domenica, settembre 28, 2025

Sette gocce in sette giorni: 9°

Quella vissuta fra le pagine di queste storie è stata una delle esperienze letterarie che di certo un lettore attento e scrupoloso dovrebbe serbare gelosamente nel cuore, interrotto soltanto dalle imposizioni della vita. La musica è motivo di grande orgoglio, atto simbolico che significa molte cose. È, prima di tutto, un alimento poetico per l’anima: arduo in certe occasioni, evocativa per altre, altri romanzi, altri autori.

Componente fondamentale che contraddistinguono quella particolare magia che ha a che fare con la melodia che scaturiscono certe storie, segno di individualità la cui tonalità si è prefissata diversa a dispetto di quella imboccata da altri autori. E, pur quanto semplici e non troppo impegnative, le loro storie hanno espugnato una certa analisi, attenta e dettagliata sull’individuo, il suo essere limitato e imperfetto in un mondo infinito, un funambolo che cammina lungo il sentiero insidioso della vita come un anima vagabonda lasciata sola nell’immensità del cosmo. L’assenza di suoni, il dramma di tanti e pochi, mi colpì come una cosa concreta, negativa, con una certa mancanza di rumore, col silenzio interrotto esclusivamente dal lieve fruscio delle pagine.

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Titolo: La libreria sulla collina

Autore: Alba Donati

Casa editrice: Einaudi

Prezzo: 17 €

N° di pagine: 200 

Trama: Un libro magico, che racconta un luogo magico, che esiste davvero. Una libreria microscopica in un paesino sperduto sulle colline toscane, ma portentosa come una scatola del tesoro. Dai bambini che entrano di corsa alle marmellate letterarie, da Emily Dickinson a Pia Pera, le giornate nella Libreria Sopra la Penna sono ricche di calore, di vite e storie, fili di parole che legano per sempre: una stanza piena di libri è l'infinito a portata di mano. Non è mai troppo tardi per realizzare un sogno. Nel dicembre 2019, Alba Donati decide di cambiare vita e aprire una libreria a Lucignana, poche case sull'Appennino lucchese. Lo fa grazie a un crowdfunding e al passaparola sui social. Da subito la libreria, una sorta di «cottage letterario» immerso nel verde, diventa un luogo di pellegrinaggio, di parole in comune, di incontri speciali. In questo diario che abbraccia sei mesi di vita della libreria – l'incendio che la distrugge dopo un mese dall'apertura, l'energia delle persone che la rimettono in piedi, la chiusura durante il lockdown, fino all'organizzazione di un festival letterario – c'è il racconto di una passione che è leva per sollevare il mondo. Con leggerezza e intelligenza, Alba Donati regala al lettore un'esperienza perfettamente in linea con la missione della sua libreria: mettere in pausa la frenesia delle nostre giornate, lasciarsi cullare dal conforto di piccoli gesti di cura, seguire il filo che unisce libro a libro, sentirsi parte di una comunità. Fare la libraia oggi significa anche ingegnarsi per far tornare i conti, leggere di notte, pensare lo spazio come un rifugio e un presidio culturale, raccogliere gli ordini a fine giornata come sassolini che indicano la strada. E in questa vita da libraia felice e resistente, nel suo senso di «casa», nelle sue scelte controcorrente, nella storia della sua famiglia di irriducibili, c'è tutta la caparbietà di cui sono capaci le donne, e insieme l'amore per le storie, quello di chi vuole farle conoscere e circolare. Questo è il libro che sognano tutti i lettori: le pagine che leggiamo si mescolano a ciò che ci accade come in un grande diorama aperto, perché le parole dei libri sono parte del nostro alfabeto. Venduto già in dieci paesi. Il caso letterario dell'ultima Fiera di Francoforte.

La recensione:

C’era una ragazza recisa dalla vita… e anche dalla morte. In perenne lotta fra la ragione e i sentimenti, ciò che è possibile e ciò che non lo è… sembrava l’ennesima storia di rinascita. Lo era? Forse un pochino, si. E la mia attenzione, seppur credeva di poter esserne ammaliata, non ne è rimasta attratta completamente, quanto compreso perchè sino ad ora avessi snobbato - anche se non volutamente - questa storia.

Senza gli innumerevoli pregiudizi, dubbi o perplessità che sorgono ogniqualvolta mi approccio ad un nuovo autore, ad una nuova lettura, certe esperienze si rivelerebbero dei veri e propri insegnamenti. Ma dall’esperienza ho compreso che talvolta è bene dare voce a chi non ha avuto/ non ha voce, proiettata in un epoca così cinica e crudele. Per questo motivo non mi tiro mai indietro quando decido di approcciarmi ad una storia all’italiana e i loro autori bussano alla mia porta. Alcuni anni fa accettavo tutto questo con un certo entusiasmo. Poi l’esperienza mi ha indotto ad aprire gli occhi, e comprendere come di letteratura, quella con la L maiuscola, le librerie pullulano di una voce prorompente e altisonante dalle mensole degli scaffali. Non perché sia divenuta nel tempo cinica, diffidente, - beh, forse si. Un pochino - quanto perchè di vita ce ne è stata concessa una sola, e perdere tempo dietro a certe cose è un’opportunità mancata di accogliere nel nostro cantuccio chi è meritevole di attenzioni. Con questo non voglio di certo dire, nè tantomeno ho la presunzione di farlo, che la storia che la Donati si porta dentro non sia meritevole di attenzione. Ma per una lettrice come me, che confidava di coglierne la sua essenza - trovare il bandolo di questa matassa da cui l’autrice fu spinta a << costruire >> questa libreria -, il colpo incassato dell’insoddisfazione è stato l’ennesimo. Quanto sembrava come l’ennesimo monito alla mia anima semplice e appassionata che si lascia quasi sempre contagiare dal tono drammatico, profondo, estremamente tragico di svariate opere della letteratura, e poi non riesce ad ascoltare, a cogliere, la voce altisonante del loro cuore. Forse una nuda parete di cemento sarebbe stata più loquace!

Un periodo più tragico e indimenticabile come quello del Covid, crepe che sono state aperte in un mondo che non ha alcun riverbero, quanto perennemente ombrato da nuvoloni grigi e ingombrante, un ritmo semplice ma serrato, il tutto estremamente amplificato da sentimenti, emozioni, i supplizi della simmetria di un mondo disadorno, squilibrato attraverso il quale l’autrice si è dilettata a esplicare la vera anima dell’intero romanzo: la sua lotta incessante fra Bene e Male.

Avvezza a saperne cogliere ogni cosa, ogni messaggio scritto, ogni parola detta e non detta, questo romanzo ha avuto la parvenza di essere stato concepito come un’accozzaglia di frasi sussurrate nel bel mezzo del nulla che ripone in pagine di diario di cui lei, e solo lei, è custode. Io, che vivo di parole, fu così che non ho potuto vivere in questo suo mondo imperfetto, incapace di condividere ciò che si porta dentro, a comprenderla completamente, integrarmi pur di comprendere ogni cosa, diventare qualcuno, sorda al canto altisonante di un mondo che svaniva sul palmo delle mie mani. E nemmeno l’amore per la letteratura, così misurato e discutibile, procura smarrimento, una certa dispersione di voci, suoni e parole che nel tempo, negli anni ho letto anche io, e fagocitato, vissuto, respirato.

