Qualche ora fu tutto ciò che mi concessi nella mia umile dimora e
allo scadere di questo arco di tempo ricevetti il messaggio che l’autrice
trasmette così bene in queste pagine collocandomi in un posto in cui l’azzurro
del cielo si conformava a quello di un semplice isolotto, teso tra le terre
emerse, su un filo di terra popolata da mitiche creature e fantasmi.
Desiderando ardentemente che l’autrice mostrasse qualcosa in più, mostrasse la
sua vera posizione, sia come autrice sia come figlia della Terra, pur quanto
abbia cercato di nascondere quanta profondità ci fosse in questo suo racconto
autobiografico, si servì di un semplice mucchio di carta e parole che
giustificarono il suo continuo sentirsi a disagio, disadattata, lasciando così
una ferita ancora scottante che non cessa di pulsare nemmeno quando giunse
l’ora di separarci.
Dicendo fra me e me
che Isola nasconda molto più di quel che si crede, un esiguo
compenso di dispiaceri e rimembranze di una famiglia che è quasi del tutto
scomparsa, l’autrice rivendica così la sua dignità parlandoci al cuore; per
quanto mi riguarda non c’è voluto poi così tanto per far sì che la magia
facesse il suo effetto. Io ne fui soggiogata a tal punto che ho letto questa
storia considerandola come un frammento della mia, poiché il profondo
sentimento con cui è stata scritta mi ha impedito di sentirmi distante dalla
sua creatrice.
Titolo: Isola
Autore: Siri Ranya
Hjelm Jacobsen
Casa editrice:
Iperborea
Prezzo:17€
N° di pagine: 215
Trama: Dopo la
morte della nonna, una giovane ragazza danese decide di tornare a Suduroy –
l’isola dell’arcipelago delle Faroe da cui proviene la sua famiglia – a cercare
le sue origini in una cultura che ha ereditato ma che non le appartiene e in
una lingua estranea in cui << non sa neppure pronunciare il suo nome
>>. L’unico legame concreto con quel mondo è il rapporto con i nonni
Marita e Fritz, emigrati in Danimarca negli anni ’30,la sua immaginazione e
tutti gli aneddoti che fin da piccola le hanno raccontato. È stata la vita
durissima dei pescatori nel mare del Nord, <<il posto in cui l’uomo è
meno benvenuto al mondo >> a far nascere in Fritz il desidero di un
destino diverso, ed è l’urgente desiderio di felicità e necessità di sfuggire alla
durezza della vita a guidare tutta questa grande saga famigliare che si snoda
fra la Danimarca e le isole sperdute nell’Oceano Atlantico del Nord.
La recensione:
Ogni uomo ha il suo
posto stabilito e pesca per sé. Fra loro c’è un metro di freddo. Quando due fili
s’intrecciano, nonostante le precauzioni possano inimicizie, accuse di
sabotaggio e gelosia.
Non leggevo un
romanzo così in fretta da parecchio tempo. Avanzo sempre in momenti in cui le
mie letture sono calibrate, misurate e guardigne, come le mosse di un giocatore
di scacchi. Un pomeriggio però il desiderio impellente di leggere qualcosa di
diverso e originale e una nuova voce nel panorama danese apparvero come se mi
avessero allontanata dalla monotonia, dalla piattezza di certi pomeriggi
solitari per assumere una nuova forma, una nuova prospettiva. Ogni ramoscello
di questo piccolo albero maestro era coperto da una bianca lanuggine, simile a
una pelliccia cresciuta dalla corteccia durante la notte, che ne quadruplicó lo
spessore; nell’insieme, Isola formò uno strano disegno di
linee famigliari di demarcazione fra una generazione e un'altra contro il
malinconico splendore di un isolotto luminoso e scintillante. Fronde di alberi
scoprirono e rivelarono la loro presenza, nei cuori algidi di protagonisti desiderosi
di conoscere le proprie origini, estirpare il passato dalle radici, finchè
l'alter ego della stessa autrice, che qui non ha un suo nome, una sua identità
specifica, rivelò qualcosa di dannatamente profondo e drammatico che si
cristallizzó, pendendo dai bordi della sua anima come nodi di lana bianca dai
punti più alti dei boschi, dal villaggio e da ogni piccola abitazione.
Da qui si dirama il
cuore pulsante di una storia in cui le isole Farae sono popolate da
maledizioni, sacrilegi, sacrifici dell’anima, che caratterizzano un intero
popolo, un intera generazione da cui, ben presto, sopravvenne una novità di
gelo asciutto, quando la morte di una persona cara cominciò silenziosamente ad
arrivare e picchiare sul nostro cuore come magre e spettrali creature dalle
origini prevalentemente tragici. Occhi che hanno contemplato scene di vita di
eventi passati, in cui vige il forte desiderio di realizzarsi e perseguire
degli obiettivi. Studiare per formarsi culturalmente o lavorare, affinché si
possa tenere conto di una certa indipendenza economica. Marita è colei che ha
vissuto sulla propria pelle scene di orribili cataclismi, in inaccessibili
usanze religiose di una vastità inconcepibile di esseri umani, figli dello
stesso Dio ma diversi per sesso e cultura, in rivelazioni sconcertanti, usanze,
modi di vedere o interpretare le cose che pochi uomini sono stati in grado di
sopportare. Mediante gli stessi occhi, l’autrice ha assistito all’urto di
tempeste e sconvolgimenti interiori che dettero una certa pressione a certi
eventi. Questa, come un uccello sconosciuto, mi si avvicinò non rivelando
tuttavia nulla riguardo la sua identità e il ruolo fondamentale che ella
svolgeva e che mai nessuno avrebbe potuto contestare. Era priva di debolezza,
forte e coraggiosa a voler raccontare proprio di questo viaggio dell’anima,
spirituale e intimo che, con muta passività, mi ha allontanato da esperienze a
cui non ho dato così tanto valore, interessata a scoprire come in questo
piccolo romanzo aleggiasse un forte senso di insoddisfazione. Tristezza,
amarezza, incomprensione. Sembra quasi di vedere dei funamboli che camminano su
questa landa desolata come se non avessero nessun altro fine.
