Il
cielo è l’unico spettatore della nostra vita. Non ho mai dato peso al giudizio altrui,
ho sempre proseguito lungo la mia strada, a testa alta, senza dover dare poi un
certo riscontro. E tutt’ora, alla veneranda età di trent’un anni, proseguo
imperterrita verso questa strada. Ma, capitano momenti in cui, mi trovo a dover
svoltare lungo un certo posto, un certo angolo, un certo viottolo e qualcosa cambia,
qualche idea assimilata in lungo tempo sembra rovesciarsi. E non mi lascio irretire
da tutto questo, quanto ne incasso il colpo riflettendoci su; perché quella
determinata idea ha subito tale fascino su di me? Semplice, perché in passato
mi ha fatto sentire preda di forme di disagio cui ho dovuto fare i conti per
anni. Ma la maturità, le esperienze negative sono un buon slancio per
comprendere il mondo circostante, comprendersi, capire come tutti noi abbiamo
vissuto certi momenti e che in un modo o nell’altro ne siamo usciti diversi. Mutati
ma completamente fuori.
Nessuno può spiegare, quando ci si è sentiti davvero soli. Anche io, che caratterialmente non amo mettermi in mostra, stare un po' più sulle mie, circondarmi di gente ma non ripetutamente affinché invadano i miei spazi, nel mio percorso di crescita ho passato ore oscure che sono poi evaporate nel disagio e nell’impossibilità di relazionarmi col prossimo. La migliore cura, lo confesso, è stato il mondo del lavoro, che mi ha colta così immatura e genuina e mi ha trasformata nella persona che sono oggi. Questa lunga riflessione personale per dire, che quello ritratto in questo saggio è molto più di quel che si crede. Molto più di un testo che parla di solitudine quanto una storia che non mi ha fatto sentire sola né mi ha aiutato a capirmi quanto essere solidale col prossimo, e, soprattutto, con la sua autrice.
Nessuno può spiegare, quando ci si è sentiti davvero soli. Anche io, che caratterialmente non amo mettermi in mostra, stare un po' più sulle mie, circondarmi di gente ma non ripetutamente affinché invadano i miei spazi, nel mio percorso di crescita ho passato ore oscure che sono poi evaporate nel disagio e nell’impossibilità di relazionarmi col prossimo. La migliore cura, lo confesso, è stato il mondo del lavoro, che mi ha colta così immatura e genuina e mi ha trasformata nella persona che sono oggi. Questa lunga riflessione personale per dire, che quello ritratto in questo saggio è molto più di quel che si crede. Molto più di un testo che parla di solitudine quanto una storia che non mi ha fatto sentire sola né mi ha aiutato a capirmi quanto essere solidale col prossimo, e, soprattutto, con la sua autrice.
Titolo: Città sola
Autore: Olivia Laing
Casa editrice: Il Saggiatore
Prezzo: 24 €
N° di pagine: 292
Trama: Bisogna aver toccato l'abisso per saperlo raccontare. Per descrivere il vuoto avvolgente di una ferita che diventa uno stigma o l'angosciante cantilena che rimbomba in una casa di cui si è da sempre l'unico inquilino. Per restituire con la sola forza della voce certi angoli della metropoli, dove la suburra si fa rifugio e l'esclusione sollievo; per dire il loro improvviso, tragico trasformarsi da giardino delle delizie in inferno musicale. Olivia Laing rompe le pareti dell'ordinario e edifica all'interno della New York reale una seconda città, fatta di buio e silenzio: un'onirica capitale della solitudine, cresciuta nelle zone d'ombra lasciate dalle mille luci della Grande Mela e attraversata ogni giorno dalle storie di milioni di abitanti senza voce. Un luogo in cui coabitano le esperienze universali di isolamento e i traumi privati di personaggi come Andy Warhol, Edward Hopper e David Wojnarowicz; in cui ogni narrazione è allo stesso tempo evocazione e confessione. Quella tracciata da Olivia Laing è una visionaria mappa per immagini del labirinto dell'alienazione. Un flusso narrativo che investe le strade di New York e nel quale si mescolano la morte per Aids del cantante Klaus Nomi e l'infanzia dell'autrice, cresciuta da una madre omosessuale costretta a trasferirsi di continuo per sfuggire al pregiudizio; gli esperimenti sociali di Josh Harris che anticiparono Facebook e i silenzi dell'inserviente-artista Henry Darger che dipinse decine di quadri meravigliosi e inquietanti senza mai mostrarli a nessuno; l'inconsistente interconnessione umana dell'era digitale e l'arida gentrificazione di luoghi simbolici come Times Square.