Il racconto di vita di una giovane libraia sordo alle mie orecchie. Qualcosa che avrebbe potuto essere potente, altisonante come il messaggio che dovrebbero custodire i suoi clienti, che non sembrano nemmeno poi così affascinati da quelle risme di carta così allineati sullo scaffale, zeppe di storie dai colori più sgargianti. Relitto di un disegno tutt’altro che stuzzicante, di un destino ignoto, unito alle reticenze del Destino.

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Lo squalificato

Autore: Osamu Dazai

Casa editrice: Mondadori

Prezzo: 12, 50 €

N° di pagine: 120

Trama: Tre quaderni di memorie e tre fotografie. È tutto ciò che serve per raccontare la vita tormentata e dissoluta di Yōzō che, nel Giappone dei primi anni Trenta, vive diviso tra le antiche tradizioni della sua nobile famiglia e l'influenza della nuova mentalità occidentale: una lacerazione che fa di lui un individuo "squalificato". Incapace di comprendere gli altri esseri umani, soprattutto le donne, o di tessere relazioni autentiche, fin dall'infanzia Yōzō azzarda un'inutile riconciliazione con il mondo, finendo poi per nascondere la propria alienazione dietro una maschera da buffone e in seguito per tentare il suicidio. Senza cedere per un attimo al sentimentalismo, Yōzō ripercorre i fallimenti, le meschinità della propria esistenza, con fuggevoli lampi di tenerezza. Grande classico del Novecento, tra i libri giapponesi più letti e amati, Lo squalificato (1948) – qui tradotto per la prima volta dall'originale giapponese – esercita tuttora un fascino che va ben oltre le inquietanti similarità tra la vicenda narrata e la biografia dell'autore. Solo il genio letterario di Dazai Osamu, un Rimbaud dell'Estremo Oriente, poteva rendere con tale impeccabile rigore la sublime, sciagurata disperazione di un'esistenza votata all'annientamento.


La recensione:


La vita dell'uomo scorre come un fiume. Non affannarti, osserva i salici sulla riva...


La vera essenza di questo romanzo, rimane unica e sola: la solitudine, le mancate attenzioni riservate a un ragazzo debole e fragile. Inespresso e incompreso da tutti, presentato come espressione di noi stessi, espediente necessario pur di sopravvivere, ma repentino e sconcertante che ha sollevato un polverone di domande, quesiti o interrogativi di cui non si avrà una risposta decisiva se non alla fine, - anche se non proprio – dando così vita a un quadro prettamente realistico, insano, le cui tonalità hanno dato vita una policromia di colori. Ho così avanzato furtivamente in mezzo a questo caos, a questa schiera di anime manovrate da un giovane uomo, all’epoca, indotta a perdere il senso del tempo e dello spazio, la sua anima invase me, le note che sprigionano queste pagine sembravano avessero preso forma dal nulla, come qualcosa di fluttuante, in cui ogni cosa tutt’attorno diventa il pianto di una coscienza sensibile. Sebbene il lettore è consapevole, sin dal primo momento, quali siano le colpe che macchiano il protagonista e la sua anima, la storia che Osamu Dazai si portò dentro comprese onde di drammaticità e compassione che si mescolarono alla sua voce.
Ciò che ha dato una forma al tutto è certamente stata la sua essenza, una buona introspezione ritratta sulle pagine come << centellinando >> ogni nota musicale. La scelta di queste parole non a caso. Originale e di forte impatto; sembra si tratti di un pezzo di storia dimenticata ed estrapolata dal nulla, per caso, poiché il tempo ha coperto ogni cosa. Una storia che insegna a non girovagare mai, con spensieratezza, fra i meandri più oscuri della mente umana né avanzare verso un baratro e non scorgere più la luce, quando ci si macchia di crimini che non ci appartengono ma che cambiano la vita con l’irruenza dei sogni. Sprofondata in un baratro buio da cui ancora deve scorgere la luce, consapevoli solo dell’inizio della sua storia che non dà alcuna via di scampo. Invitandoci a percorrere questa storia avvicinandoci a tentoni verso suoni, voci confusi, sconvolgendo in un certo senso il mio universo personale.

Letture di questo tipo, quelle cioè che sconvolgono il mio universo personale, si attorcigliarono ai bordi della mia anima e filtrato nell’aria che circonda il mio corpo, e il piacere di essere sorpresa, guidata dalla voce soave di un giovane lettore/ lettrice, e poi il piacere di scrivere, porre nero su bianco qualche riga, sapere che in una manciata di ore o minuti hai donato un sorriso, allietato cuori sensibili e non, cosa che in qualche modo prolunga l’intimità che si instaura fra lettore e autore. 

La storia che ho letto, sebbene sia trascorso qualche giorno ma che quest’oggi mi porto ancora dentro, nel riviverla mediante scrittura, detronizza i miei falsi pregiudizi a considerare buchi nell’acqua certe tipologie di lavoro.

Quello che non mi aspettavo è che, questo lavoro, fosse così egregio, eccellente dall’ultima volta che lessi un romanzo di letteratura nipponica che, a eccezione del mio amato Murakami, produce e induce il mio spirito a sospiri e perenni sbadigli. Ma Lo squalificato mi aveva colpita, inorgoglita di condividere le stesse ansie e paure del protagonista, facendo il possibile per accoglierlo nel miglior modo possibile. Buttandomi così con un certo fervore in un vortice di attività produttive. Quando la voce giovane ma indisponente del protagonista iniziò a parlare e finì qualche giorno dopo, rivelandosi qualcosa che mi ha contagiata, turbata per qualche istante, incuriosita, senza che ci fosse alcun beneficio di dubbio o perplessità, il processo di lettura mi aveva sorpresa a buttare giù qualche riga nel mio taccuino, estrapolato idee, pensieri e constatato la validità di questo romanzo. L’effetto che aveva scaturito su di me.

La solitudine, tema che scinde ogni cosa, ma anche l’alienazione, l’impossibilità di non poter essere compresi, di fuggire, quanto essere rinchiusi in una solida cella in cui scorgere la luce è davvero impossibile,che non funge tanto quanto come forma di recriminazione quanto di disamina di quelle forme di vita << affette >> da questo genere di malattia che all’opposto della tranquillità mentale a cui inconsapevolmente aspira chiunque di noi, mi fece riflettere molto. Apparve nel mio cerchio personale come un faro nella notte, un’idea estrapolata dal nulla che prese poi vita in nient’altro che parole, frasi, notizie stantie e non che radunano un marasma di sensazioni altalenanti, riflessioni importanti su ciò che è fondamentale per l’individuo, ( la qualità ottimale con cui l’autore) mescola il tutto, in un poema di vita ma anche di morte, un racconto in cui chiunque può riconoscersi. Alle volte che non ho compreso, non il racconto quanto il comportamento dello stesso protagonista la cui velleità ha un che di solenne e profetico, in cui mi sono mentalmente dibattuta per esortarlo a combattere ad allontanarsi da questo terribile baratro in cui era sprofondato. Ōba Yōzō aveva un  bisogno disperato di nuova linfa e una bellissima distrazione, misteriosa e imprevedibile, sarebbe stato un passo nella giusta direzione. L’amore, le innumerevoli relazioni sessuali leniranno in parte i dolori della sua anima, ma, dotato di un realismo straziante, tenero ma non sentimentale, profondamente umano, rigorosamente sincero, lirico, frammentario e dirompente, audace, di un senso di insoddisfazione disarmante, inquietante, crudele che dice molto più di quel che sembra, affonda i denti in qualcosa di cui è impossibile non essere travolti. Ogni romanzo ha una sua anima, e ogni storia ci chiama, chiedendoci di essere letta, compresa e apprezzata.

