler compiere dei passi che, solo il tempo lo dirà, mi condurranno lontana. Non solo di letteratura, ma, in generale, convergenti lungo una strada in cui la mia anima possa sentirsi ristorata, consapevole ma contenta di ciò che da sempre confida di scovare, e fra questi progetti sicuramente il proposito di affondare o sondare il terreno sui diversi fronti della letteratura.

Non posso ignorare l’eco altisonante dei classici, alle mie orecchie è un suono dolce in cui tutto il resto, il resto che lo circonda, sembra un surrogato, una figura meramente scopiazzata. Eppure, una pila di gigantesca di libri non potrà mai conciliare il piacere di tutta una vita, uno scambio di anime, quell’ immancabile appuntamento fra autore e lettore in cui il bandolo della matassa è che da ciò non si cerca nient’altro che quello scambio di avere ed essere dato. Come uno scambio di lettere o di email che alla fine di un viaggio, di un ritiro si poggiano su esperienze personali o meno che conducono lontano o vicino dall’obiettivo iniziale, ed accrescono il piacere della lettura, della sua compagnia mediante la ricerca di un uomo o una donna - il nostro guru - che ci guidi o conduca nei posti più impensabili.

Basta fare il primo passo nella direzione giusta e il resto viene da sé. O quasi. La letteratura è divenuta parte integrante della mia vita ma, mio Dio, quante cose ho visto e vissuto, quante cose si sono susseguite a quel aprire un semplice libro di favole, osservare le figure colorate ed essere risucchiata in un mondo in cui, all'epoca non ne ero del tutto consapevole, si dibatteva con la mia coscienza. Nel tempo quest’arte è stata perfezionata, ma come dimenticare la magia che invase il mio spirito, plasmò la mia pelle, quando conobbi Harry e la splendida Hogwarts?

Come spiegare quel piacere che nutrì quando conobbi, quando avevo diciannove anni, D H Lawrence, mediante la storia di una giovane coppia e del loro indicibile amore? Forse si trattava di quella magia che ogni tanto attribuisco all’incontro che spesso la vita ci riserva, quando conosciamo o scopriamo un nuovo autore, ma fu qualcosa che mi piacque irrimediabilmente, generò un certo fascino, instillò quel seme della passione per i classici, già gettato con l’amore tragico di Catherine e Heathcliff, di cui io avrei dovuto solo prenderne cura. Nonostante tante cose non mi erano chiare, nonostante tanti passaggi fossero incomprensibili, tante scelte dei personaggi inspiegabili, ma trastullata con superficialità dal tepore di una storia che aveva messo su quelle fondamenta da cui adesso, in età adulta, posso attingere per la realizzazione del mio rendimento culturale. Una specie di cornice infilata nella cornice di uno specchio in cui i personaggi erano una specie di << santoni >> insoddisfatti della vita, anime vacue che vagano lungo la riva dell’assurdo e i cui gesti spesso insensati e sconsiderati sono dettati dal mal di vivere. Da forme di soffocamento che inducono a sciogliere qualunque legame, ma che sottraggono forme di tranquillità. Helena, infatti, è conoscitrice di queste forme di soffocamento, quasi sempre sballottata come una gigantesca onda, a seconda del suo incontrollato flusso, da una parte all’altra, e a cui la vita le ha riservato il compito di custodire, tra le sue piccole mani, un fiore delicato ma bellissimo. Forse abdicare ad un potere assoluto in cui il sesso maschile diviene sturmento e distruzione di fonti di vita, di forme di umanità purchè divenga comprensiva e gestibile, la relega in una realtà in cui sembra impossibile scorgere  alcunchè, moralista ma forte e indomabile come la natura il cui destino è trascinato in conclusioni meschine e malvagie. Ma questo mal del secolo è un male incurabile che cresce nel suo organismo come una malattia incurabile, privandola di quella bellezza di vita, quella mancanza di obiettivi che come una condanna grava sulla sua testa come una spada di Damocle. Helena aveva un ché di rassicurante e ordinato …. ma nascondeva un mondo vasto di tante cose che nella cornice di uno specchio incrinato, lucido ma frantumato in più parti, non sfolgora quanto resta una macchia opaca difficile da togliere.