Autore: Olivia Laing
Casa editrice: Il Saggiatore
Prezzo: 24 €
N° di pagine: 292
Trama: Bisogna aver toccato l'abisso per saperlo raccontare. Per descrivere il vuoto avvolgente di una ferita che diventa uno stigma o l'angosciante cantilena che rimbomba in una casa di cui si è da sempre l'unico inquilino. Per restituire con la sola forza della voce certi angoli della metropoli, dove la suburra si fa rifugio e l'esclusione sollievo; per dire il loro improvviso, tragico trasformarsi da giardino delle delizie in inferno musicale. Olivia Laing rompe le pareti dell'ordinario e edifica all'interno della New York reale una seconda città, fatta di buio e silenzio: un'onirica capitale della solitudine, cresciuta nelle zone d'ombra lasciate dalle mille luci della Grande Mela e attraversata ogni giorno dalle storie di milioni di abitanti senza voce. Un luogo in cui coabitano le esperienze universali di isolamento e i traumi privati di personaggi come Andy Warhol, Edward Hopper e David Wojnarowicz; in cui ogni narrazione è allo stesso tempo evocazione e confessione. Quella tracciata da Olivia Laing è una visionaria mappa per immagini del labirinto dell'alienazione. Un flusso narrativo che investe le strade di New York e nel quale si mescolano la morte per Aids del cantante Klaus Nomi e l'infanzia dell'autrice, cresciuta da una madre omosessuale costretta a trasferirsi di continuo per sfuggire al pregiudizio; gli esperimenti sociali di Josh Harris che anticiparono Facebook e i silenzi dell'inserviente-artista Henry Darger che dipinse decine di quadri meravigliosi e inquietanti senza mai mostrarli a nessuno; l'inconsistente interconnessione umana dell'era digitale e l'arida gentrificazione di luoghi simbolici come Times Square.
La recensione:
«La
solitudine è inutile e non funzionale. Tutto è stato messo a valore dal
capitalismo. Se qualcosa è inutile, non serve»
Dall’esperienze personale di
una persona, dal suo vissuto, dagli avvenimenti della sua vita delle volte ci
si ritrova. Io che amo moltissimo leggere opere scritte da altri, perlopiù
specchi in un cui riesco a riflettermi, mi ritrovo alla fine con mutate
condizioni. Invece di fregarmene e continuare a leggere pensando che si tratti
di qualcosa che effettivamente non mi appartiene, i miei pensieri poi
convergono nella consapevolezza che il solo atto di pensarci è esso stesso una risposta.
Come ai tempi in cui cercavo risposte, durante il periodo burrascoso dell’adolescenza,
che nel bel mezzo di ragazzi e ragazze che sapevano cosa volessero o quale
strada intraprendere io ero preda di dubbi e perplessità.
Dalla lettura di un saggio
come questo, dalla splendida esperienza vissuta in queste pagine, ho tirato
avanti la consapevolezza che quella della solitudine è una forma di estraniamento
che resta impresso a lungo nella mente o nelle coscienze di chiunque. La Laing,
scrittrice e giornalista, trova un’alterità ricettiva che la si comprende ma
non lenisce questo forte senso di solitudine ma la estirpa completamente dalle
sue radici, nonostante la società non faccia niente pur di liberarsene. Può condurre
a forme straordinarie di libertà ma inonda e assorbisce il disordine o il
dramma della vita di chiunque come se la parola fungesse in questi casi da
agente di contagio. Forse una delle migliori cure è il sesso, nonché momento di
congiunzione fra due anime in un momento specifico?