Il pomeriggio in cui ho accolto Lo squalificato, nel mio cantuccio personale, standoci dentro, mi ha fatto constatare come questa sia stata l’ennesima buona occasione per avventurarmi in una nuova travolgente avventura. In compagnia di un viaggiatore lasciato solo nell’immensità del cosmo, che grazie a un viaggio nelle profondità più nascoste del suo essere, avrà una buona occasione per riflettere sul suo destino. Sulla vita in generale. Visto da diverse prospettive, in cerca di una << cura >>, una missione che possa mettere a posto qualcosa dentro di lui. Ho ascoltato la sua storia come se l’avessi sentita da lontano, come un ricordo ripescato dalla risacca disomogenea del tempo, ho interpretato il modo in cui ha dipinto la realtà circostante, quella in cui lui stesso vive, dipingendola con modestissimi acquerelli nascosti nelle stanze buie del suo animo. Interpretando al meglio, producendo sulla carta non tanto quello che ho visto quanto l’aura lucente in cui è confinato. Un aura che, come una fiammella, lentamente si spegnerà.

Dramma di forte impatto che ha quasi connotati tragici, nonché ricerca di una strada quando non si ha la certezza di trovare una meta in cui i sogni, i ricordi, la realtà si fondono, un viaggio alla scoperta della propria identità, scovare un proprio posto nel mondo in cui si anela la felicità come l’antidoto di tutta una vita.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Chimere

Autore: J Bernelf

Casa editrice: Fazi

Prezzo: 16, 50 €

N° di pagine: 168
Trama: Nella sua prima traduzione italiana, uno dei romanzi più importanti del Novecento olandese. I coniugi olandesi Maarten e Vera, settantenni, vivono da tempo negli Stati Uniti, sulla costa a nord di Boston. Vedono raramente i due figli, Kitty e Fred, che abitano nei Paesi Bassi. La loro è una vita abitudinaria, scandita da piccoli riti: le passeggiate con il cane Robert, le visite dei vicini, le puntate al pub locale, la pizza della domenica. Il mondo di Maarten comincia a sgretolarsi quando una mattina si affaccia alla finestra e non trova quello che si aspettava: al posto dei bambini chiassosi in attesa dello scuolabus, vede soltanto un paesaggio innevato. «È domenica», gli ricorda Vera. Per la prima volta, Maarten si accorge di provare una «sensazione di momentanea assenza in piena coscienza, un senso di smarrimento, di spaesamento». Il suo primo istinto è quello di dissimulare, minimizzare, non farne parola con la moglie prima di capire perché il passato e il presente sempre più spesso si confondono e i ricordi diventano un'illusione sfuggente...

La recensione:


Fluttiamo nello spazio come particelle positive e negative, e quando due particelle si incontrano, talvolta si fondono.


L’ultima settimana di giugno, i primi giorni di caldo torrido, mi trovai in diversi posti. Luoghi sconosciuti nel quale mi sono trovata nella condizione di vestire i panni di figure recise dal tempo, dalle sofferenze della vita, e a parlare di loro autori la cui voce non era ancora giunta alle mie orecchie. A parlarmi di una di queste fu un autore che ancora non conoscevo e che con il suo romanzo d’esordio mi parlò di una storia in cui tutti possono riconoscersi. Nel complesso una bella storia. Una storia in cui mi sono riconosciuta, in parte, e che ho constatato come talvolta certe letture siano catartiche. Belle forti e dirette che contrastano la monotonia del giorno, i dispiaceri generali, smorzando la routine che talvolta sembrano prevalere su tutto, una parvenza di allontanamento alla felicità cui io non ho mai effettivamente dato peso. Perché, così come il protagonista di questa storia, sono stata indotta a guardarmi allo specchio e giudicarmi. Perché nonostante la semplicità di questo gesto, la vita spesso ci riserva rinunce a cose che si amano particolarmente, una cosa così connaturata in ognuno di noi che a volte ha coinciso col dolore fisico al desiderio di spegnere il cervello, togliere la lucidità, rimettersi in carreggiata grazie a qualcosa che lo tiri su di morale, non mollando ma mantenendo la promessa che aveva fatto a se stesso. Riconoscere la morte repentina non avrebbe servito a niente, non avrebbe impartito alcuna lezione, e questo piccolo libriccino che funge anche da saggio trasforma il tutto in qualcosa di così intenso che tanto vale la pena di seguire certi << consigli >>. Trarre esempio da certe situazioni, così vili e abiette, che elemosinano ad un atto di redenzione. Una forma di libertà che si raggiungerà mediante qualche persistente fuga mentale.

Aspirante scrittore, l’autore di questo piccolissimo romanzo rispose all’eco delle mie giornate. Non ne ero assolutamente preparata.

In effetti, accogliere un discreto numero di letture scacciapensieri, in quest’ultimo periodo, mi ha parecchio sorpresa. Non che sia restia a leggere di figli di carta la cui provenienza è sconosciuta e, altrettanto, il poco tempo a disposizone, le loro opere, fatiche letterarie che approdano sul blog di un lettore accanito in un giorno qualunque, o se non altro che ha tale parvenza, dopo tanto tempo ho avuto la << fortuna >> che seppur letture brevi avrebbe lasciato un segno del suo passaggio. Ora la disponibilità che riservo a tali opere non mi sembra più così malaugurata come credevo; ha una spiegazione, una sua logica, o sembrava averla, ma l’interessante era che in un momento imprecisato della mia vita sconvolsero del tutto il mio universo personale. Avevo ritenuto ingiusto volgere le spalle, e la loro anima sembrava trapelare qualcosa di ammirevole, da eseguire, perché non è bene vergognarsi di essere diversi, così come ammettere quando si cade inevitabilmente nel lungo baratro della disperazione in cui solitudine, sofferenze e rancore scandalizzano per la loro turbolenta natura, tuttavia felici di non essere completamente soli.

L’anti eroe di queste pagine scorrazzò nel mio cerchio personale raccontandomi la sua storia, sprazzi di una vita qualunque che nell’inutilità del giorno – quando stavo per approcciarmi ad un nuovo autore, visitare un nuovo luogo – aveva preso in gioco la mia vita annessa alla sua. In altre parole e per buona parte, mi sono riconosciuta per combinazione – per gli eventi disagevoli della vita, non per l’assunzione di droghe -, al protagonista che in una manciata di pagine era finito per essermi amico, e quando mi stabilì qui diventammo subito amici. Entrambi eravamo ignari del nostro reciproco destino, eppure eccoci qua, un uomo adulto impelagato in vicende che misurano il suo grado di forza fisica e mentale e una ragazza di trentatre anni che si ciba della scrittura e della letteratura come unica fonte di sostentamento. Travolta da un marasma di sensazioni altalenanti, semplici ma comprensivi che francamente non avevo mai considerato, sempre smaniosa di leggere storie di figure recise dal tempo o dalla stessa vita che convivono con i fantasmi del loro passato da qualche tempo e con difficoltà se ne sarebbero liberati. Semplicemente persone. Individui fatti di carne e ossa, sangue e pelle ai miei occhi belli e affascinanti, che combinò svariati elementi morali.

