venerdì, giugno 05, 2020

Gocce d'inchiostro: Eredità - Vigdis Hjorth

Ho atteso qualche giorno prima di immergermi fra le pagine di Eredità, caso letterario in Norvegia e poi nei paesi scandinavi, senza alcuna fretta o impulsività, sorvegliando l’aria circostante con diffidenza, intercettazioni letterarie di svariato tipo, ancora in atto. Io, oramai, posso dirmi lieta di aver vissuto un esperienza sufficientemente accettabile. Poiché è stato difficile scongelare un pezzo di ghiaccio pur di comprenderla a fondo. Se ripenso a quando avevo iniziato il romanzo confidando in una certa predisposizione d’animo, ora vedo perfettamente ciò in cui l’autrice ha riversato perdite, eterni tormenti dell’anima che hanno albergato nella protagonista.
Furono i traumi di un passato dilaniante, straziante che coincise con posizioni scomode, deboli, di vera e propria impasse, ad avermi indotto a non poter amare completamente queste pagine, perché nel momento in cui ho provato a nutrire moti di compassione o affetto nei riguardi della protagonista, fui tartassata da paure, angosce, momenti di vera e propria inettitudine e paralisi morale al punto tale da costringerla a dover astenersi da ciò che avrebbe potuto rivelarsi un bene …
Che angoscia! Nessun figlio di carta, prima d’ora, mi impedì di apprezzare pienamente una storia che possiede un certo potenziale, ma che è sfuggita da qualunque cosa, da chiunque, persino a un misero sprazzo di felicità. Il suo timore di << vivere >> era fondato, tangibile, persino innocente, ma, per me, inaccettabile. Non tutti reagiamo così!
In queste poche righe si identificano, quindi, quelle che non sono state altro che torture violente, dimostrazioni nel rifugire dai traumi del passato di cui l’età, i sentimenti che si riservano ad una persona amata, i pochi momenti di felicità avrebbero potuto soppiantare perfettamente. Fondare quelle piccole basi affinchè potesse esserci una rinascita, una prevalenza su ogni cosa. Anziché un inettitudine totale, angosciante, destabilizzante, sebbene parecchio introspettivo, che mi rincresce aver dovuto giudicare così malamente.


Titolo: Eredità
Autore: Vigdis Hjorth
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 18,50 €
N° di pagine: 374
Trama: Tutto comincia con un testamento. Al momento di spartire l’eredità fra i quattro figli, una coppia di anziani decide di lasciare le due case al mare alle due figlie minori, mentre Bard e Bergliot, il fratello e la sorella maggiori, vengono tagliati fuori. Se Bard vive questo gesto come un’ultima ingiustizia, Bergljiot aveva già messo una croce sull’idea di una possibile eredità, avendo troncato i rapporti con la famiglia ventitrè anni prima. Cosa spinge una donna a una scelta così crudele? Bard e Berglijot non hanno avuto la stessa infanzia delle loro sorelle. Bard e Bergljot condividono il più doloroso dei segreti. Il confronto attorno alla divisione dell’eredità sarà l’occasione per rompere il silenzio, per raccontare la storia che i famigliari per anni hanno rifiutato di sentire. Per dividere con loro l’eredità – o il fardello – che hanno ricevuto dalla famiglia. Per dire l’indicibile.




La recensione:

Se soltanto ci fossimo fermati a guardare dentro noi stessi e riflettere, diceva indirettamente, avremmo scoperto chi avevamo sbagliato.

