martedì, dicembre 27, 2022

The lost review: ultime letture dell'anno parte 1

Sul finire dell'anno, mi sorprendo a trovare una piccola pila di libri letti ma non ancora recensiti. Queste letture, che ho deciso suddividerò in due parti, riassumono mesi, settimane in compagni di romanzi che ho comprato a inizio anno, in un momento imprecisato della mia vita, ma, fra le innumerevoli tentazioni del marcheting editoriale, una scontistica allettante e sorprendente delle case editrici inducendomi a compiere un passo forse troppo frettolosamente ma che non mi ha mai indotta a pensarci con un certo rammarico. Ho amato ognuno di queste letture e i loro autori, e se non li avessi letti subito li avrei letti quando sarebbe giunto il loro momento. 

Titolo: Nord e sud
Autore: Elisabeth Gaskell
Casa editrice: Elliot
Prezzo: 19, 50 €
N° di pagine: 512
Trama: Classico della migliore letteratura inglese, Nord e Sud racconta la travagliata storia d’amore tra John Thornton e Margaret Hale, complicata da orgoglio e pregiudizi di sapore austeniano e dalle nuove istanze sociali di un’Inghilterra in piena industrializzazione. Lui è un facoltoso proprietario di fabbriche tessili, simbolo della nuova borghesia capitalista di una cupa cittadina nel Nord industriale. Lei è la figlia di un curato trasferitosi dal Sud rurale e tradizionalista, intriso di morale cristiana e ancora governato dall’aristocrazia dei proprietari terrieri. Due caratteri lontani per indole, estrazione e cultura, che da subito si attraggono e respingono tra continui scontri e fraintendimenti in un rapporto complesso, la cui evoluzione appassiona i suoi lettori da oltre un secolo e mezzo. Pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista di Charles Dickens «Household Words» tra il 1854 e il 1855, il romanzo è stato trasposto in due serie televisive di successo della BBC.
La recensione:
Il mondo dei romanzi, della letteratura, è quel genere di posto in cu amo stare. Ognuno di noi, presto o tardi nella vita, scova quel suo angolo di Paradiso in cui non solo può rifugiarsi ma sguazzare impunemente per quanto tempo gli pare e piace. Io, che mi cibo letteralmente di parole, sto bene dove sto. Sulla soglia dei trent’anni non posso che essere più felice di così. Nonostante non abbia ancora tutto ciò che desidero, mi considero fortunata e, silenziosamente, felice. Generalmente a procurarmi questo tipo di felicità sono le storie che decido di vivere, i personaggi con cui mi circondo, gli autori che accolgo nel mio cantuccio personale immaginandoli soprattutto nel momento in cui il pensiero divenne creazione e noi, piccoli grandi creature di questo splendido universo, gli attribuiamo vita, importanza collocandoci in essi, sicchè ci troviamo in un tempo o in situazioni in cui uscirne poi è doppiamente difficile. Per me i libri, la buona letteratura sono respiri concitati, la vera e propria essenza della vita, e pur quanto ancora non comprenda chi invece li considera come delle semplice risme penso che poi il bello della letteratura sta proprio in questo: spiccare, nel bel mezzo dell’insulso, l’inaudito, e trovare se stessi. Scovare una propria identità.
Questo lungo e forse inutile preambolo per dire, che quando decido di approcciarmi ad un classico delle volte riscontro dei << problemi >> quasi sempre riconducibili all’idea o al pensiero che attribuiamo a quel determinato romanzo. Recentemente accadde con Nord e sud, opera celeberrima della mia amata Elizabeth Gaskell e che, in meno di cinquecento pagine, riassume quell’agevole posizione sociale che avrebbe dovuto garantire un certo successo ma anche allontanato dall’ignoranza e dalla scelleratezza. Con l’avvicendarsi di un manipolo di personaggi che hanno un loro respiro, ho così potuto muovermi mediante l’introspezione dei personaggi in cui prevalsero sentimenti forti quali, il dramma, la tragedia, la veridicità di certi effetti che delle volte sfociano nell’esagerazione, la potenza degli affetti che rallegrò chiunque, persino coloro dotati di un animo coriaceo, in cui non bisognava proiettarsi sul passato quanto trarre da esso beneficio per comprendere un presente non sempre dolce e accogliente. La supremazia della Chiesa, la forza prorompente del Clero avrebbe abbattuto qualunque tentativo ed intrappolato povere ed umili creature a sopportare il peso di una condanna più grande di loro, annichilendo qualunque intento di rivalsa, suddividendo le classi sociali in forme sofisticate di intransigenza ed inappagamento.
L’uomo detiene una certa libertà d’espressione ma non di azione i cui innumerevoli tentativi di estirpare il male del secolo risultano poi vani, se sorretti da qualcosa di più forte che sovrasta ogni cosa.
Prendiamo Margaret, ad esempio. Sin da subito non propriamente simpatica ai miei occhi, ma inevitabilmente identificata col suo personaggio, origine apparente che muove ogni cosa. E, ingenuamente, vero bersaglio di queste pagine, forse vero e proprio movente per cui le cose andranno così come devono andare.
Quali cose? Beh, niente che un romanzo classico come questo non esplichi perfettamente ma, in definitiva, così realistico, veritiero, tattile, che mi intrappolò nell’azione o, per meglio dire, nell’inazione della stessa Margaret a voler agire ma non poterlo fare, in un’accidia tale da annichilire qualsiasi vita. Si, perché il vero cuore pulsante di Nord e sud non è celato sotto strati e strati di pulsazioni ed irruenza dell’anima ma nella condizione dell’individuo ad essere condannato a sedere e non poter fare niente, poiché denigrato da una << razza >> superiore. Che crudeltà! Il Nuovo Testamento non ci ha forse insegnato che siamo tutti figli di uno stesso Dio? Esseri imperfetti che camminano lungo questo sentiero insidioso della vita, a volte in solitudine, altre in compagnia, ma osservando il mondo attraverso le parole e non i fatti? Ma se le vicende che la Gaskell ritrae non assumessero risvolti tragici non sarebbero da considerarsi. Non desterebbero attenzione, né coinvolgere da una trama per così dire banale, già sentita, e a poco a poco scordarsi chi siamo. Eppure, a dispetto di Ruth e Mary Barton, questo libro suscitò poche emozioni… nient’altro che gli affannosi tentativi di una donna nella lotta alla sopravvivenza dinanzi al potere monastico della chiesa e un amore semplice e non irruento che non mi ha fatto palpitare il cuore come speravo. Ma, al di là di questo, tutto bellissimo. Intrappolato in una stanza, con in sottofondo la voce gracchiante dell’autrice.
Il punto di forza della sua prosa, infatti, consiste nel potere di distruggere chi legge dall'interno. Mary Barton, Ruth avevano comportato tutto questo, ma in Nord e sud non ho potuto affermare quella forza prorompente dell'amore, caricatura del mio amato Orgoglio e pregiudizio, di cui io mi sono cibata rinvigorendo la mia anima e il mio spirito. Di storie come queste ne ho divorate un’infinità, e quando riescono a distruggermi completamente, proprio come io desidero, li osanno. Confidavo che quell'autore scriva presto qualcos'altro, o io mi ci fiondo a leggere qualcosa di cui non ne conoscevo l'esistenza. E, facendo tutto ciò che mi è possibile per renderlo possibile, mi premuro di cantarne le lodi, descrivendo nelle mie recensioni l'autore come un personaggio ammirevole. Proprio in questa luce avrei voluto giudicare nuovamente il romanzo della Gaskell come un capolavoro. Un capolavoro tuttavia mancato in cui il mio cuore non ha sussultato più di tanto.
Eppure, senza rispetto, mi sono intrufolata come una ladra fra i cuori di due anime che, inconsapevolmente, hanno finito per raccontarsi. Ho colto la bellezza e la forza di queste pagine affermando che quella di Nord e sud è la raffigurazione di critica sociale precisa. Uno scrittore, in un certo senso, è anche un ritrattista e l'immagine di Margaret che si muove nel bel mezzo di movimenti laboriosi corrisponde a quella dell'autrice e di nessun altro, e di cui nemmeno io posso giudicare con obiettività.
La parola scritta riversata in pagine bianche e lucenti che offrono allo sguardo la bellezza di uno spettacolo bello ma non straordinario - innalzano l'anima di chi legge al di sopra della terra  -, un rettangolo grigio dal quale tuttavia penetra la luce, in Nord e sud  ho potuto osservare tutto questo con un certo fascino. Soffrendo di una terribile felicità. Sopraffatta da un miscuglio di emozioni, che mi hanno indotta a ritirarmi in me stessa, come uno spirito celestiale circondata da un aureola nel cui cerchio penetrano il calore di un abbraccio e, disgraziatamente, una mancata passione.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Gli ambasciatori
Autore: Henry James
Casa editrice: Elliot
Prezzo: 568
N° di pagine: 22 €
Trama: Gli ambasciatori sono persone fidate che la signora Newsome, ricca possidente di Woollett, cittadina industriale del New England, spedisce a Parigi perché riportino a casa il figlio Chad, sospettato di sprecare il suo tempo in bagordi. Il primo di questi "ambasciatori" è Lambert Strether, cinquantenne di bella presenza, intelligente e interessato alla mano della signora Newsome. Giunto a Parigi, scopre che il vero motivo che trattiene Chad dal tornare è una relazione con Madame de Vionnet. Invece di impegnarsi nel convincere il giovane a far ritorno a casa, Strether si lascia sedurre dal fascino della vecchia Europa e della scoppiettante capitale francese, dimenticando del tutto il motivo del viaggio e mettendo in crisi non solo il ruolo di "ambasciatore", ma il senso stesso del suo intero percorso esistenziale. Intanto la signora Newsome, non sapendo cosa pensare, invia uno dopo l'altro nuovi ambasciatori che, puntualmente, cadono a loro volta nella rete di fascinazioni del 'beau monde', rimanendone invischiati. Scritto tra il 1900 e il 1901 e pubblicato nel 1903, "Gli ambasciatori" è un romanzo ampiamente autobiografico, considerato dallo stesso James come il suo capolavoro.

