Le mie letture contano sempre
periodi alquanto brevi. Intensi ma brevi, e quello di Ramiro Pinilla non è un’eccezione
che tuttavia mi ha piacevolmente colpita, intrigata, appassionata, ospitandomi
in un gruppo di cittadini che ambiscono alla rivoluzione e alla restituzione di
certi dogmi oramai perduti. Cattolici, ebrei, atei, guerrieri, una popolazione
gran parte umile, lavoratrice, le cui famiglie arrivarono a Franco, piccolo
paesino di Gexto, ma resi nell’immediato monocromatici della contea dei Paesi
Bassi. Anche dopo tanto tempo, a qualche anno di distanza dalla liberazione
della città dal regime nazista, perdurano tracce di antisemitismo, in genere
sotto forma di bisbigli, sussurri, sorrisi di circostanza che per qualche
momento ti illudono nel poter dimenticare le montagne di fuoco appiccate alle
loro case, quando meno se lo aspettarono.
L’albero della vergogna sarebbe
stata quella proiezione astrale e trascendentale che aspira alla restaurazione
di un regime frammentario da cui sembra non ci sia alcuna via d’uscita. L’autore,
spagnolo di nascita nonché presente alle vicende che si snodano in questo
romanzo, abbracciando la scrittura ma poi anche altri umili mestieri, nella
nettezza di certi dogmi o paradigmi, ricerca tramite imprese a suo rischio come
promesse dinanzi alla morte, segreti la possibilità di passare il resto della
vita nella terra natia.
Una creatura di questo genere è racchiusa
nelle fragili membra di un uomo adulto ma dall’età indefinita, che susciterà
ammaliamento e fervore, rimpiattato in se stesso come un intrepido animale
prigioniero in uno zoo, che dalla sua postazione preferita osserverà con calma
il sentiero insidioso che la vita gli ha riservato, domandosi chi avrà il
coraggio di percorrerlo ma soprattutto di sopravvivere a tutto ciò che sarà
concesso.
Titolo: L’albero della vergogna
Autore: Ramiro Pirilla
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 18 €
N° di pagine: 279
N° di pagine: 279
Trama: All’indomani della
vittoria di Franco, il piccolo paesino di Gexto, nei Paesi Baschi, è un luogo
paralizzato dalla paura: rappresaglie ed esecuzioni da parte di << quelli
della Falange >>, sono all’ordine del giorno, e poco a poco gli uomini
stanno scomparendo: alcuni sono caduti in guerra, altri vengono portati via in
passeggiate dalle quali non si fa più ritorno, oppure fucilati di fronte alle
loro famiglie, fra le grida delle loro donne. Ma chi c’è dall’altra parte? Altri
uomini. Questa è la storia di Rogelio Ceròn, uno di loro, un falangista
ventenne che fa quello che fa senza sapere bene perché. Un giorno uccide un
maestro repubblicano sotto lo sguardo del figlio, un bambino di dieci anni; per
lui niente sarà mai più lo stesso, quegli occhi gli rimarranno impressi nella
memoria per sempre: occhi fissi, freddi, che non piangono, ma che promettono
vendetta. Trent’anni dopo, gli abitanti del paesino si chiederanno quale
mistero si celi dietro la figura solitaria del << pover’uomo della
baracca >>, che da molto tempo conduce una vita da eremita prendendosi
cura di un albero di fico, sopportando in silenzio l’assedio di un vicino
convinto che sotto la pianta ci sia un tesoro. Cosa si nasconde, realmente,
sotto quell’albero? Qual è il suo significato?
La recensione:
Ramino Pirilla fu uno dei
migliori narratori spagnoli del Novecento. Dalla carnagione scura, origini est europee
depositate su orgini più antiche e più profonde nei deserti meridionali,
l’astro nascente di abbracciare la letteratura come rimedio ai malesseri della
vita, la scialuppa di salvataggio dinanzi ai melodrammi spagnoli di inizio
novecento e delle pellicole in bianco e nero, sfociò all’improvviso, e,
nell’immediato, divampò come un fuoco ribelle, ardente. Stile semplice, prosa
poetica e delicata, gesti poco eclatanti ma significativi, mai frettolosi o
snervati, calmo e mansueto, per molti versi il pregrussore del poeta e
scrittore americano William Faulkner. Non tagliente o di forte impatto, ma
brillante come brillante sono i temi che abbraccia in questo romanzo, ma più
riflessivo e posato sicuramente per via di quello che ha passato assieme alla
sua famiglia, intimo e tormentato dai tormenti della vita, sufficientemente
audace nel trascrivere una storia che richiama il passato. L’albero della vergogna non era destinato a rivolgersi a me, né al
momento che di letture più urgenti ne ho a bizzeffe, ma ciò che racchiudono le
sue pagine mi conquistarono non perché denunciano una certa esperienza
sull’arte e sulla seduzione con la quale l’uomo si rivolge con una certa
attenzione, bensì perché anela ad ottenere una certa intimità. Ed infatti, di
quest’uomo relegato volontoriamente sotto un albero di fico, è evidente come
anela dell’intimità con qualcuno. Lo toccasse, lo baciasse, sebbene dietro a
questo suo gesto folle e insensato non ci sia una vera e propria ragione, le
cui carezze o attenzioni avrebbero cancellato alcun bisogno. Per il momento
sarebbe bastato questo, poi sarebbero approdati quei momenti più complessi in
cui sarebbe stato necessario scavare nel profondo.