Probabilmente sarà stato poco semplice riportare in un simile testo una storia di questo tipo. Pur quanto romanzata, credo che ogni storia riveli un principio di verità. Forse fuori luogo e inappropriato questo mio commento, addirittura indecente, da parte mia lasciarsi andare a certe confidenze, ma fui entusiasta di leggere e condividere il peso che questo protagonista si portava addosso. Le ambiguità della vita, le sue sorprese, che sono all’ordine del giorno con altri problemi, altre questioni, difficilmente ci inducono a guardarci dentro per comprendere dove porsi nelle relazioni interpersonali fra uomo e donna e quale fascia appartenere, quelle persone che sarebbero entrate nella tua vita e quelle che invece avresti voluto avere fuori. Qualcuno con cui parlare senza timore di essere preso in giro o frainteso.

Eppure in una manciata di pagine gli sono accadute tante cose, o sembravano essere accadute così tante cose  che indussero lui e persino me a gironzolare qua e là, fra le pagine di un saggio breve ma dal contenuto intenso e significativo, dapprima come un sonnambulo, errando senza meta sul tappeto bianco ma scintillante di parole che sono state messe di traverso. L’autore, in un certo senso, discosta il velo delle apparenze, e ci rivela i segreti più intimi dell’anima umana pur di raddrizzarla, intorno al mio piccolo satellite, poi tornando sui miei passi fino al punto dove il panorama che vidi fu piuttosto realistico. In lontananza, l’eco del suo autore che in un certo senso mi ha condotta in un giro di parole ma anche fatto sprofondare nel buio, nella piega delle nostre anime. Scritto secondo i piani emotivi più credibili, quello cioè da cui si attinge l’esperienza umana, forza nel trasmettere messaggi sotto certi aspetti ignorati, affinano le << competenze >> pur di essere migliori. Come giungendo a questa conclusione? Semplice, guardandosi dentro e attorno come antropologi pronti a studiare qualunque forma di vita. E il suo magnetismo sta proprio nel suo essere capace di osservare. In maniera piuttosto semplice, affinché la vita diventi più luminosa e possiamo attribuirgli una sua importanza.

Territorio affascinante e molto molto attinente all’epoca che stiamo vivendo, questa lettura non si è rivelata come una critica né un componimento letterario. Bensì una certa competenza diretta che è stata messa in pratica con coraggio e trasporto di cui il suo autore ha trasgredito alle regole della << normalità >> ponendosi delle domande, delle situazioni a cui dovremmo dare una risposta. Non su cosa è giusto o sbagliato, l’assunzione di droghe e oppiacei, ad esempio pur di lenire i << dolori >> dell’anima e dello spirito, come miglior beneficio, bensì su qual è il significato intrinseco d’identità.

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

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Titolo: Quando sei tra i corvi

Autore: Veronica Roth

Casa editrice: Mondadori

Prezzo: 18, 50 €

N° di pagine: 216

Trama: Il dolore è la vocazione di Dymitr. La sua famiglia appartiene a un'antica stirpe di cavalieri che sacrificano la propria anima per poter uccidere i mostri che popolano il mondo. Ora è chiamato a un'altra missione, più rischiosa, forse mortale: trovare la leggendaria Baba Jaga. Ma per riuscirci sarà costretto a stringere un'alleanza proprio con una delle creature che ha giurato di cacciare. Il dolore è l'eredità di Ala, una zmora abituata a cibarsi della paura degli umani. Ormai non le resta altro che arrendersi alla maledizione che l'ha colpita anni prima e che, insinuandosi nelle sue giornate, le sta rubando la vita, attimo dopo attimo. Quando Dymitr le offre una cura in cambio del suo aiuto, non ha molta scelta né molto da perdere. Insieme, costretti a una corsa contro il tempo, dovranno affrontare un mondo sotterraneo insidioso. Eppure saranno i segreti di Dymitr - e le sue vere motivazioni - ciò che potrebbe davvero mettere a rischio la loro missione. E la loro vita.


La recensione:

Perché quando leggo romanzi di questo tipo il cuore prende una strada tutta sua? Non lo so. Forse perché i suoi personaggi fanno parte di una storia che “intendono” rispettare la promessa di regalare una bella storia, perché talvolta leggere libri come questo desiderano trasmettere, regalare qualcosa? Forse un tantino ingenuamente, ma, un tempo, quando ero adolescente, cadevo facilmente in certe trappole. Specialmente se, certe strategie letterarie, erano intessute dai miei autori preferiti: avrei amato ogni cosa, letto persino la loro lista della spesa. Avrei salvato il salvabile e reso indimenticabile. Ma alla veneranda età di trentatré anni non riesco più ad accontentarmi, e di romanzi fantasy apparentemente semplici, realistici, introspettivi in cui si è disposti a sorbirsi qualunque sacrificio o rinuncia pur di raggiungere ambizioni, progetti o scopi vari, custodi di segreti e ardue scelte, rinunciando ai miei ideali e fare letteralmente un tuffo nei meandri di una storia che possiede tante chiavi di lettura, ma che fa acqua da tutte le parti, è stato il rinvio a progetti in corso attuati da inizio anno, che ha però alleggerito il tono di poemi onirici o drammatici che ti inducono a volgere le spalle a qualsiasi cosa o persona hai dinanzi, poiché completamente sospeso in attimi di vita quotidiana che hanno la durata di un battito di ciglia, e che l’autrice risolve alcune discrepanze con rituali antichi, vecchie tradizioni o leggende tipiche dell’America.

Il progetto inizialmente nebuloso di avventurarmi per mare fra le pagine di una storia che aveva suscitato in me un certo fascino sin dal principio, consolidava un’idea di appropriato che si sposa al dramma e al tragico. E devo riconoscere che questo è l’elemento primordiale per cui mi sono avvicinata nuovamente, a distanza di così tanti anni, all’autrice della saga di Divergent la cui voce - così lontana da dove è adesso racchiusa, in una falda del mio cuore -  fu così limpida che ancora una volta non ho potuto resistergli, soprattutto nel momento in cui i suoi figli di carta iniziarono a parlare, anzi a muoversi, scoprendomi così incapace di resistergli.

Estrapolato da un evidente segno di alterazione fra due mondi, quello cioè della realtà e quello della fantasia, la Roth mi travolse mediante possibilità che questa lettura fosse avvolta come in una patina di certezze, lotte ambiziose che possano soppiantare ogni cosa, dando vita a qualcosa di originale e nuovo. Eppure, pur quanto le accurate documentazioni, non sono riuscita a non stancarmi, dopo qualche pagina di troppo, nel bel mezzo di un caos fantasmagorico di voci e suoni che inizia dal nulla e finisce nel nulla, in un coro di voci altisonanti - fin troppo altisonanti - e un mucchio di personaggi incapaci di sovvertire ogni cosa, l’istinto di autoconservazione che è più forte del coraggio. Fin troppo rumorose per spiccare nel bel mezzo della massa di entità che giungeranno in un luogo sconosciuto dell’America per destare il potere, la capacità dell’uomo di ottenere quella libertà tanto agognata quanto straordinaria. Godendo così di ogni attimo di vita, della sua discendenza, quanto la società era irreparabilmente snobistica, la cui origine affonda le sue radici nella miscela disomogenea di svariati generi che alimentano l’anima di marionette poste nelle mani di qualcuno. L’amarezza nasce dall’esperienza e da essa è possibile comprendere il mondo, mediante alcuni assetti della cultura popolare.