La recensione:

 

Siete impareggiabili voi altri quanto siete nell’arte di non rendervi conto di simili cose… e alludo alle svariate impossibilità. Mai una volta che ne siete coscienti. Le affrontate con una forza d’animo tale per cui starvi a vedere diventa una lezione.

 

Si arriva, ad un certo punto nella vita, in cui non si ha paura più di niente. Coraggiosa e ambiziosa lo sono sempre stata, ma, nella mia vita, nella mia carriera di lettrice, ci sono state delle volte in cui qualcosa o qualcuno mi ha intimorito. È un tipo di paura intesa in senso lato, quel genere di paura che – una volta affrontata – ti induce poi a pentirti di aver atteso tutto questo tempo. Quanti ripensamenti, quanti momenti di perplessità, incertezza per aver protratto la lettura di quel romanzo, la conoscenza di quel determinato autore. Nonostante le recensioni, i pareri fossero entusiasti, e gli avvenimenti che ne susseguiranno sono ultime fasi che non dimenticheremo tanto facilmente. Sarebbe insulso indugiare più di così.
Prima di giungere dove sono adesso, Henry James mi intimoriva un po'. Qualche lettura prima che giungesse questo romanzo fra le mie liste di lettura, la mia coscienza sembrava spingermi verso qualcosa che pur essendo già conosciuto mi impedì ad esimermi di leggerla.
Nella sua produzione letteraria e artistica, Gli ambasciatori mi coinvolse nell’immediato. Ero stata coinvolta in una reiterata scorribanda in cui mi sono impegnata a cambiare o modificare qualunque cosa, affinché esse raggiungessero piena maturazione, entusiasta ad iniziare un viaggio che mi avrebbe procurato grandi soddisfazioni inoltrata cautamente, assieme a questi due ambasciatori, in una serie di vicende che mi hanno appassionata a tal punto che ogni cosa, persino la più inutile, sembrava possedere un’anima. Coincise con quel genere di tempesta emotiva che imperversa quando si è travolti da qualcosa di potente e trascendentale. Ci è decretato un destino che bisogna accettare e che poggia sulle nostre coscienze tentando di apportare notifiche, rettificare fallimenti multiformi.
Non ho semplicemente guardato; mi sono rintanata, nascosta fra le viscere profonde di un eco, fra un gradevole odore di muffa, come un luogo d'esilio per lettori accaniti come me. Un sole pallido si espandeva in una ghirlanda di rame liquido; questa storia mi accese nel suo abbraccio tiepido. Questa storia mi ha allietata, fatto vibrare le corde del mio cuore come un'arpa percossa. Non ho fatto altro, perciò, che seguire spassionatamente le vicende dell'intelligentissima e sagace protagonista, nel palmo della mano di un uomo che fece della sua vita una cura per la libertà. Ero intensamente felice che questa storia fosse giunta nel momento giusto; aver smaltito l'ennesimo quadro romantico a sfondo realistico/ sociale cela sempre qualcosa che ha a che fare con l'appagamento dei sensi, una quietanza stimolante, qualche debito morale che pende sulla mia testa come un fardello troppo pesante. Le sensazioni erano tutte lì, palpitavano nel mio cuore: erano divenute oramai parte delle mie emozioni, non c'era niente da vergognarsi. Ho avuto anch'io la "fortuna" di possedere una buona dose di intelligenza e, come la bella Madame Vionnet talvolta riesco ad avere una larga percezione delle cose circostanti. La brama intensa di apprendere ciò che si colora d'inconsueto; la letteratura come qualcosa che è particolarmente congiunta con il senso di non possedere qualcosa.
Come un miscuglio di pensieri che mi si sono avvicendati dentro, un intrico di segni vaghi che mi hanno indotta a tracciare una via che mi hanno costretta a compiere mille zig -zag, una persona molto diversa da quella frivola, bigotta, convenzionale, nella corrente temporale di un fiume in cui la saggezza è la vera matrice del tutto, nel romanzo di James diviene in maniera meno elastica ciò che da sempre soleva diventare. Da spiriti brillanti, liberi, generosi, possessori di una sapienza che ha il segno illuminante, Chad, Madame Vionnet, Lambert divengono anime dannate di "colpe" di cui tuttavia non se ne conosce la natura. L'avvincente storia di spiriti prevalentemente affini, nonché esperienze primordiali dell'autore, di personaggi che desiderano liberarsi dalle catene delle convenzioni sociali, con cui si sforzano di fuggire, pur di scorgere un barlume di cambiamento. Tutto questo estremamente affascinante, romantico, realistico, informe e misterioso, che prevede un riconoscimento della propria coscienza.
In una manciata di pagine sono stata sedotta da una storia il cui tratto sognante, magico, ha avuto qualcosa di tangibile. Penetrando nel mio cuore, pian piano. Aggirandosi in punta di piedi, esplorando una zona della psiche umana di cui nessuno aveva mai fatto cenno.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: L’ultimo uomo
Autore: Mary Shelley
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 10 €
N° di pagine: 600
Trama: Ventunesimo secolo: il destino dell'umanità è segnato e la sua fine ormai prossima a causa della peste. Che sia una tragica condanna senza possibilità d'appello? Romanzo apocalittico, pubblicato per la prima volta nel 1826, "L'ultimo uomo" di Mary Shelley è considerato, assieme a "Frankenstein", uno dei suoi più importanti romanzi, antesignano del genere fantascientifico. Opera straordinariamente moderna, nata dalla percezione lucida e impietosa delle contraddizioni culturali e politiche del primo Ottocento, è un testo sovversivo che mette in scena la fine della civiltà che su quei presupposti si era fondata: l'idea di famiglia, di Stato e di religione. Una narrativa gotica che non si limita a esprimere i fantasmi del rimosso e la paura che li accompagna, ma che dà corpo a tali fantasmi trasformandoli in figure realistiche seppur metaforiche in grado di agire sulla realtà con conseguenze tangibili e spesso catastrofiche.

