Il mondo ha riso dei dispetti,
della crudeltà del sangue che è stato versato nel bel mezzo di un caos cosmico,
un disordine spirituale e morale che, inconsapevolmente, serpeggia fra noi come
mali incurabili e indissolubili e che una volta detenuto un certo potere subiscono
un processo per le violazioni dei diritti umani avvenute sotto la
responsabilità di altri. Una ragione in più per conoscere o assaggiare una
fetta di storia che da sempre sortisce in me un certo interesse. La persona
designata a impartirmi tutto ciò fu Octavia E Bulter che mediante questo
piccolo volume sortì effetti in cui il corpo si dissocia e si discosta al punto
di avvertire ciò che lo circonda come qualcosa di distante, inavvicinabile. Perennemente
sospeso fra utopia e distopia, una raccolta di storie che sembrano paradossali
ma che sono riconducibili alla realtà, al nostro stare nel mondo comprendendo
così la realtà circostante, il senso della vita, aspirando a qualcosa di
assolutamente assurdo, trascedentale che estingue qualunque assetto negativo.
Autore: Octavia E Butler
Casa editrice: Big Sur
Prezzo: 17 €
N° di pagine: 209
Trama: Pochi scrittori hanno saputo aprire nuove riflessioni sulla contemporaneità partendo da premesse vertiginosamente fantastiche come quelle che troviamo nella narrativa di Octavia Butler. Perennemente sospese tra utopia e distopia, le sue storie ci obbligano a salti del pensiero in apparenza paradossali, ma ci riportano ogni volta alle radici concrete e umanissime del nostro stare nel mondo. Cosa accadrebbe in una società in cui la parola fosse scomparsa per sempre, e con essa la capacità di mediare i conflitti tramite il dialogo, lasciandoci come unica risorsa disponibile l’uso della violenza? Si può immaginare un mondo in cui siano gli uomini e non le donne a dover sopportare il fardello della gravidanza? Cosa chiederemmo a Dio, se avessimo la possibilità di incontrarlo ( o di incontrarla ) e di esprimere uno e un solo desiderio per salvare il genere umano dall’autodistruzione?
La recensione:
Qualunque cosa
deciderai per l’umanità, verrà fatto. Ma tutte le tue decisioni avranno
conseguenze. Se limiti la felicità del genere umano, probabilmente finirai per
distruggerlo. Se limiti la sua competitività, il suo spirito inventivo,
potresti distruggerne la capacità di sopravvivere alle tante catastrofi e sfide
che dovrà affrontare.
Mentre mi affanno a far sentire la mia voce nel mondo, perlomeno a rischiarire qualunque idea di invisibilità o improduttività, avevo adocchiato questo romanzo osservando la sua autrice come quella figura pallida e quasi inesistente che fece di questo ennesimo lavoro una raccolta di pensieri, letture ferventi nel cuore della notte scritte in silenzio, sussurrate ai bordi della sua anima in cui l’amore per la letteratura che inculca dettami rigidi e rigogliosi avrebbe dovuto generare straordinarie forme di libertà, scaturite da momenti di ansia e paura. Del resto, quello che ritrae il romanzo non è nient’altro che una parabola borghese straniera che non volle nient’altro che insinuarsi in piccoli agglomerati, piccoli assetti umani affinchè la bellezza, l’arte dello sconosciuto fosse svelato, affascinante e fascinoso alle idee scientifiche e biologiche che alcune malattie genetiche ci << insegnano >>.
Sarebbe stato molto difficile recensire una lettura del genere, specie se in un momento particolare della mia vita avesse attanagliato le mie viscere. E quando ho decifrato le parole con cui sono state scritte queste pagine, constatai come ne valse la pena di stanziare fra le sue pagine anche per poco tempo in quanto l’autrice raccolse frammenti di storia americana, troppo breve e quasi insulsa per attribuirgli una sua importanza, rivelati sufficientemente concerni a ciò che l’autrice predispose: costruire simbolicamente una strada in cui certi valori che si credevano perduti verranno stabiliti. La genesi di una trama di vita in cui lo stile penetrante e realistico della sua autrice non ha mai indotto a non scovare una via d’uscita. Forse perché il presente è perfettamente attinente al passato, forse perché la sua chiave di lettura si cela nella produzione di anni e anni di letture, l’osservazione ravvicinata di certi particolari – forse per molti sconosciuti – portando a galla elementi quasi scomparsi in cui non ci si può non sentire più vicini di quel che si crede.
Quello di Octavia E Butler è un piccolo segno, tracciato nelle pagine bianche della letteratura contemporanea, che rintraccia quei bruschi comportamenti compiuti nel corso della sua esistenza dall’individuo, con un registro completo dei movimenti di una giovane donna cui è stato davvero difficile non poter rispecchiarsi. Il risultato fu, che sebbene la mancata emotività di certi fatti descritti, l’autrice ha vagliato i confini di un territorio non propriamente sconosciuto ma in cui ci si avventura con un certo slancio. Il disegno ritratto assomiglia a molti stati immaginari che rappresentano il viavai, l’emigrazione di certi poveri contadini, schiavi o latifondisti, che nella loro imperfezione fanno parte di una certa totalità, una certa universalità. Un disegno da cui è davvero impossibile non concepire riflessioni forti o spietate, forme astratte collegate da un minuscolo ponticello gettate dall’autrice nell’atto di costruire uno specchio che rifletta ciò che più si desidera. Uno scarabocchio senza senso?
Una perpetua conquista alla fuga o alla libertà, un’anima semplice, devastata, svezzata che rifacendosi al passato si proietta in avanti. E giunge alla fine solo dopo aver intuito il principio. Il commiato a una via di redenzione o libertà, che mi ha resa un piccolo involucro trasparente senza peso, senza anima, soffiata come una cannula dal primo vento, da certi tipi di letture si imparano inevitabilmente tante cose. E, uno fra tutti, quanto i gesti impuri sono talvolta atti di oscenità.
Valutazione d’inchiostro: 4
Bella recensione, grazie
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