Quando leggo un romanzo, una storia di cui ho sentito ampiamente parlare – o persino sconosciuta – mi aspetto quasi sempre di sentire ciò che voglio sentire, e credo a qualunque cosa il suo autore o i suoi personaggi mi dicono. Per forza. Se intrisa di elogi per la sua anima semplice ma appassionata, romantica o sensuale, drammatica ma introspettiva, che affettuosamente definisco come << diari personali >>, quasi sempre mi sorprendo fiera, entusiasta, contenta di aver preso una certa strada, combattuto certe avversità, ma conquistato una meta che è anche un antidoto per il mio essere. Formulando mentalmente proteste, realizzando supposizioni o idee nell’unico modo che più mi aggrava, riporre nero su bianco nel mio bloc notes personale, all’età di ventisette anni possiedo un certo fiuto per le storie memorabili e bellissime con la s maiuscola. Una Giovanna D’Arco del movimento letterario. Le mie predisposizioni, le mie attitudini, sono la punta di lancio del mio essere testarda e coinvolgente a un governo umanitario che poggia su aspetti che talvolta non apprezzo o non concordo. Ma ciò che accade, nella misura in cui giudico un romanzo, lo stile, le ambientazioni, i personaggi, è l’atto di compiere giudizi affrettati dalle prime battiture dei primi capitoli pur di mantenere l’iniqua distribuzione di una ricchezza personale che mi avrebbe difeso da pregiudizi o critiche. Dissociarsi dalla massa, da manipoli di lettori che hanno giudicato positivamente un romanzo, non apprezzandolo completamente anche se con tutte le buone intenzioni, è una cosa che mi procura sempre non poche difficoltà: certe letture sono come spiacevoli sorprese.
Quella di Eredità non si è trattata  di un atto ingiusto o criminoso, ma un atto dettato esclusivamente dal cuore, dai suoi incauti sussulti, nel quale mi sono trovata nella condizione di dover “contrastare” qualcosa che io odio intensamente. L’inettitudine, l’impasse, la debolezza, l’inebetudine, che ha agito su di me col medesimo effetto di una lenta agonia, un indescrivibile tormento, per rovesciare speranze o confidenze che avrebbero potuto instaurarsi anche nelle ultime pagine. E l’autrice – forse biograficamente parlando – non ha temuto, nemmeno per un istante, della vita della sua figlia di carta, perennemente squilibrata, inappagata, traumatizzata, indifesa a tal punto da non voler scovare quella giusta forza che potesse curare le ferite inferte dal passato. Curare cicatrici suppurenti, che non svaniranno mai. Sarebbe bastato aprire la mente, far fluire i sogni come perle provenienti dal proprio corpo, uscendo da se stessa, guardandosi con altri occhi. Eppure, in Eredità non accade nulla di ciò, e sebbene ho potuto condividere una fetta della sua vita, mi ha impedito di entrare in intimità, aiutarla a combattere una lotta contro le ingiustizie sociali, famigliari generate dalle cure ossessive compulsive di genitori oppressi, violenti, dalle peccaminose attitudini. Leggere il romanzo della Hjort è uno schiaffo che brucia ancora sul viso. Affinchè la donna possa mantenere questa facciata di figura indipendente ed indomita deve essere in << armonia >> con se stessa, scovando le giuste necessità per aspirare ad una redenzione.
Tematiche come quelle delle torture e dei drammi famigliari sono spesso armi a doppio taglio che se non manipolate discretamente potrebbero comportare a pagare un prezzo che potrebbe poi rivoltarsi contro. La sua autrice ha descritto quella che è la litania agonizzante, intima ma tragica di una donna di cinquant’anni che, come se stesse confidandosi con un vecchio amico, non conferì un bel messaggio, con la sua triste storia di sopprusi e violenze. Eppure, io non ho potuto fare a meno di restarci, perché ho confidato sino alla fine che restando fra le sue pagine avrei forse potuto difenderla come si deve, e anche per le ragioni che la indussero a non combattere, a non far sentire la propria voce in un mondo incolore e insapore, poiché impossibilitata ad abbandonare le cose più care. Per lo stesso motivo, poco più poco meno, sono rimasta in sua compagnia.
Per placare quelle forme di diniego che esulano queste poche righe, fui tentata di non pubblicarne la recensione. Intrappolarla in un foglio virtuale, avrei tenuto per me quella che si è rivelata un opera dal netto potenziale ma isolata dal mio cerchio. Di romanzi da consigliare o parlare non ce ne sono solo di belli o indimenticabili, ed Eredità è esattamente quel posto in cui non vorrò più farci ritorno. Dopo aver sopportato lamentele, pianti e piagnistei, non ho potuto fare a meno di riporre nero su bianco le mie vivide impressioni al riguardo. Sarei impazzita, se non l’avessi fatto. Invece, nel giro di qualche ora, ho stanziato in questa piccola dimora letteraria, i cui ambienti hanno la luminosità di un giorno d’estate, ed ho fatto tutto il possibile per uscirne soddisfatta. Ma da una vita tanto scialba, cosa aspettarsi se non piattume e lentezza?
Il romanzo di Vigdis Hjorth dà adito a certe supposizioni, entrato di prepotenza nella mia vita nel momento in cui meno me lo aspettavo. Paziente, asettico, neutro e pacato portatore di brutti sogni, ricordi ingialliti dal tempo, trascrizioni o revisioni confidate ad amici invisibili che avrebbero dovuto aggiustare qualcosa. Conferito con una certa importanza, ma conoscitore di realtà indivisibili e invincibili. In pagine di diario che giocherellano fra la vita e la morte, la solitudine e la compassione, pervaso da una strana immobilità, una certa inquietudine tipica di quelle scene colme di dense atmosfere di attesa. Completamente distante dalla mia orbita, esibito silenziosamente in un ambiente che mi ha ispirato solo simpatia.

Non accarezzarsi la propria cicatrice, mettersi tutto alle spalle, uscire da quello stupido ruolo di vittima, non sarebbe stata una vera liberazione?


Valutazione d’inchiostro: 2 e mezzo

6 commenti:

  1. Oh, finalmente una recensione negativa. Ne parlano tutti così bene, ma non mi ispirava.

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  2. Non conosco, ma non credo faccia per me; grazie per la recensione

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  3. Ciao Gresi! Non so come mai ma questo libro non mi ispirava, per quanto tutti ne parlino bene. Il tuo parere non entusiasta mi ha permesso di scorgere il libro sotto una veste diversa rispetto a quanto ho visto fino ad ora. Grazie per la dritta sempre qualificata che ci doni!

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