La recensione:

 

Se la mia mente di uomo non è in grado di riconoscere che tutto quello che è, è giusto, e tuttavia quello che è, deve essere, sederò tra le rovine e sorriderò. Non fummo generati, in verità, per la gioia, ma per essere sottomessi, e sperare.

 

Trascorrono i giorni. Il Natale predomina su tutto, e, ad un certo punto, finisce che la pila gigantesca della vergogna, che in quasi tre anni mi sono impegnata a smaltire, è quasi del tutto scomparsa. Era da tempo che desideravo leggere quei figli di carta che, in momenti imprecisati della mia vita, ho portato con me nel mio cantuccio personale. Riposti qui, sulla mensola di una libreria troppo piena, che non lesinano nient’altro che un briciolo del nostro tempo e magari anche di attenzione.
Non spendo i miei soldi per libri che non leggerò mai: credo che per conoscere qualcosa o qualcuno bisogna innanzitutto viverlo. Se non avessi vissuto le vicende de I fratelli Karamazov non credo che l’anno scorso mi sarei auto regalata l’edizione Einaudi, l’ennesima, e dalla straordinaria cover. Non credo sia utile spendere del tempo prezioso per qualcosa di cui poi so non vorrò o vivrò mai. Perciò sono piuttosto selettiva in tutto quello che faccio, e i romanzi ne sono un esempio. Ci sono troppi romanzi che mi piacerebbe avere. Ma accaparrarsi di ognuno di loro è esageratamente impossibile.
L’ultimo uomo fu un acquisto impulsivo ma voluto di ben due anni fa. La sua autrice, celeberrima per il nuovo Prometeo della letteratura moderna, e di una splendida raccolta di racconti gotici che lessi a inizio anno, necessitava della mia attenzione già da qualche tempo e ponderata l’idea che la sua mole era piuttosto voluminosa, avrebbe sottratto del tempo che tuttavia cristallizzarono una certa magia fra la mia anima e quella della sua autrice.
A un certo punto, nel mio lungo cammino letterario, capita di dover tornare fra le braccia di autori di cui si rimanda l’incontro a data da destinarsi: poche certezze su quando avverrà, ma l’importante è che accada. E tutto ciò avvenne solo in questo periodo, che mi indusse a divorare le pagine come se animate da volontà propria, inconsapevole delle belle sensazioni che sortì la sua lettura.
Troppo riduttivo scrivere che le mie viscere si sono letteralmente contorte. Troppo poco asserire che, finalmente, dopo così tanto tempo, anche io conobbi questo Ultimo uomo. Uno strano effetto, non lo nascondo. Ritrovarsi ai suoi piedi, muoversi da un posto all’altro, in mezzo ai suoi simili, e spiccando non tanto perchè possedeva membra forti, quanto dotato di un cuore forte e intrepido che lo indurrà a fare ammenda di ciò che è stato fatto in passato, di come l’anima tenga e porti il peso di innumerevoli fardelli di cui tuttavia lo spirito dovrebbe nutrirsi di qualcosa di buono e caritatevole, dettato da forti impulsi di cui tuttavia non riesce a tenere a bada ma che lo pongono in situazioni d’impaccio. Quasi angelico ma macchiato da offese e calunnie varie, la cui vita è movimentata e mossa dalla ragnatela della società affinchè possa prendere parte a quello che definiamo << vita >>, quel labirinto di malvagità, quella congiura per la tortura reciproca. Colto quasi sempre alla sprovvista, ridotto in minuscoli pezzettini, reietto e vagabondo, gettato in una dolcezza tipica della carità umana ma destinato a restare solo, essere finito in un mondo infinito, di cui il titolo è un chiaro riferimento a come, alla fine, siamo tutti destinati a restare soli, alle soglie di uno stato d’animo forte che annienta chiunque.
In una terra che è prostrata dalla sofferenza, dalle angosce, salvata dalla schiavitù e da atti barbarici che restituiscono un popolo insigne per genialità, civiltà e spirito di libertà, la Shelley ritrae un ritratto politico e sociale che ha dell’incredibile. Sorretto dall’aristocrazia e da un potere che infligge falsi propositi per l’umanità, realizzare un maggiore livellamento di privilegi e ricchezze per introdurre in ogni dove un perfetto sistema di governo repubblicano. Sembra quasi di interpretare i meccanismi di un congegno che sostiene la trama di cui è tracciata la vita di ogni personaggio, dotato di sangue e ossa, nel bel mezzo di cieli splendenti e sfolgoranti la cui vita si mescola a quella degli altri, così forti e coraggiosi impossibili da annientare.
Uno specchio sulla facciata del secolo, che per la prima volta da quant’è che leggo classici non credevo di riconoscere assetti così moderni, nonostante non poche volte mi è parso di interpretare un sonetto omerico. Non ho dovuto compiere alcuno sforzo mentale per affidarmi all’immaginazione o alla ragione, quanto con slancio mi sono tuffata fra le braccia di qualcosa di così palpabile, toccante, intenso in cui si consacrano le anime che, immerse in uno stato di calma celestiale, accompagnano la << convalescenza >> di un ragazzo che poi diverrà uomo il cui obiettivo è quello di ottenere il libero arbitrio, risvegliando nei cuori di chi legge una melodia dolce, dagli sprazzi malinconici.
Sebbene, come detto, la mia mente non abbia compiuto chissà quale sforzo, ho avuto bisogno di una manciata di minuti affinchè mi abituassi a questo nuovo – nuovo per me – mondo che la Shelley aveva ritratto. Una storia che sembrava parte della mia vita, sin da sempre, che nel momento in cui l’autrice cominciò a parlare prese vita, nutrendosi della mia coscienza, mi consumò così tanto da zittire persino i miei pensieri. Chi, prima di me, non ha potuto scorgere del potenziale? Chi, ripercorrendo il cammino insidioso di questa storia, con quest’uomo, non è entrato nel suo cielo e trovarlo pieno di nuvoloni grigi e poco accoglienti, che stonano con la sua aura lucente, trasportata dalla corrente del tempo, desiderosa di esplorare una parte di mondo che mai avevo visto, tracciando i confini di un luogo dove mai piede umano ha lasciato la sua impronta?
La mente comincia a tranquillizzarsi, come un fermo proposito, un punto in cui l'anima può posare il suo sguardo intellettivo. Il nostro sguardo segue i passi di un viaggiatore curioso e intrepido, che in una notte d'inverno decide di inoltrarsi fra le fredde e buie strade di Costantinopoli e in alcune zone della Grecia. E una piacevolissima brezza, che è giunta sino a qui da luoghi remoti verso i quali ci si allontana, ci offre un assaggio di quello che la sorte ci riserverà.
Vivendo nell'immaginazione la vita di un uomo solo e incompreso, a cui affida i suoi pensieri alla carta, adoperando il linguaggio del cuore, che possa dar sfogo ed espressione al bruciante ardore della sua anima, ho tentato di porre rimedio dalla limitatezza della mia esistenza, trovando un margine di libertà in cui spesso vi ho cercato rifugio. Ed estremamente incline a questo tipo di riflessioni, quando leggo un romanzo non immagino le cose come le giudicano gli altri, ma riesco a vederle come effettivamente sono.