Tra le difficoltà riscontrate
nella sua vita, in un momento particolare Olivia Laing, nel silenzio delle sue
riflessioni, accolse la solitudine come forma nefasta, di allontanamento dalla
felicità che gravò sulle sue spalle come un fardello fin troppo pesante, poiché
un brusco mutamento dagli antichi splendori che si era assimilato negli anni si
era aggiunta alla sua naturale avvenenza. Finché siamo in grado di vivere
asserviti agli altri? Non è l’esclusione una delle migliori scappatoie verso la
libertà?
Quello della solitudine è
uno dei temi più diffusi in qualunque contesto lo si studi o lo si analizza e,
se ci pensiamo, forma più casta che possa esserci e che ci può essere o meno,
così sopportabile se è libera scelta e non una costrizione dovuta a ostracismo
o emarginazione sociale. È un’esperienza che può sembrare irraggiungibile perché
induce a domandarsi se siamo vivi, chi siamo in mezzo a carcasse di carne e ossa,
anomalia iconoclasta che consiste nel saper distinguere e conoscere le parole e
le sue conseguenze. Finché se ne ha una certa consapevolezza e si <<
legge >> il mondo con altri occhi, la solitudine può condurre dinanzi a
esperienze personali che potrebbero recludere. Ma grazie al tempo, che ci aiuta
a catalizzare ogni cosa, quasi riconducibile ad un altro se, nonché assenza di
fatti inseriti in una cornice fisica e cronologica in cui la vita, come del
resto quella di chiunque altro, piombandoci addosso quando meno ce lo
aspettiamo. Tralasciando l’idea che l’uomo possa relazionarsi con la società,
respingendo tutto ciò che è estraneo e difficile da gestire e da qui si avverte
questo bisogno.
In questo saggio ho potuto
rispecchiarmi tantissimo, poiché è quel canto, quella condizione individuale
che si trova in una folla e che nessuno può comprendere, un’intimità
corrisposta a quella fragile sensibilità che nell’universo non riceve corrispondenza.
Autobiografia della stessa Laing, in cui ci si rispecchia per questo suo essersi
sentita estraniata ma desiderosa di ritrovarsi. Ibrida, miscela di tante
esperienze in cui è possibile riconoscere innumerevoli resoconti, viaggi e
descrizioni nel profondo di indagini su diversi temi. La vicinanza, il contatto
potrebbe essere utile per dissipare questo intimo isolamento di cui parlo, ma
essa stessa ha apoteosi proprio in mezzo a una folla, persistendo e restituendo
un simulacro di paranoica architettura che intrappolano e allo stesso tempo
sono esposti nel tempo.
Chi non preferirebbe
soggiornare in una stanza della propria casa, in compagnia di un buon libro, o
dinanzi al televisore e stare in pace con se stessi? Perché, seppur questa è
una di quelle forme valide di solitudine che si aggirano nel nostro cerchio
personale senza essere riconosciuta. E New York a questo proposito funse da culla,
da ponte di comunicazione in cui ci si perde e poi ci si ritrova, specchio in cui
potersi riflettere. Perché questa straordinaria metropoli in cui si rischia di
perdersi, attraverso squarci di vita di numerosi artisti che devo dire sono
stati calibrati bene senza cadere nel didascalico e nella ripetitività
sperimentano zone più elevate e più asciutte, tornado nel passato e sboccando
nel presente, dirigendosi poi nel silenzio della nostra anima dove è lì che
deriva ogni cosa.
Quella della solitudine può
apparire come un sentiero lungo e monotono che a causa del rapido susseguirsi di
eventi, del magnetismo di una società, di forme politiche che annichiliscono
ogni intento di positività o purezza, raggiunge la sommità di una collina giù
per il quale il sentiero della vita si snoda tortuoso e irto di ostacoli,
scomparendo e riapparendo a tratti. Leggere Città sola mi ha donato una
felicità imprecisata, mi ha fatta sentire meno sola di quel che pensavo,
donandomi invece una serie di sensazioni straordinarie. Poiché perpetra in
condizioni che favoriscono o esacerbano la solitudine in quelle persone
propense a evadere dalla vita vivendola, persino nelle innumerevoli difficoltà
che si riscontrano nel caos di suoni e parole che costellano il nostro mondo.
Valutazione
d’inchiostro: 4
Interessante; ottima recensione; grazie
RispondiEliminaA te 😊😊
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