In un sudario di bruma che cadeva in un'area residenziale tipica delle classi medie, situata alla periferia di una grande città. In questo grande santuario magico in cui ho potuto perdermi, dopo qualche pagina che trasuda un vero smarrimento e turbamento, giunsi dinanzi a piccole figure che divennero ben presto una vera marea umana di conseguenze, avvenimenti, specialmente quando giunsero nel luogo dove evidentemente ero atterrata con una certa confusione. Sbirciando da una finestra compatta, ho potuto constatare come regnasse un certo disordine. Come uno sciame di curiosi, mi ci ero precipitata nelle sue viscere senza nemmeno me ne accorgessi e, spostandosi qua e là, ho visto questa storia prendere vita mediante la voce acuta e stentorea della sua autrice che, diffondendosi per il viale deserto di un paese russo, mi permise di apprendere nuove e interessanti nozioni riguardo il culto religioso e le tradizioni popolari. 

In un caos di diavoli travestiti in santi, verso il cuore pulsante di questa storia che indicava già una certa importanza dal titolo, nettamente visibile dietro la moltitudine di curiosi che si erano agitati, un 'impatto brutale, che aprì un buco enorme nel mio cuore, facendo decrescere quel ardente curiosità e una certa dose di ammaliamento per il resto della lettura. Perché sarebbe stato più semplice, se non razionale, concentrarsi su un’unica voce e promulgare le sorti di questi personaggi dandogli non solo una forma ma anche sostanza. Quanto bruciando ogni cosa mediante frasi e parole, che ancora esalavano sottili fili di fumo verso un cielo di pomeriggio tardivo. Catapultata nelle viscere di una storia che sembrava le mancassero persino le forze di respirare, con un sole ardente che sembrava arroventare ogni cosa, precipitando da qualche parte in una foschia riarsa. 

Valutazione d’inchiostro: 3

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Titolo: Le pagine della nostra vita

Autore: Nicholas Sparks

Casa editrice: Pickwick

Prezzo: 12 €

N° di pagine: 181

Trama: North Carolina, 1946: il giovane Noah, tornato nel paese natale dopo la guerra, realizza il sogno - coltivato da tempo - di abitare nella grande casa vicino al fiume, da lui riportata all'antico splendore. Alla perfezione del quadro manca però Allie, una seducente ragazza incontrata anni prima, amata disperatamente nel breve spazio di un'estate e mai più ritrovata. Invece, un giorno lei ricompare, per vederlo un'ultima volta prima di sposarsi... Ma il destino ha deciso altrimenti, scrivendo per loro una storia diversa...


La recensione:


Rassicurati, io ti sono accanto… e finchè il sole non ti esclude nemmeno io ti escluderò e finchè l’acqua brillerà per te e per te frusceranno le foglie anche le mie parole per te brilleranno frusciando.


I primi giorni d’estate mi videro impelagata in una vicenda che ha avuto dell’incredibile. Una coppia, due ragazzi, prima amici di vecchia data, poi amanti, si manifestarono nel mio personalissimo cerchio con una storia che dice tutto e niente ma che rivela un tuffo nel mio passato. Dare inizio all’ennesimo parere positivo al romanzo di un autore che quando ero adolescente amavo tantissimo, la mia libreria era zeppa delle sue sdolcinate storie d’amore, che in una manciata di anni è divenuto mio amico, seppur di carta e inchiostro, per conoscere il mio parere su uno dei suoi romanzi più celebri, è quasi sempre una scelta ardua. I sentimenti, le emozioni prevalgono al punto che ho timore di apparire ridicola ed insulsa. Ma quando è il cuore a parlare, sbarcare in luoghi in cui la scrittura acquisisce una sua forma, i cerchi concentrici della sua trama delineano qualcosa di particolare ma bello, che non ci ho pensato due volte per leggerlo. In una manciata di giorni la mia anima era stata completamente assalita da qualcosa di forte e destabilizzante che mi ha lasciata senza parole. Ebbene si, perché ciò che ritrae l’autore in questa bella storia era qualcosa che in passato ho vissuto un mucchio di volte e che, a distanza di così tanto tempo, l’idea di rileggerlo, viverlo nuovamente ma con una consapevolezza maggiore mi ha permesso di sentirmi accolta. Il suo messaggio, semplice ma di forte impatto, l’ho interpretato pensando che i due amanti protagonisti di questa favola avevano avuto su di me un certo riguardo perché è stato davvero impossibile non essere rapiti dal loro puro e sconvolgente amore. Più di ogni altra cosa, la loro storia d’amore mi ha scaldato il cuore, fatto prendere consapevolezza di come certe storie – pur quanto il tempo passi e i miei gusti cambino nettamente – occuperanno sempre un posto particolare nel mio cuore. Ed essere qui, a riporre queste poche righe, mi fa sentire ridicola, quasi incapace di intendere ed agire, perchè quando i sentimenti prevalgono e la ragione riposa silenziosamente, capita di non sapere cosa dire. Scombussolando, riducendo in minuscoli pezzettini il mio animo, e se la risacca disomogenea del tempo, del ricordo sono confinati al piccolo mondo della mia infanzia, certe letture appaiono con evidenza in alcune situazioni della mia vita, soprattutto quando meno me lo sarei aspettata, e per qualche ragione divengono spiriti affini alla mia anima. I miei incontri con Nicholas Sparks con gli anni è andato a scemare, ma quest’anno ho avvertito il desiderio di tornarvi fra le sue pagine, mediante la lettura di qualcosa che avrebbe raccolto la mia anima con estrema cura. Ed è così che l'ho vista, questa ennesima dichiarazione all’amore e alla vita, monopolizzata dalle gesta di un giovane sognatore, che materia finita in un cosmo infinito, ricostruisce a ritroso il sentiero insidioso della sua vita, e poi, verso la fine, fatto ammenda di ciò che è importante e ciò che non lo è, soddisfatto di tutti quei ricordi che gli sono rimasti addosso, e che spesso invade la sua coscienza.

Chi mi legge da un pò, probabilmente non si aspetta che l’autrice di questo piccolo salotto letterario possa fare simili tuffi nel passato. Incurante come questa storia, quella che l’ha scelta, si riveli molto più attraente di quel che credeva perché una veloce occhiata non può attecchire nell'animo se non fatto ammenda di ciò che contengono le sue parole. Quello che possiedono i romanzi di Sparks è bellezza, bellezza della vita in ogni forma e contesto, compensata ed emanata da un'aura di fascino, soprattutto nel ritrarre un giovane in cui è stato alquanto semplice personificare, una misteriosa combinazione di sogno e realtà, insicurezza ed eleganza, temi che suggeriscono la bontà dei sentimenti che governano in Noah e che suggeriscono il suo essere malinconico, compassionevole che l’autoreperò enfatizza al punto giusto, rievocando dalle soglie del tempo l'espressione intima in relazione con i suoi più reconditi desideri. 