Questo mese, fui intrappolata in una solida fortezza da cui mi è stato impossibile uscire che, una volta entrata, mi indusse a difendermi, innalzare una bandiera contro gli assalti esterni, con in sottofondo lo strepitio di mille arpie, il rimorso e l’infelicità in attesa di qualunque buona occasione su cui posare o riposare. Pellegrino di una terra bellissima, le cui sofferenze danzarono sulle pareti stracolme della mia libreria, solleticando la mia pelle, dipingendo figure di carta grigia nel vuoto. La brama ardente di esser affiancato da un uomo capace di un'intesa profonda, i cui occhi e la cui anima corrispondano - un amico che non disprezza sogni o illusioni romantiche, ma che affettuosamente mette in ordine i pensieri, raddrizza l'equilibrio incerto della vita, come uno straordinario mistery, lambì il mio cuore di una dolcezza ardente. Con la triste storia di una malinconia senza confini, la serenità di un cuore che avrebbe dovuto indurre a guardare il passato con soddisfazione, soppiantata dal rimorso e dal senso di colpa, che incauti ci spingono verso un abisso di torture infernali, quale nessuna voce può spiegare. Raymond e il Fato. Due entità avvolte da una nube di angoscia e tormenti che nessuna influenza benefica può penetrare. Confinati ognuno nel proprio spazio, senza la possibilità di redimere la propria anima.
Il cielo stellato, il mare, la parola scritta riversata in pagine bianche e lucenti che offrono allo sguardo la bellezza di uno spettacolo straordinario - innalzano l'anima di chi legge al di sopra della terra -; osservavo tutto questo dalla finestra della mia camera. Un rettangolo grigio dal quale era entrato un grigiore spettrale, che incupii ogni forma e aspetto, mi permise di stabilirne le coordinate. Capirne la provenienza, soffrendo di una terribile infelicità. Sopraffatta dalle delusioni, ritirandomi in me stessa, come uno spirito celestiale circondata da un’aureola nel cui cerchio non penetrano né il dolore né la follia.
Amico immaginario che prima ho visto vagare lungo la riva dell'assurdo, i cui occhi lustri indugiarono su di me più del necessario. Con tutta la loro malinconica dolcezza, osservando la sua anima levarsi verso il cielo per il suo essere umile e bonario, mentre i lineamenti del suo viso erano illuminati dal pozzo buio della sua anima. Così solo, contrito, affascinato dalla passione degli uomini per le leggi nascoste della natura, come una gioia simile al rapimento quando esse si svelano. Mi è rimasta ancora impressa nella mente la bellezza che celavano arcani del cielo e della terra, che si tramutavano in sostanze visibili delle cose, o lo spirito invisibile della natura umana, come un’indagine che mirava a segreti metafisici.
Assistere a tutto questo, esaminare le cause della vita ricorrendo alla morte, non trovandovi solo insegnamento ma riscontrandone persino il dolore, mi ha trasmesso un certo fascino. Leggevo incuriosita di conoscere le sorti di Raymond e la sua malinconia sembrava consistere in un paesaggio spoglio senza figure, nei pianti e nelle gioie di una creatura che è stata messa al mondo senza alcuna ragione, nel dolore che consuma il cuore. Inoltrandomi in questo luogo fui invasa da una strana angoscia. Il paesaggio sembrava un vasto e lugubre teatro del male, ed io ebbi l'oscuro presentimento che il dottore fosse destinato a diventare il più infelice degli esseri umani.
L'uomo non completamente libero perché mosso da ogni spirare dei venti; spaventose ossessioni e possessioni; promesse ad una nascita che verrà messa a dura prova hanno dato forma a un suggestivo disegno a tinte fosche, un motivo memorabile ricco di scienza e amore. Così potente che avrebbe potuto lasciare una cicatrice sul petto, causando una grande infelicità da cui ho riscontrato solamente un vuoto cieco in cui è impossibile scorgere qualcosa. Ha cucito due lembi rossi che strisciavano l'uno verso l'altro, come due satelliti che hanno lentamente segnato la loro orbita, riempiendo il mio animo di una dolce melodia, sentimenti la cui natura infruttuosa confina con l'orrore, la deformità, la follia. Meschina superstizione che annienta ogni forma di speranza, l’uomo valoroso che diventa oggetto di disputa fra gli sciocchi e gli ambiziosi, la forza dei sentimenti che avrebbe dovuto addolcire il tutto.
Racconto straordinario, profondo, quasi toccante che è un inno alla buona letteratura ottocentesca, dai toni grigi e pessimistici, una storia che ha il sentimento delle storie d'amore senza tempo, e che ci parla di anime inquiete e insoddisfatte che vagano inconsapevolmente senza alcuna meta. Un quadro raffinato che ci illustra le teorie eterogenee della sopravvivenza; il desiderio di congiunzione di due entità instabili e prive di vita; la natura del sentimento, dalla landa deserta dei loro spiriti.
Una storia che mozza il fiato, che non può non incastrare nella sua morsa, appassionante, emozionante che altro non è che una storia di sofferenze eterne. Tormenti, flagelli del cuore, nella quale i protagonisti ambiscono alla redenzione dei peccati.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Stolen. Figlia della luna
Autore: Kelley Armstrong
Casa editrice: Fazi
Prezzo: 7, 90 €
N° di pagine: 535
Trama: Stonehaven. Stato di New York. Sotto la superficie della realtà ordinaria si annida un misterioso universo magico popolato da creature soprannaturali: licantropi, streghe, vampiri. Questo è l'universo di Kelley Armstrong e delle sue irriducibili protagoniste della serie "Donne dell'altro mondo". È qui che vive Elena Michaels, l'unica donna licantropo esistente. Elena è tornata da Clay, suo compagno mannaro al cui amore si era finalmente arresa in "Bitten". Ora il suo compito è monitorare il web per assicurarsi che i "bastardi", licantropi che non appartengono al Branco, non attirino troppo l'attenzione su di sé rivelando al mondo l'esistenza della razza mannara. Tutto sembra filare liscio, finché, sul sito believe.com Elena non s'imbatte in un post solo all'apparenza bizzarro: "Licantropi. Vendonsi preziose informazioni". Dietro la pubblicazione ci sono due potenti streghe, Paige e Ruth Winterbourne, che tentano di avvertirla: Ty Winsloe, un magnate della rete, sta infatti mettendo insieme una collezione privata di specie dotate di poteri paranormali (sciamani, vampiri, streghe e lupi mannari). Le cattura e le tiene segregate in un bunker sotterraneo per tentare di distillarne le qualità magiche e venderle, poi, al miglior offerente. Anche Elena cadrà nella rete, ma la sua eccezionale tempra le darà la forza di liberarsi e accettare, finalmente, la sua natura di licantropo.