Tutto questo ebbe
scopo e riscatto dalla comprensione e dal nutrimento di un luogo che è sempre
stato lì, elegante e ritirato, in cima a pascoli che degradavano verso i non ti
scordar di me e i frumenti ondeggianti. Si trattava di un oscurità che venne e
calò sul mio cuore, ghiacciando le mie pupille, penetrando fin dentro le ossa,
agendo più all’interno del corpo che sulla superficie. Forse si trattava di una
tattica per comprendere come, il lento assassinio processo della morte è una
graffiante discordia che getta il proprio potere su qualunque individuo. Gli
individui della Jacobsen però non fanno nulla per scansarla, e
prediligono l’idea di restare al mondo non facendo nulla di diverso se non
sperare in un nuovo avvento.
Leggere Isola non
è stato propriamente facile; se avessi saputo che il mio cuore sarebbe rimasto
strettamente legato a quello dell’anima di questo romanzo non credo avrei
esitato più di tanto. Mi rendo sempre più conto che calamito quelle storie
dannatamente profonde e struggenti che, inavvertitamente, mi spronano a scovare
quasi sempre un raggio di sole in un banco di nuvole e pioggia. Isola ne
è un esempio, romanzo appartenente a quel bagaglio culturale che ha abbattuto e
annientato il mio spirito, saldandomi alla sua anima come un tutt’uno come
qualcosa di irrimediabilmente immutato. La storia che si porta dentro la stessa
Jackson è un pó la storia di ognuno di noi, di chi è desideroso di conoscere le
proprie radici e chi considera, anche il minimo stralcio di terra, la propria
casa natia. Il fantasma cieco di un isolotto alla deriva. Perla lucente in un
mare di detriti e pattume che, sebbene ambizioso e solenne, non riesce ad
abbattere e annientare nemmeno la colla degli anni che hanno saldato la sua autrice
alla sua famiglia come qualcosa di irrimediabilmente immutato. Corpo estraneo
in un marasma di eventi, disordini e sfaceli del cuore, in cui è bastato un
semplice gesto per riconoscersi: guardarsi dentro, affinché potessimo capire
quanto ogni tanto ci si sente guasti, sbagliati. Intrusi che inconsapevolmente
si sono infilati in una piccola fessura creando un certo contrasto.
Spesso e volentieri
è davvero un’impresa tenere a bada le emozioni, sopravvivere alla risacca lenta
e disomogenea che ti assale quando sopravvengono i ricordi, come pensieri
piatti, dalle vedute ristrette, privi di ogni immaginazione. Isola è
un romanzo che muta e cresce in tutta la sua meravigliosa essenza, trasformando
inutili e insulsi granelli di vite lontane in un sogno romantico, onnisciente
che non nasconde una certa malinconia, non mancando mai di ricordarci il numero
di effetti, tormenti, cause o conseguenze.
Ho assaporato la
sensazione di essermi, per qualche momento, immersa in un momento storico
davvero importante, ma a colpirmi maggiormente è stata la luminosità dei
colori, la forza che sprigionano queste parole, ogni cosa completamente immersa
nel buio, nel grigiore della distruzione, che crea un disegno splendido,
toccante ed estremamente profondo. L’esordio della Jacobsen è un dramma
romanzato che racchiude, al suo interno, un certo coraggio per dichiararsi
rivoluzionari, combattenti verso qualcosa o qualcuno in cui ti senti solo,
vulnerabile. L’autrice vede al lato umano, estremamente intrinseco alla sua
natura profetica e poetica, in cui realizza un utopia paradisiaca dove vigono
peccati dell’anima, un passato che è impossibile annullare, sensi di colpa
verso un futuro utopica che non ci sarà mai.
Le isole più
piccole possono nascere in una notte, e possono sparire in una notte.
Valutazione
d’inchiostro: 4
Uno dei pochi Iperborea ad avermi conquistato!
RispondiEliminaAnche a me! 😊💖
EliminaSembra un romanzo molto particolare e solo la vista di quella copertina è consolatoria con questo caldo!
RispondiEliminaAhahha comprendo benissimo, Beth 🤗 comunque, si. Il romanzo è davvero molto bello 🤗
EliminaDavvero interessante, ci farò un pensierino.
RispondiEliminaMi farai sapere 😊💖
Eliminami è venuta voglia di leggerlo!
RispondiEliminaDavvero bellissimo! ❤️❤️
Elimina