E non credo ci siano bisogno di tante parole per dire che, Helena, così come Sigmund, furono qui funamboli generati da Lawrence come espediente narrativo all’influenza del mondo che è volontà, in cui i vasti echi schopenhaueriani, il tema della morte come piegamento ai limiti della sregolatezza individuale, l’atto del recidere ogni legame,qualunque assetto positivo essi conferiscono, sono forme di perdita ma rigenerazione atti all’annientamento. E, in questo splendido ma tragico quadro, una musicalità tipica di quella warneriara e manniana, in cui Lawrence delina quel margine invalicabile fra bisessualità, rapporti carnali asmatici di carne e spirito, cristallina in un paesaggio circostante immobile ma disseminato di simboli in cui lo scontro con la natura, la sua forza matrice genera impotenza, incapacità ad non essere travolto dagli affetti. La musicalità di certi affetti è aggiunzione, imperativo al pensiero, alla moralità lawrenciana, così incommensurabile, ricca e produttiva,e ogni azione o gesto specchio di ogni atto cui sia capace l’uomo. Dinanzi al rapporto uomo/natura siamo nient’altro che delle forme nevrotiche che possono trastullarsi dinanzi la superficie deliziosa e calda della vita, ma mossi da idiomi inesplicabili di malinconia e sofferenza che stanno al di sotto, quella che l’autore all’epoca disconosce.

Il mondo è un vasto cosmo di tante cose che tentiamo di interpretare mediante chiavi di lettura in cui a dettare le regole è solo l’autore, e pur quanto i personaggi abbiano forza e respiro non riescono a sciogliersi da quella sinfonia del componimento generato dalla stessa natura quanto a prevalere gli stessi personaggi. Difficili da scorgere chiaramente se non avvolti in una coltre di opacità, una certa tendenza a sovrapporre la volontà creativa della musica stessa. E ciò che se ne ricava è un torrente di emozioni, sentimenti che danno il via libera a forme di energie logoranti

Il gusto più grandioso di una forma rigenerante che non ristora quanto annienta, assioma che folgora come un accecante luce, elemento aggiuntivo di un componimento musicale concepito, così come il suo titolo, dall’esperienza di una sua ex amica e delle sue relazioni che intrattenne con un uomo sposato che finisce poi per suicidarsi.

Questo folle e spietato meccanismo che è una subordinazione alla vita, e in cui, delle volte, mi sono sentita persino intrappolata, soffocata, oppressa da qualcosa che è esistito solo nella mia testa, perché fui così immersa in qualcosa che mi affascinò e infastidì tantissimo, sbandando e perdendo un po' la direzione, mettendo gli occhi in primis su due anime innamorate e sul loro approccio alla vita, non riuscendo però a valicare i confini del possibile, la dolcezza del mio cuore era in netto contrasto con quella tragicità tipica della filosofia Schopenhaueriana. Ma la cui frustrazione che gravava come un fardello troppo pesante sulle loro coscienza inquina fin troppo spesso il sorriso. Fin troppo proiettati in una realtà disumana, l’inizio di un processo amorfo e ineluttabile in cui l’intento fatalista era reso all’estremo, si abbraccia o si segue una linea di nullità come un male incurabile e invincibile, impossibile da estirpare, e niente di tutto questo sarebbe stato possibile, magari figli di carta di un Thomas Hardy o di una Elizabeth Gaskell, la cui luce interiore splendeva fin troppo. Accecava persino i nostri occhi deboli. E ciò, questo spregevole sistema, li avrebbe annientati. Sarebbe stato impossibile contrastarli, così facile da trovarsi lì, ora che 

cresce e si consolida in un paesaggio che sembra si stia avvizzendo, in cui si avverte il desiderio del possesso e la tacita richiesta d’aiuto. Ma ottenendo come unica occasione di riscatto o rinascita, una vita che è sempre stata vuota e appagante.

Valutazione d’inchiostro: 4

1 commenti:

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