La recensione:

I romanzi fantasy per ragazzi, quelli naturalmente meritevoli di essere ricordati, non sono che un aspetto divertente di chi ama leggere. Certe volte, nonostante amo sguazzare in territori esplorati quali i classici e la narrativa contemporanea, sapendo che non sempre i romanzi fantasy possano soddisfare la mia anima mi ci approccio spontaneamente quasi un moto volontario e perpetuo. Frequento così cittadine di cui non ne sapevo nemmeno l’esistenza, mi vengono rivelati segreti o misteri su creature fantastiche e non che dovrebbero incutere timore ma che, alla fine, sono solo figure incomprese e solitarie. Io lo chiamo divertimento tutto questo, e delle volte mi piace divertirmi e non essere sempre << noiosa >>. Le stanze che esploro sono quasi tutte famigliari, quasi identiche ad altre in cui vi soggiornai tanti anni fa, ma ogni tanto tornarci non credo comporti qualcosa di male, e poi questo romanzo languiva sullo scaffale da qualche mese ed essendo il secondo e conclusivo volume di una duelogia dovevo assolutamente leggerlo. Confidavo che, così come il primo bellissimo volume, anche con questo ne valesse assolutamente la pena. D’altra parte, erano solo emozioni travolgenti e sentite verso qualcosa che so non urlano al capolavoro o a un chè di impegnativo o solenne, ma giustificano le mie incaute impennate amorose paragonandomi quasi a un soldato in guerra in un luogo in cui sa cosa lo aspetta. Ogni lettore, alla fine, ha bisogno di scovare fra le pagine di un libro non solo l’amore stesso per la letteratura e la parola scritta, ma anche conforto, specie se in così tanti anni le sue predisposizioni letterarie sono cambiate e un po' di leggerezza non guasta mai. E poi, dico sempre a me stessa, leggerezza non è sinonimo di superficialità.
Il più delle volte questa tipologia di romanzi mi delude. L’approccio è quasi sempre bellissimo, avvincente, scoppiettante …. Sono poi l’arrivo di fantomatiche creature magiche, personaggi scalmanati e incomprensibili a modificare il tutto e ad << opprimermi >>. Il mio stare lì, fra le sue pagine, non diviene più così accogliente e confortevole come sembrava e giungere poi all’epilogo sembra quasi un sollievo.
Stolen però fu quel genere di storia in cui scorsi del potenziale, sin da subito. Il volume precedente, qualche mese fa, mi regalò una storia bellissima che lessi e ammirai quasi a bocca aperta, ma non per i temi che tratta quanto per come li racconta, l’oscurità di un luogo quasi invisibile del Maine, quasi immagini che si sono assottigliate sullo schermo come pensieri che si sono avvicendati dentro. Praticamente qualcosa che ho collegato subito nella categoria dei miei romanzi preferiti, e anche questo secondo volume non è da meno: ho un debole per quelle storie che mostrano del potenziale sin dal principio perché mi sono immediatamente congeniali, attraenti, e le loro trame mi avvincono nell’immediato. Questo romanzo giunse in un periodo davvero propizio, produttivo per le letture, che mi ha regalato non solo delle bellissime ore in sua compagnia, ma delle sensazioni straordinarie che non credo dimenticherò tanto facilmente. Perfino la mia coscienza, che solitamente non vuole saperne di incappare in forme di letteratura che alla fine si rivelano nient’altro che una perdita di tempo, non ci pensò due volte a credere come si trattasse in realtà di uno spiraglio di salvezza, uno sprazzo di luce in un banco di nuvoloni grigi e ingombranti, riconoscendo come abbracciare questo tipo di letture talvolta sia un’ottima scelta e che la storia di Elena e Clay è quel tipo di storia che se fossi stata un’adolescente sarebbe stata il posto migliore per stanziare per una manciata di giorni in confronto alle gelida mura di un Castello fuori città in cui mi piace rifugiarmi assiduamente. Magari una bella sferzata di semplicità e leggerezza, ogni tanto, non guasta, dato che quella destinata in queste pagine è stata adottata dall’autrice con il semplice intento di raccontare una storia d’amore e di lupi, con una vasta gamma di sacrifici, che in questo periodo di vita sono intensificati da situazioni famigliari, sesso e segreti vari, e che in un certo senso hanno conferito un chè di drammatico alle sue pagine. Genera una sorta di magnetismo che alla fine ti induce a sorvolare su alcuni aspetti negativi del romanzo ed apprezzare ampiamente quelli positivi, andando ad congiungersi in un guazzabuglio di sorprese e confusione degli eventi narrati, per la natura incresciosa e sovrannaturale che prenderanno le cose.
La Armstrong ha reso questo fantasy diverso dagli altri non solo per la questione relativa all’aspetto fantasy, compatibile a quello di altri romanzi, che poggiano su aspetti relativamente semplici ma che se ci si pensa più di qualche minuto non hanno un vero e proprio fondamento logico. I lupi dell’autrice conducono un’esistenza diversa a dispetto degli altri licantropi, mutano forma a seconda dei giorni, rischiando la loro stessa vita. La natura da questo punto di vista ha supplicato più volte gesti di comprensione, di possibilità, che non possa esserci niente di peggiore che restare intrappolati in una ragion di vivere che non lascia alcuna via di fuga. Pian piano si accetta questo destino, trasformandoci in esseri malinconici, maturi sognatori che oramai non desiderano nient’altro che trascorrere l’età adulta chiusi in una stanza a rammaricarsi di quanto la vita sia stata disgraziata e crudele, perdendosi così le gioie turbolente e l’allegro cameratismo vissuto da molti ragazzi della loro età, non risparmiando i conflitti e gli odi che possano trasformare uno stato emotivo normale in una lotta infernale e implacabile che sfocia nel rancore e a vita.

Valutazione d’inchiostro: 5

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Titolo: It
Autore: Stephen King
Casa editrice: Pickwick
Prezzo: 18, 90 €
N° di pagine: 1216
Trama: A Derry, una piccola cittadina del Maine, l'autunno si è annunciato con una pioggia torrenziale. Per un bambino come George Denbrough, ben coperto dal suo impermeabile giallo, il più grande divertimento è seguire la barchetta di carta che gli ha costruito il fratello maggiore Bill. Ma la pioggia è fitta e George rischia di perdere il suo giocattolo, che infatti si infila in un canale di scolo lungo il marciapiede. Cercare di recuperarlo è l'ultimo gesto del bambino: una creatura spaventosa travestita da clown gli strappa un braccio, uccidendolo. A combattere It, il mostro misterioso che prende la forma delle nostre peggiori paure, rimangono Bill e il gruppo di amici con i quali ha fondato il Club dei Perdenti, sette ragazzini capaci di immaginare un mondo senza mostri. Ma It è un nemico implacabile, e per sconfiggerlo i ragazzi devono affrontare prove durissime e rischiare la loro stessa vita. E se l'estate successiva, che li ritrova giovani adulti, sembra quella della sconfitta di It, i Perdenti sanno di dover fare una promessa: qualunque cosa succeda, torneranno a Derry per combattere ancora. It, considerato una pietra miliare della letteratura americana, è un romanzo di bambini che diventano adulti e di adulti che devono tornare bambini, affrontando le loro paure nell'unico modo possibile: uniti da un'incrollabile amicizia.