In una serata di inizio estate luminosa, fulgida e meravigliosa, ho letto nuovamente questo romanzo scorgendo una parte di me stessa, catapultata in un luogo bello, potente, toccante la cui energia le è stata donata dalla risacca disomogenea dei ricordi. Con la quale ci si adorna, ci si agghinda, ci si colora come un fiore appena sbocciato. In una dimensione splendida come il mattino, in cui le notti si rivelano come sogni vani e illusori, che si consumano con la pace del giorno. Dissolvono la felicità, spingono l'angoscia nel cuore, afferrandolo nel momento della sua beatitudine.

Completamente assorta, mi sono lasciata cullare da una strana quiete che ha riempito tutta la mia anima. Silenziosa,col cuore che batteva forte, e nelle orecchie la voce melodiosa di questo tipo: un sognatore che sa essere muto. Ama costruire il suo presente, nel richiamo costante di un passato irrecuperabile, che lo costringe a vagare come un ombra, senza alcun fine o necessità, cupo e triste, tanto facilmente materializzato, tanto naturale, quanto fiabesco mondo di fantasia.

Nell'infruttuosa intenzione di ridestare un cuore ormai freddo, e tutto ciò che credeva di aver ormai perso. Frugando negli occhi, come un mucchio di cenere, per trovarci qualcosa. La triste e monotona fantasia, colma di un angoscia tipica di un cuore romantico: mentre gli ideali si fondono, l'anima chiede e vuole qualcos'altro. Schiva dal pensiero, come una nuvola che d'improvviso vede il sole.

Con una storia in cui i sentimenti non sono miraggi, inganni o fantasie, ma qualcosa di effettivamente reale, vero e autentico, in un mondo vuoto, triste e inconsistente. Un sognatore dall'animo debole e sensibile, consapevole di essere entrato in un nuovo cielo di persecuzione, esalta valori come la lealtà, la sincerità, l'amicizia e l'amore, nell'intreccio di vite di svariati personaggi - fatti esclusivamente di carta e inchiostro - facendo questa storia il proprio cantuccio personale.

Una storia di amore e dolore - personaggi artefici della loro vita che si intestardiscono a credere che non si tratti dell'ennesima eccitazione del sentimento, un miraggio o qualcosa di imprescindibile, ma veritiero -, con protagonista un romantico sognatore grato dei casuali incontri che talvolta gli riserva la vita. Un cuore innamorato, ferito in cui riversiamo il nostro amore in un altro cuore, spingendoci a desiderare che tutto sia allegro. Contagioso come la felicità, ma che, alla fine, il bello della sua lettura sta nei ricordi. In quella risacca lenta e disomogenea che ha segnato i momenti più belli della sua lettura. Ha marchiato l'anima col suo segno indelebile.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Collages

Autore: Anais Nin

Casa editrice: EO

Prezzo: 13 €

N° di pagine: 142

Trama: Protagonisti di questo romanzo sono Renate, una pittrice, e Bruce, uno scrittore: due spiriti liberi, due amanti insoliti e solitari. Due compagni che un giorno decidono di partire e andarsene in giro per il mondo: Vienna, il Messico, la California, la Francia del Sud, l'Olanda, New York. Non c'è amore fra loro o forse sì, fatto sta che lungo la strada incontreranno altri amanti e altre storie, sentimenti, emozioni e bellezze che porteranno con sé con la leggerezza dei viaggiatori. Il loro viaggio è come un foglio bianco su cui man mano incollano i volti, le emozioni e le vite dei personaggi che incontrano sul loro cammino. E un grande collage, appunto, dove pagina dopo pagina prende corpo la storia di un viaggio fatto di sentimenti e sensualità. L'intensità erotica della scrittura di Anais Nin è soffusa e affascinante, straordinaria nella sua raffinatezza, sempre in bilico tra la passione più incandescente e il disegno di un languore appena accennato.

La recensione:

Vedo me stessa riaffiorare da un posto sconosciuto, in compagnia di due amanti che, ignari di quella che si è rivelata una catastrofe, risente dei postumi della solitudine, dell’abbandono, e rammento di come tutto era iniziato per caso con la semplice parvenza di una vacanza. In questi ultimi giorni d’agosto, nel mentre mi godevo una settimana di puro e semplice relax, lontana dal lavoro e dalla monotonia del giorno, mi sono approcciata alla storia di un’autrice che amo molto. Fonte di inestimabile piacere dai cui testi si attinge la bellezza del sesso, l’unione di due anime impegnate in un coito come cogliendo il fiato di tutta una vita, coincidenza che si è fissato nella sabbia del tempo nel momento in cui ho desiderato leggere qualcosa di semplice e non troppo impegnativo. 

Ancor adesso serbo un ricordo particolare, ponendo nero su bianco le mie impressioni riguardo l’ultima - l’ultima per me - fatica di Anais Nin. Ma è possibile che in sostanza sia una questione relativa alle sfavillanti emozioni che la sua lettura ha sortito così bene. Voglio dire, nella mia carriera di lettrice ho letto un'infinità di storie di questo tipo. Storie forti, passionali, silenziose ma grandi, come lo spazio caldo e lontano nel quale si potrebbero perdere le nostre tracce. Per sfuggire alla monotonia del giorno, per allietare il mio spirito - penso che, in questi ultimi giorni d'agosto,  abbia avuto bisogno di questo - ho scelto di leggere Collages come se animata da qualche forza sconosciuta. Di solito so sempre dove indirizzare le mie preferenze letterarie, ma, talvolta, mi piace pensarla così.

Fu inoltre per combinazione che volli ascoltare questa splendida storia, che fu dipinta dai colori più sgargianti dell’anima, associandola alla realtà fortuita, quella alla quale i personaggi si aggrappano con diffidenza, emergendo da un grigiore dell’anima come una gigantesca crisalide. La vera e propria essenza dell’arte però è quella di saper cogliere la sua unicità, questo senso di unione fra figure che si dissolvono l’uno mediante l’altro, così evanescenti, quasi trasparenti e pronti ad essere rinchiusi in uno stato di staticità che in questo modo trasforma il mondo come essere che respira, fluisce, mediante gli occhi della coscienza che rivela ciò che ad occhio nudo era stato celato, completamente oscurato.

Era un pomeriggio frenetico e afoso, quando mi sorpresi di correre verso qualcosa che desideravo toccare, già da un bel po'. Non mi importava quello che avrei trovato al termine della corsa: volevo che fosse qualcosa di spontaneo, che corresse verso di me. Era questa la risposta che avevo bisogno, cioè la mia anima aveva bisogno che la mia coscienza si beasse di qualcosa di semplice e spontaneo. E, allo stesso tempo, avevo bisogno di sapere che potevo esserne travolta. La sua figura si era stanziata ai bordi della mia anima, con prepotenza e impetuosità. La sua cadenza sinuosa, romantica, vivida e bellissima fu una carezza sulla pelle. Una ventata d'aria fresca. Una benedizione fra letture impegnative e svariate. Istantaneamente, toccandola e facendomi avvolgere dalla sua essenza. E, privo di trama, surreale, lineare e cronologico dotato di una struttura circolare, articolata da immagini fulminee, istantanee o, in questo caso, colleges, che risvegliano, insegnano a farci rimanere in uno stato di grazia d’amore, da cui si tenta di estrarne il pensiero, quello astratto di figure incapace di amare e che tramutano certe forme di vita in processi afrodisiaci. Come attimi che potrebbero durare per sempre. Sparire, così come sono apparsi. Collocati in qualche stanza remota della coscienza, perché l’impeto con cui mi hanno travolta, accolta, è stato così inaspettato, coinvolgente, strappandomi dalla monotonia, dalla piattezza di certe giornate.