Atti in cui si agogna libertà,
crolli, distruzioni, senza contare di parole che vanno al di là del loro
significato, comunicazione mediante gesti, sguardi, pochi scambi verbali solo
sulle questioni più pressanti, non un vero e proprio incontro bensì
l’assimilazione di un processo di conoscenza dalla quale nascerà un’intesa, una
mancanza di inibizioni non proprio nuova nel settore letterario che fluisce da
pori impiastriciati, in cui si accettano le paure e qualunque disperazione, ma
si lotta al fine di scovare un posto migliore. Un mondo che non sia
contaminato, rozzo, cruento, dominato dal terrore o dalle insicurezze.
A volte, è naturale che letture
che abbracciano questo tipo di temi possano annoiare. Che sia scritto benissimo
o con delicatezza e lirismo non ha importanza, perché importa poco delle cose
che ci circondano. Il processo di lettura di Pirilla, lo confesso, non è stato
propriamente entusiastico, né mi ha avvinto nelle maglie di una narrazione
desta o attizzante in cui ogni tanto mi sono sorpresa nel perdere la direzione,
ma non riuscendo a rompere o stroncare definitivamente alcun legame. La
dolcezza di un cuore oramai prossimo all’età adulta è stata davvero
irresistibile e i momenti di noia necessari, l’unica cosa che non mi ha
concesso di attribuirgli il massimo, che mi ha permesso di comprendere i motivi
per cui l’individuo è un povero relitto che vaga lungo la riva dell’assurdo
senza alcun motivo, fin quando non conquisterà o otterrà nuovamente la
coscienza o l’impeto delle virtù nazionali perse. Pur di restare in stretto
contatto con Dio, affinchè non fosse prescindibile al concetto di Patria,
dovrebbe essere una nuova rinascita. Un atto di liberazione o mutamento, e
niente di tutto questo sarebbe stato possibile se nonché l’uomo non si fosse
interrogato sul senso della vita e sulle possibilità che gli si prospettano.
Fra le pagine di L’albero della vergogna
si è consapevoli di come bisogna essere grati nell’aver attorno quei pochi
famigliari, ad aver ancora intatti quei legami che non inducano alla
solitudine. Perché di solitudine il cuore dei personaggi di Ramiro Parilla è
colmo, e ciò denota come l’autore stesso era legato alla sua famiglia, alla
propria terra. Era così compatto a questa forma d’unità che certamente non
avrebbe mai voluto separarsene.
L’albero della vergogna ha un’aura che sfugge a qualunque definizione precisa, anche se
non poche volte mi sono chiesta cosa in effetti la renda inconfondibile, così
diversa da altri romanzi che ci sono in circolazione. Dipende forse da quel
misto di eleganza e tran tran quotidiano, dove però l’eleganza non è mai
ammantata dal tran tran quotidiano. I modi delicati, controllati dell’autore
convivono con le tendenze culturali e antropologiche di questo popolo spagnolo,
in cui non vi è alcun rancore, e di cui lo stesso romanzo sembra essere pervaso
da un’atmosfera pacifica, sebbene reduce da massacri e discriminazioni.
Un’instantanea: l’ultimo bacio di un condannato, il commiato a una via di
rendenzione o libertà. Ecco l’aura faulkneriana, o una delle sue fugaci
emanazioni, e quando l’autore americano si interroga sulle condizioni su cui
sono condannati il popolo americano, quando descrive i timori o le paure nel
poter perdere qualunque cosa, si domandava cosa sarebbe accaduto se ci fosse
stata una maggiore resistenza. Ecco cosa accomuna Pirilla e Faulkner:
l’individuo è un essere imperfetto ma fin quando sarà libero non deve farsi
sopraffare dal male bensì contrastarlo definitivamente.
Da questa lettura ho compreso
tante cose, e adesso comprendo i motivi per cui Pirilla sia così popolare in
patria. L’albero della vergogna
lamenta come un fantasma annunciatore di dispiaceri, costrinzioni, racconto di
una generazione che attraversa un intero popolo. L’ambiente circostante
evidenzia la condizione degli stessi protagonisti, centellinati su un paesaggio
butterrato da ceppi, profondamente silenziosi ma solidali perché desiderosi nel
tenere compatti certi dogmi. E, dalle tonalità accese ma non complicate, storia
che mi è comparsa in una certa maniera ma alquanto diversamente dall’universo
parallelo che celano alcuni splendidi romanzi. Ma intrappolata nelle maglie di
una storia a cui ho dedicato del tempo, attenzione, scrupoli, che evidenzia la
condizione umana e il suo modo di sopravvivere.
Valutazione d’inchiostro: 4-
Molto interessante e diverso dal solito, ottima recensione, grazie
RispondiEliminaGrazie a te 😊😊
EliminaAh aspettavo questa recensione! <Sembra una piccola pillola di felicità, grazie ** In effetti ioe ro rimasta colpita solo dalla copertina, ma leggendoti mi sa che devo acquistarlo anch'io
RispondiEliminaGrazie a te! A me è piaciuto, e non ne sconsiglio la lettura ☺️☺️
EliminaCopertina a parte, non troppo mi chiama...
RispondiEliminaMeglio passare ad altro, allora ☺️☺️
Eliminagrazie per la tua visita al mio blog😊
RispondiEliminaAdoro leggere le recensioni dei libri.
Saluti dalla Turchia😊
Grazie a te ☺️☺️
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