La recensione:

 

Forse per sempre, ma per lungo tempo, questo si, ma forse non si riesce a vivere in compagnia di una profanazione, perché apre una crepa nel tuo modo di pensare e se ci guardi dentro vedi che laggiù ci sono esseri viventi, c’è una tenebra che puzza e dopo un po' ti viene da pensare che forse laggiù c’è un intero universo, ma diverso… in quell’universo potrebbero crescere rose capace di cantare.

 

Erano tanti anni che covavo il desiderio di leggere un mastodontico romanzo come questo, che non attraversavo un ponte di 1200 pagine. L’ultima volta accadde con 4321 di Paul Auster, la cui lettura coincise esattamente con questo periodo, sul finire di un anno che decretò il mio avvento fra il mondo del lavoro. Vedo me stessa in libreria stringere al petto una copia che profuma ancora di nuovo, rivedo come diapositive alcuni cortometraggi del film, e rammento quella conversazione con una mia amica di qualche tempo fa sull’idea che leggerlo non sarebbe stato necessario. It raccontava ciò che negli anni è divenuto un cult della letteratura moderna, i film erano abbastanza congeniali e ammalianti. Cosa avrebbe dovuto dirmi maggiormente il romanzo? I non lettori, banalmente, ignorano che dietro a semplici risme di carta, fogli riempiti di inchiostro appena fresco, si celino mondi. Luoghi straordinari e bellissimi che, lo dico a gran voce, io, sono fortunata a vedere. A voler vedere, osservare, scrutare a fondo, giorno dopo giorno, non lasciandomi intaccare dal giudizio di niente e nessuno, ma, nel tempo, ritagliando in questi luoghi, un posticino tutto mio. Hogwarts, il Giordan College, il Mondo d’inchiostro, nel tempo mi hanno accolta e fatta sentire partecipe a tal punto che le vite che si intersecavano fra queste storie non erano fittizie ma vere. I libri sono per me una fonte inesorabile di piacere, e odio chi esprime giudizi insensati al riguardo, inconsapevoli della meravigliosa magia che si cela. La mia è una passione che coltivo da quando avevo sei anni e le coincidenze che si sono fissate nel tempo come una specie di ponte che collega la mia anima con quella degli autori non credo sia casuale. Quasi un monumento in onore ai miei spericolati gesti di avventurarmi coraggiosamente chissà dove e con chi. Mi sono sempre piaciute le storie. Vivo di storie e di parole, e senza la mia vita sarebbe vuota come questa pagina qualche secondo prima fosse riempita.
It esplica in un certo senso tutto questo. In soldoni, mi è piaciuto ciò che ho visto e vissuto fra le sue pagine, mentre il mondo proseguiva nel suo banalissimo percorso, e per qualche ragione aveva risucchiato anche me. Risucchiata a tal punto da indurmi a non poterlo dimenticare. Mai più. Come i Perdenti, i ragazzi di un piccolo club, i veri moventi per cui It si muove e si accanisce su chiunque incappa disgraziatamente nel suo cammino, e qualche giorno dopo la sua lettura necessitai di qualche momento per mettere in ordine le idee. Fissavo un punto dinanzi a me, ma con la mente ero ancora a Derry, quell’isolotto impregnato di magia in cui il tempo sembra essere sospeso, la realtà cozza con i ricordi che lacerano da dentro, costruendo quel filo invisibile che ha riempito il mio cuore. Avrei continuato a lungo, avrei letto altre mille pagine, se fosse stato necessario. Non avrei voluto abbandonare tutto questo, ma, alla fine, ho dovuto accettare di essere giunta alla fine di un qualcosa a cui non ci sarà un effettivo rimedio – crescerà dentro la nostra anima, si espanderà come un tumore, fagociterà le nostre fragili membra -, e resteremo colpiti dall’idea che un semplice pagliaccio aveva mosso le paure di chiunque. Non le mie, lo confesso, che tornano a galla solo se veramente forti e sentite, ma quelle di chi la accoglie come forma espressiva mediante cui ci si nasconde o protegge dal prossimo, in cui però prevale il coraggio e il desiderio di redimersi da qualcosa di nefasto o nocivo. Affondando le sue radici nella spiritualità, nel modo a cui si attribuisce qualcosa di orripilante, espandendosi fra orrori inquietanti e drammi umani senza speranza i cui temi divennero nel tempo un marchio dello stile dell’autore: la forza della memoria, la profana incisività dei traumi infantili, la grettezza e la violenza come masse appiccicose e gigantesche che prendono << vita >> solo mediante l’introspezione dei personaggi.
Non si muore tanto facilmente, ma nonostante poi ciò accade non si può non combattere, né porre fine a qualcosa di assolutamente imprevedibile. Ciò che mi ha più colpito fra queste pagine non è tanto la presenza dello stesso It, entità definita come la Madre di tutte le cose, quanto il messaggio che si cela dietro. Quanta attenzione bisogna porre quando si è bambini? Non bisogna mai abbassare la guardia, checché sei un bambino, un adolescente o un adulto. Ma quando sei giovane, vulnerabile, inconsapevole, quanta attenzione bisogna porre al mondo circostante? Soprattutto quando sei solo, soprattutto quando inevitabilmente si attacca qualcosa che sembra non voler lasciarti in pace. Ma il risultato è ottimale. Sia quando a muovere i fili sono bambini, adolescenti, sia quando trascorrono gli anni e scopriamo la banda dei Perdenti con ferite dell’anima che non riusciranno mai più a curare. Quale sarebbe stata la cura?
Sono rimasta intrappolata in questo isolotto per una ventina di giorni, ed ero priva di esperienza eccezion fatta per qualche romanzo letto in passato; ma rivelatasi assolutamente bellissima, esperienza che vorrò ripetere prima o poi in futuro. Ho sfuggito alla morte per miracolo, sono rimasta invalida, sanguinante, dilaniata, sbigottita e impossibilitata ad andarmene, invitando ogni giorno la mia coscienza a valicare i confini di un luogo in cui non avrei voluto più far ritorno.
Non mi sono state impartite lezioni di fondamentale importanza. Solo esplicare forme espressive mediante cui ci si nasconde o protegge dal prossimo, dal Male assoluto, in cui la lotta inesorabile per la sopravvivenza trascina dalla morsa dell’incubo, mette in risalto il labile confine fra ciò che è necessario e libero arbitro, memorizzando ogni loro mossa quasi un pulsante si azionasse dentro di me, trasformandosi in una presenza corporea.
Ripenso alla storia, ancora una volta, mentre ripongo queste poche righe e rammento a quando tutto ebbe inizio. Di Stephen King vorrò leggere sicuramente tanto altro. Non so se riuscirò a stargli dietro, ma qui, accanto a me, Le notti di Salem strizzano l’occhio quasi un invito a non lasciare andare questo mondo. Perlomeno, non ancora. E tutto sarebbe andato bene. Avrebbe acquietato il mio spirito, rinvigorito la mia anima ancora dilaniata dalla mancanza di qualcosa che mi ha trapassato il cervello come una pallottola. Venti giorni che mi sono sembrati vent’anni, sbigottita al pensiero di come il tempo sia volato, domandandomi se forse questa era la storia adatta nel momento più adatto.
Una recensione che non è un vero e proprio parere critico, quanto una dichiarazione d’amore nel ricordare una storia che altri non è che derivazione dal pozzo buio e oscuro delle nostre paure. Pensieri che si sono affacciati alla mente come piccoli rimasugli, inghiottendo ogni colore, ogni forma che solo la melodia che sprigioneranno queste parole porterà in vita.