Mi ha resa felice, anche solo per qualche giorno, per avermi nascosto e ospitato in questa landa del cuore, in compagnia di alcune figure, in momenti in cui decisero di lasciarsi andare, mettere a tacere la voce interiore non per perdonare gli errori che hanno commesso insieme ma per accettarsi; così soli, indifesi, invisibili agli occhi del mondo se non per se stessi. Desiderosi di trovare un posto in cui sentirsi a loro agio, al sicuro dai fantasmi del loro passato. Renate, infatti, è un’artista che dipinge mediante un connubio di sentimenti, simboli e cui si adorna e adorna la sua anima mediante sogni, perchè l’arte avrebbe espresso ogni incauto sussulto, avrebbe interpretato ogni messaggio, messo in evidenza ogni parte del corpo o dell’anima entrando a contatto con la realtà e rivelando la natura di ogni cosa. L’essere umano, così primitivo e selvaggio, che in balia delle emozioni, degli impulsi perde il senso. la ragione, ma non quella brama ardente di libertà alla mercé di un tarlo che li divora lentamente da dentro, un baule zeppo di sogni e desideri riposto dimenticato in soffitta. Collages non è solo sbocco sull’anima, quella della scrittrice che alla fine si rivela pittrice e artefice di ogni cosa, quanto abisso scuro e angoscioso della lontananza. Perché questa libertà, questa forma di rinascita interiore a cui si aspira coincise con quella brama della Nin di aver permesso alla sua coscienza di credere in qualcosa, quando non aveva la certezza di poter sperare. Forse solo in questo modo avrebbe trovato la pace. La materia finita in uno spazio infinito, che rincorse la beatitudine eterna, donando calore con generosità e perfezione. 

Una storia che, a dispetto di altri suoi romanzi, non brilla di emozioni, poichè qui esacerbate dalla possibilità di una rinascita o redenzione, in cui persino il sesso è un refuso che bisogna ignorare. Un testo breve ma di forte impatto, che tuttavia si è spostato elegantemente nei miei pensieri, con una storia priva di trama ma evocativa, quasi lirica, scavando nell’anima di chi legge.

Spettatrice di una vicenda che ha qualcosa di vero. Tangibile, che è un frammento di vita dell’autrice, come una vertigine che ha il più dolce dei sapori. La consapevolezza che la felicità, seppur effimera e imprecisata, è un vortice travolgente cui è impossibile sfuggire.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Il respiro. Una decisione

Autore: Thomas Berhard

Casa editrice: Adelphi

Prezzo: 18 €

N° di pagine: 128

Trama: Come in un’allucinazione, il diciottenne Thomas Bernhard si risveglia un giorno in «un lungo corridoio» con una «infinita serie di stanze, aperte e chiuse, popolate da centinaia se non migliaia di pazienti». È l’ospedale dove Bernhard lotterà per sopravvivere a una grave malattia polmonare. Ed è una delle più nette immagini di «inferno» che Bernhard, maestro nella precisione dell’orrore, ci abbia trasmesso. Qui, in una stanza da bagno dove una suora passa ogni mezz’ora per alzare il braccio del paziente e sentire se ancora si avverte il polso, Bernhard decide di non permettere che gli uomini della sala anatomica con le loro bare di zinco vengano a prenderlo, insieme agli altri morti, come «sgomberando un magazzino di marionette». Decide di vivere. È un momento spartiacque: nella massima inermità, la massima determinazione. Così comincia una traversata delle regioni di confine fra la vita e la morte che è diventata poi, non solo un passaggio cruciale nella vita di Thomas Bernhard, e non solo questo libro, altrettanto cruciale, ma l’opera intera di Bernhard, che qui si mostra nei suoi due gesti originari: la testarda determinazione di vivere e la conoscenza immediata, quasi tattile della morte: «Qui, in questo trapassatoio, io mi ero imposto di non abbandonarmi alla disperazione, semplicemente dovevo lasciare che la natura umana, la quale si palesava qui, come probabilmente in nessun altro luogo, con assoluta brutalità, facesse il suo corso».


La recensione:


Ciascuno è diverso da ogni altro, ciascuno vive in modo diverso, ciascuno muore in modo diverso.


Mi immersi nel presente, nella modernità. Una manciata di giorni, e a poco a poco la sopravvivenza che un autore come Thomas Bernhard esplica in queste pagine mi parve quasi del tutto impossibile. Era come acquattarsi in una tana, ma ero in compagnia di un ragazzo affetto da una brutta malattia, relegato in un luogo dimenticato persino da Dio, il cui mondo, le cui certezze erano state messe a soqquadro. Eppure era un adolescente qualunque, Thomas, le cui pagine esplicano un ricordo, rievocano un frammento della sua vita che ha custodito con estrema cura, consapevole di ciò che la vita gli confidò e che lui riversò in quel contenitore imperfetto che è la scrittura, per definizione un << pensiero >> che ai giorni nostri è definito quasi come un tabù. E dunque, la consapevolezza di essermi imbattuta in qualcosa di estremamente intimo, prepotente, mi scoprii coinvolta, completamente assuefatta da una storia che non possiede nulla di originale ma che, per qualche tempo dalla sua lettura, si è contorta nelle mie viscere come un parassita, un animale, facendolo divenire parte integrante di questo tutto che l’autore ha esplicato così bene.

La malattia, la sofferenza. E’ un tipo di <<lingua >> che molti parlano, ma che non tutti comprendono. Così contorta e travolgente, devastante e destabilizzante, in cui le parole in questi casi servono ben poco. Non corrispondono mai al modo, ai gesti, a ciò che si contorce nel nostro animo, sebbene l’autore abbia tentato di correggere la vita, ovvero la morte, raddrizzando ogni cosa. Esorcizzando questa forma di impasse dal cuore di personaggi misantropi che si fanno portavoce di valori eterni e universali, scovando una forma o una cura che ci aiuti a correggere la vita, a viverla con risentimento o risolutezza, solidificate in una patina di intensità e interezza di cui nemmeno le parole possono esprimere, evocare.

Mano a mano si sono ficcate nella mia testa come schegge roventi, ma medesime. Non adattandosi ad alcun tipo di realtà. Pertanto, ogni volta che mi imbatto in romanzi che esplicano la vita come forza suprema ma prorompente, l’uomo impelagato in forme di sopravvivenza che sono un fallimento o un errore della stessa e di ciò che la rende possibile, mediante cui Bernhard si aggrappa all’idea che possa donarci bellezza, soddisfazione da quel che ci è dato. La mente umana irrimediabilmente si lascia cogliere dalla paura, dallo sconforto, e l’artista sminuisce ogni cosa dinanzi alla fatalità della vita perché rimane imprigionato nella superficie delle cose. La coscienza si dibatte mediante qualcosa che non può avere, tentando di parlare, ma distorcendo l’oggetto della sua rappresentazione.