Valutazione d’inchiostro: 5

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Titolo: Il circolo Pickwick
Autore: Charles Dickens
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 16 €
N° di pagine: 1040
Trama: Pubblicato nel 1836-37 da un autore poco più che venticinquenne, Il Circolo Pickwick è un capolavoro assoluto dell'umorismo, che riscosse fin dal suo primo apparire uno strepitoso successo. La trama, intessuta di innumerevoli episodi, è poco più che un pretesto per mettere in scena una miriade di personaggi, tra cui rimane indelebile nella memoria del lettore il protagonista Pickwick, con la sua faccia tonda come una luna piena e la sua meravigliosa, infantile, gioiosa ingenuità. Come scrive Chesterton nell'Introduzione a questo volume "Dickens non si è fatto scrittore affinché le sue creature copino la vita e ne ricopino le ristrettezze; egli è scrittore perché esse abbiano la vita, e sia una vita sovrabbondante. [...] Il signor Samuel Pickwick è il principe delle favole, la creatura per metà umana e per metà fatata sorretta da quel barlume di divinità che nell'ora più nera gli ricorda che è destinato a vivere felice per tutta la vita. [...] Egli avanza nella vita armato di quella divina facondia che è la chiave di tutte le avventure".

La recensione:

 

Vi sono ombre scure sulla terra, ma le luci sono più forti per contrasto. Certi uomini hanno occhi migliori per le tenebre che per la luce.

 

Non seppi mai bene quale fosse l’incentivo, il culmine per cui un romanzo gigantesco come questo giunse nel mio personalissimo cerchio solo adesso, sul finire dell’anno, se la vita o il Caso non mi avesse messo dinanzi a delle sfide. O se accadde tutto nello stesso momento, quello cioè in cui sentì l’esigenza di tornare nell’Inghilterra vittoriana di Dickens, il frusciare di pagine che profumano ancora di nuovo e della musica jazz in sottofondo intorno a me, un sibilo seguito dalla voce altisonante e cantilenante dell’autore, o una canzone e un invito, ma comunque successe tutto in fretta, e nel giro di due settimane quel momento tanto agognato quanto sperato avvenne ed io diventai membro del circolo Pickwick. E ci restai, vi soggiornai per un bel po' di tempo. Più di quel che credevo, due intensissime settimane, che nel silenzio delle mie riflessioni mi invitò ad entrare ed analizzare i miei pensieri e quelli dell’autore e sperare che la magia sprigionata in queste pagine non fosse mai smorzata.
Capì fin da subito che lasciare tutto questo, salutare questi gruppi di uomini che nonostante avessero toccato – innumerevoli volte – abissi di declino così netti, divennero pagliacci, ridicoli, alcolizzati e destabilizzati dal vizio e dalla mente, nonché emblema di errori e debolezze umane. Questo circolo, infatti, era la linfa vitale, l’essenza attraverso cui si muovono tutte le cose e che, con nient’altro viaggi ed ambiziose avventure, si impegna ad osservare scrupolosamente e a riportare ogni dettaglio relativo, festosi a partecipare alla gloria di scoperte umane. Detentori di una certa autorevolezza, che se non ben gestiti potrebbero affievolirsi strada facendo, che inducono a fuggire alla vista di mondi odiosi, ostici, inavvicinabili su cui gravano insormontabili fardelli. Mr Pickwick e i suoi << amici >>, alla fine, rappresentano l’individuo inglese, burlone e anche un po' ignorante che tuttavia si impone di diffondere il progresso, la notizia, sollecitando la sofferenza altrui, distribuendo la buona novella come un atto di redenzione accresciuti dalla bellezza delle arti, il bisogno così famigliare di conoscere chi siamo e cosa ci circonda.
Era diventato problematico tutto questo! La gente che assembrava la carrozza su cui io e il signor Pickwick viaggiammo diveniva sempre più pesante, zeppa, la nostra attenzione perennemente richiesta mediante racconti avvincenti e coinvolgenti, e a quanto potei capire niente che esulasse dal terrore di incorrere nella miseria vera e propria quanto dinanzi alla morte. Un po’ intimoriti, in effetti, ma non nel panico, quanto rassegnati che la vita gli avesse regalato qualcosa di così incauto e ingiusto, il tono non proprio esuberante e festaiolo ma attraverso cui l’autore snellisce con venature sarcastiche, quasi ironiche che risuonava contro le pareti della mia stanza. La trafila di disgrazie e conseguenze cui si troveranno disgraziatamente incappati i personaggi dickensiani, qui, fortunatamente saranno quasi inesistenti, che, come qualcosa di inaspettato e inatteso caduto dal cielo, una cometa luminosa sfrecciò nella città, accrebbe il mio interesse. Questo fu il primo romanzo che l’autore scrisse, quando aveva appena ventisei anni, e già coinvolgente e bellissimo fu una prova letteraria coraggiosa e intraprendente che fortunatamente lo indussero poi a stare allegro. Più avrebbe scritto, più i lettori avrebbero potuto amarlo, leggerlo, viverlo. Come io, ad esempio, che ho già letto qualche suo romanzo, ringrazio la mia buona stella di doverne leggerne tanti altri, anche se libri nuovi da leggere non se ne ha mai abbastanza e la pila della vergogna che è quasi svanita presto o tardi ricomparirà. Sì perché mi considero fortunata ad essere ancora una novellina in questo campo, non soltanto con un mucchio di pagine ancora da scoprire ma rinchiuso in forme di coesione in cui la mia anima entra in contatto con quella dell’autore.
Fra fantasmi impegnativi, fannulloni, rozzi, pusillanimi, inquieti che tintinnano e vagano in un mondo vano e superbo impegnandosi a incamminarsi come chi ha una meta precisa ma che alla fine finisce di camminare allo stesso passo e nello stesso posto strisciante come un ozioso fannullone. Un certo prestigio, una certa eredità è ciò a cui si aspira principalmente, ma una volta toccato il fondo ci si avvale di decine di individui che respirano affettuosamente sotto il duro lavoro; una curiosa sequenza di scenette che giudicano l’uomo non per le qualità che possiede bensì per i soldi in tasca che tiene, di cui la stessa vita è un gioco messo all’asta in cui la società si poggia mediante forme di millanteria o imbrogli che svaniscono nel momento in cui si combina qualcosa di buono. Una disamina selvaggia dell’Inghilterra deceduta grazie al lavoro rallentato, la gelosia, i pregiudizi, l’incapacità di opprimere le istruzioni a porci delle domande su quegli impulsi che non disgustano gli altri. Le delusioni riscontrate inducono a diffidare del prossimo, nonostante l’uomo è padrone di se stesso e può fare piani e progetti. È una brulicante, prodigiosa realtà in cui la brama sognante di nuove prospettive nella bruma della vita appaiono allettanti. La società moderna va a muoversi sotto tutt’altra direzione dovuta da una serie di fattori: la rapida evoluzione delle strutture economiche, sotto la spinta di sguardi, invenzioni, la dissoluzione di principi morali, religiosi che avrebbero favorito l’evoluzione di nuove forze indirizzate ad un benessere materiale e la delegazione aggressiva di una piccola borghesia all’interno del quale si imposero certe tendenze egoistiche che si imposero mediante lo sfruttamento del prossimo.
Dal tono meno grave e severo di Oliver Twist o Nicholas Nicklei e qualche altro, Il circolo Pickwick descrive nel miglior modo possibile una serie di eventi politici e sociali che tengono nel suo grembo una serie di sfaccettature che richiamino il riconoscimento dei diritti del popolo. L’egoismo è quel male assoluto che bisognerebbe estirpare e che mista a una buona dose di superbia, avarizia, rendono il romanzo esperimento letterario di forme distorte di felicità. Nonostante gli innumerevoli tentativi, alla fine sarà impossibile redimersi da ciò che è stato fatto, da ciò che il destino ci ha riservato, ma ogni voce – più testarda di tutte – più chiuse in se stesse, cozzano con quegli idiomi di tranquillità a cui ingenuamente si aspira, più restii a muoversi se qualcosa o qualcuno li avrebbero travolti. Meno duro, sprezzante e crudele, romanzo picaresco che riporta con un certo fervore acute e personali osservazioni dell’autore di una società cordiale e umana, prima che essa fosse proiettata nei suoi meandri cinici, che poggia sulle diversità, sulla differenza fra ceti sociali benestanti e non, fuggendo alla vista di mondi odiosi, ostici e inavvicinabili Ci pone dinanzi a una storia che dà spazio non solo al mondo visibile degli esseri senzienti e degli oggetti inanimati ma anche vaste e misteriose forze inosservate che si celano dentro questo mondo. Dickens a modo suo ha ritratto qualcosa che ancora non era stato visto, nonostante fosse costantemente sotto gli occhi, facendo riflettere e ribaltando qualunque forma di evoluzione, sabotando le menti e facendo danzare gruppi di figure intrappolati in un vortice di corruzione a cui disgraziatamente non ci sarà fine.