Tutto avviene quasi meccanicamente. Quando mi imbatto in situazioni del genere, non è mai facile inerpicarsi in un altura di parole che se pescate a caso potrebbero trasmettere poco o niente. Ma le parole, come si può evincere dalle recensioni che scrivo, i romanzi che leggo, mi hanno sempre donato la capacità di cambiare. Parlare quando non sarebbe stato necessario, enunciare con difficoltà sillaba in più o in meno. Ecco perché io ritengo che non è salutare tenersele dentro … talmente nascoste che anche un bambino potrebbe capire quel che penso. Considero la morte, la malattia come una forza destabilizzante, potente che distrugge, sorprende e recide, in qualunque momento lo si aspetti, esprimendo volontà individuali di cui spesso non ne siamo consapevoli. Ma cosa succede quando una forma di malattia atipica non può svolgere il suo naturale processo di guarigione? Se lacera, se intercorre fra due spiriti affini, solitari, incompresi, è possibile persistere affinché esso non sia più che una semplice malattia? Generalmente, chi disgraziatamente cade in questi brutti tranelli arriva a credere che le attenzioni, i modi di poter lenire la nostra anima con estrema cura, qualunque rimedio possa curare non solo il corpo ma anche lo spirito, le attenzioni che si pongono ad una persona – che per qualche tempo diventa il principale oggetto dei nostri pensieri più reconditi – sono fonti di esperienza da cui attingere nel raggiungimento di forme auliche di comprensione. Può assomigliare a una saccenteria, ma dinanzi alla morte, quante volte si pongono riflessioni in cui il resto, ciò che ci circonda, sembra solo un’inerzia? Nella maggior parte dei casi lo è, sebbene la mia è una semplice riflessione personale. Tuttavia in Il respiro, Thomas Bernhard ha avuto il potere di farmi vedere questo aspetto sotto una nuova luce: nonostante le gestualità, le modalità di deterioramento dello spirito sono sempre le stesse. Perché non basta a volte essere affetti da qualcosa di cui il nostro corpo non riesce a debellare, quanto vi sono dilemmi morali, dell’anima, a cui non vi è cura e a cui l’uomo si scopre ad osservare l’eccelso, cogliendo il ridicolo, l’insulso in forme di eternità, sfide, fallimenti mediante cui l’artista si muove rivolgendosi all’orrore. Aprendo così uno spazio sul possibile, producendo un proprio mondo, un simbolico corto circuito fra fine e inizio, in una circolarità di prospettive che rivelano ogni aspetto del romanzo stesso. Marionette trapassate e gettate nel macero, soggette ad essere presto bruciate, fagocitati dalla macchina della morte che produce attimi di vita e funziona senza sosta spietatamente, attanagliata nel momento in cui è colpita transitoriamente.

Perciò non l’ennesima storia di un ragazzo impelagato in dilemmi adolescenziali, quanto una forma di deterioramente interiore che nasce e cresce dal nulla, non dà alcuna certezza, nè tantomeno possibilità di stringere con estrema cura nel nostro fragile cuore mere possibilità di essere compresi dalle persone che ci circondano. Da amici, famigliari, che non comincino ad assillarci con concetti inutili di cambiamento, fasi di crescita incompresa, continuando però ad essere e sentirsi perduti.

E’ stata questa la << condanna >> di Thomas Bernhard e del suo alter ego che, in un corridoio lungo e luminoso di un ospedale, è stato soggetto a forze superiori che hanno indotto allo stupore, alla disarmonia universale. Eppure, è bastato un piccolo gesto per accorgersene. Ragazzo infranto, solo, incompreso. L’assetto sociale ricoperto di adattabilità. Come sopravvivere? Scovando quella che è la vera e propria essenza di ogni cosa. Mediante l’arte, la letteratura, che avrebbe dovuto scovare una cura a questo incurabile male. Una cura che non l’avrebbe estirpata, quanto compensato il nostro cuore mediante un modo diverso di vivere, sperare. La parola scritta,  fonte infinita di materiale, un'inesauribile emporio di cose frantumate in cui sono stati raccolti oggetti che mi sono sembrati degni d’attenzione … oggetti scheggiati, fracassati, ammaccati o sfacciati che hanno solleticato la mia attenzione.

La produzione dell’autore fu influenzata dal senso di solitudine e dal male incurabile che lo inflisse, un tipo di pessimismo cosmico schoperniunaino che gli fece vedere la morte come essenza dell’esistenza. Il respiro diviene così monologo, sbocco su un mondo, quello personale dell’autore, e su come esso influisca sugli individui, sul suo modo di relazionarsi, dinanzi agli occhi di uno spettatore curioso ma incapace di fare alcunché. Perché quasi sempre proiettato verso la perfezione, al raggiungimento di qualcosa che non sarà mai scovato e che genera stagnazione, rassegnazione e poi morte. Pensando affiniamo il pensiero critico, traiamo ogni conclusione che possa adattarsi al possibile. L’uomo è immerso in una zona di confine e ombra che coincide con quella effimera della natura, che invade il corpo destinato ad abbandonare la luce per rientrare poi nelle tenebre. Così persistente perché soggetto a continui errori, incertezze, forme sconosciute di conoscenza da cui sembra impossibile districarsi.

Il nostro fu un incontro che si svolse poco prima delle ferie estive. E che in una manciata di pagine ho constatato quanto si sia rivelato interessante. Fondamentale ascoltare una voce che avrei voluto ascoltare molto tempo fa, ma intrisa di lirismo e sentimentalismo, da cui a mio avviso ognuno di noi dovrebbe imparare qualcosa. Una profezia che ha proferito verità il cui mondo tuttavia è ancora disgraziatamente impreparato.

Non per me, che rinsavita da certi concetti o preconcetti, ha scartato ciò che è superfluo e ciò che invece è a dir poco rilevante. Ed è così che, seduta dinanzi al computer, ho scritto tutto questo di getto. Ho colto sul palmo delle mie mani parole che non credevo di possedere, e che confido possano essere bastate ad esplicare il mio riconoscimento nei riguardi della sua lettura. Se fosse stato detto troppo poco o troppo, il tono sarebbe stato particolarmente triste, intimistico, introspettivo, quasi confidenziale. Certo, un ragazzo che incorre a raggiungere ed ottenere la sopravvivenza è qualcosa di inaccettabile, troppo inusuale, quasi disgustoso per essere definito voluto. Eppure tale fu la << condizione >> di Bernhard e il suo modo di osservare e cogliere ogni aspetto della vita, che subì implicazioni sin da giovanissimo, le dispute di cari o amici che tra incontri, scontri, eventi, intimidì i lati opposti di queste figure - dei suoi personaggi - confidando di ottenere ciò che più desiderano. Essere finalmente liberi. In battaglie che hanno risposto a tante cose, e che alla fine gli sarà riconosciuto un certo prestigio. Imparando ad appellarsi alla logica, alla fiducia in se stessi, alla calma necessaria per continuare a discutere o vivere. Indipendentemente da ciò che avrebbero voluto o desiderato il Fato.

Come un dramma tragico, Il respiro è stata una lettura davvero bella, sconvolgente, particolare da cui ne sono uscita inevitabilmente a pezzi. Ridotta in minuscoli pezzettini, perchè quello che avevo dinanzi non era più il ritratto di entità divisibili, ma masse compatte e indistruttibili che non hanno desiderato nient’altro che conforto, consolazione, accettazione. Poiché considerati come uomini << deboli >>, inferiori, timorosi della vita, di chi li ha sovrastati, spiriti dipendenti di situazioni caduti in trappole o giochi di vita strategici e insidiosi.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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