Valutazione d’inchiostro: 5

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Titolo: Il duca
Autore: Matteo Melchiorre
Casa editrice: Einaudi
Prezzo: 21 €
N° di pagine: 464
Trama: L'ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano piú a nessuno, sembra distante. L'ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca». Sospeso tra l'incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire. Ci sono libri che fin dalle prime righe fanno precipitare il lettore in un mondo mai visto prima. L'abilità dell'autore sta nel mimetizzarsi tra le pieghe della storia, e fare in modo che abitare accanto ai personaggi risulti un gesto tanto istintivo quanto inevitabile. È quello che accade leggendo Il Duca, un romanzo classico eppure nuovissimo, epico e politico, torrenziale e filosofico, che invita a riflettere sulla libertà delle scelte e la forza irresistibile del passato. Con una voce colta e insieme divertita, sinuosa e ipnotica – inusuale nel panorama letterario nostrano – Matteo Melchiorre mette a punto un congegno narrativo dal quale è impossibile staccarsi.

La recensione:

Non ho la presunzione né alcun potere nel dire che, leggere, valicare confini di cui non credevo possibile, possa condurmi in qualche posto specifico. Non cerco strade o desidero raggiungere obiettivi o traguardi, ma delle volte i libri mi regalano delle belle sorprese, un gran bel lavoro che mi rende contenta, entusiasta. E quest’anno, devo dire che la maggior parte dei romanzi letti e vissuti mi ha donato tali sensazioni. L’ultima coincide col periodo che dedicai alla lettura di questo romanzo, che non dispensa alcunché di straordinario e memorabile, ma cresce come un piccolo bocciolo in poco tempo.
Una piccola fortuna quella di incontrare l’autore lungo il mio cammino, e poi la bellezza di una cover che dice tutto e niente che capitò all’ultimo momento, sul finire del mese di ottobre, l’occasione di vivere la storia di un duca in una regione remota dell’Italia, forse in un periodo che ho protratto consapevolmente, all’inizio sembrava impossibile, con il mio perenne stato di diffidenza che costella i miei approcci letterari che quasi sempre si rivelano poi grandissime ciofeche e gli innumerevoli ripensamenti che bussano forsennatamente alla porta della mia coscienza, se non che, quando giunse il momento perfetto, io ancora non lo avevo capito. Ero già atterrata nella fatiscente villa in cui riposa silenziosamente il duca, le cui fragili membra sono disposte in una lunga e confortevole chiosa longue, seguendo ogni sua mossa, fornendomi però ancora ben poche informazioni per mettere fine al calvario delle perplessità. Adesso che tutto è finito di questa lettura serberò un bel ricordo, dato che Melchiorre mi ha stupita, incuriosita ma non infervorato come credevo intrappolandomi in una dimensione temporale molto simile a quella dei classici che amo particolarmente, sospesa fra spazio e tempo, ciò che è tangibile e ciò che non lo è. Qualcosa di talmente sfuggente e inafferrabile che nel richiamo costante del passato, recide qualunque speranza di beatitudine eterna. Perché niente dura per sempre, pur quanto ci si nasconda nel passato, scivolandoci inesorabilmente addosso, con una lentezza tipica di questo tipo di romanzi a stento misurabile. Quasi un fuoco fatuo, esitante che trasmette una certa malinconia, così seducente e ingannevole, che mi ha risucchiata completamente, in frammenti di luce e gomitoli di ombre in cui l’eterno riposo e l’ostilità del prossimo fanno i conti con la realtà circostante.
Non mi ha resa euforica il mio stare lì, fra le sue pagine. Non perché il romanzo non mi piacque o non soddisfò completamente le mie aspettative, ma perché poggia maggiormente sulla costruzione di questo mondo, con le sue antiche e fatiscenti mura, una carrellata di simbolismi che coincidono con gli stati d’animi dei personaggi, intrappolato nel tempo, dibattendosi fra liti e discordie garante di buone o cattive prospettive per il paese. Questo duca sotto le mentite spoglie di un conte di Montecristo, che, come un piccolo super uomo, non tiene conto degli errori che può commettere né delle conseguenze delle proprie azioni, è prigioniero di sé, impossibilitato a muoversi se non agognando la libertà.
Quasi un viaggio ricco di ostacoli che si è districato ai miei occhi mediante uno stile ricercato, quasi arcano, che affonda le sue radici nella bellezza della natura, in forme bellissime di negligenza sperata nei cuori di chi rifulge a un tipo particolare di cattiveria. In un meccanismo linguistico che ritrae un bellissimo affresco architettonico in cui vigono i continui lamenti delle vite di povere creature dall’esistenza grama, meschina e stentata.
Il duca è stato qualcosa di così stinto, affilato in cui ho dovuto dibattermi continuamente in una faida lunga da secoli che mi ha incuriosita e intrigata, la mia anima sognatrice e romantica non ha potuto non riflettersi in tutte le problematiche che il protagonista sarà costretto a subire, dove niente sembra lasciato al caso o alla libera scelta di una dinastia. Infiltrata fra le pagine di uno spettacolo mobile, variopinto di sfumature in cui ho visto la vita di questo giovane prendere il volo attraverso una felicità mancata, distrutta per una certa causa, una fatalità inaudita, un destino ineluttabile
Mi sono imbattuta in queste pagine riuscendo a cogliere la bellezza, la forza, il coraggio, l'orgoglio di questo angelo tramutato in diavolo nel cui animo imperversano bufere. Bufere lussuriose, estetiche, tremende e spaventose.
La mia anima era stata riempita da qualcosa che, fra una schiera di gente umile, sola, passeggera come bianche nuvole, messi da parte perché considerati privi di emozioni, mi hanno permesso di ritagliarmi un posticino tutto mio.
Pervaso da una strana magia che mi ha permesso di accettare la storia che Melchiorre si porta dentro, ha reso il tutto come una serie di opportunità in cui la libertà individuale e di pensiero sono i capostipiti dell'intero romanzo. Fra forme e colori che hanno avuto una loro collazione, nitido e luminoso come la luce accecante del sole.

Valutazione d’inchiostro: 4

2 commenti:

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