mercoledì, aprile 10, 2024

Gocce d'inchiostro: Ferdydurke - Witold Gombrowicz

Anche la storia in cui mi sono imbattuta, non molto tempo fa, possedeva un chè di affascinante, già solo dalla copertina. Non la migliore che ci fosse in circolazione, secondo i miei standard di bello o piacevole, ma << affascinante>>. Sicuramente questo romanzo, il cui titolo impronunciabile non ha un suo vero e proprio significato, ritraeva le vicende di un ragazzo deforme e ghignante, imprigionato dalle smorfie altrui, come un riflesso della società che si contorceva tra terrore e disgusto, orrore e ferite inguaribili come marchi dell’anima.E’ raro leggere di romanzi così << deformi >> nei racconti che leggo, ma questo, ha sfiorato un mondo superiore e adulto che non lo si raggiunge sentendoci così lontani dalla distinzione, dall'eleganza, dalla comprensione, dalla serietà del reciproco riconoscimento degli adulti, della gerarchia non riconoscendo alcun valore, disseminando frasi che non hanno un vero e proprio senso logico, quanto donano la sensazione che il mondo si frantumi secondo la contrapposizione fra uomo adulto e uomo fanciullo. Ed ecco come questo romanzo mi ha conquistata sin dal principio, in cui la morbosità cerebrale, l’umorismo, la disperazione erano in sintonia con forme picaresche in cui l'investimento frammentario di alcune frasi non sense ma lucide esplicano nient'altro che forme di azione, derisione e possesso di una realtà che sembra teatro di azioni che si fa specchio della stessa, liberazione delle diverse forme, delle diverse facce che la società impone, configurando una continua e costante sensazione di falso.

Titolo: Ferdydurke
Autore: Witold Gombrowicz
Casa editrice: Il saggiatore
Prezzo: 22
N° di pagine: 224
Trama: Il trentenne Giuso, perditempo e lavoratore occasionale, si sveglia e scopre di essere tornato adolescente. Il suo aspetto non è cambiato, eppure… Alla porta di casa bussa un arcigno professore: entra, lo interroga, gli rifila voti bassi e lo rispedisce a scuola. È l’inizio di una delle storie più folgoranti della letteratura europea, un lampo di allucinazione che il genio di Witold Gombrowicz ha sublimato nella più discussa e celebre delle sue opere. Giuso è la proiezione dell’individuo odierno, un neghittoso mammone confinato nell’immagine di un adulto. La scuola pullula di imborotalcati come lui: uomini senza qualità, inetti piegati all’eccitazione e al godimento puerile, umanità irrisolte che il loro tempo ha esiliato in un limbo di eterna fanciullezza. Salvo cercare in questa fanciullezza farsesca la propria innocenza. Ferdydurke spalanca, attraverso una lingua formidabile, fatta di nonsense, bagliori e richiami, una voragine nella coscienza dei suoi – e dei nostri – contemporanei. Un’indagine narrativa, quella di Gombrowicz, che origina dai primi decenni del Novecento per estendersi fino ai nostri giorni, e che nell’ambiguità della forma – nella sua drammatica inconciliabilità con gli spiriti che riveste – trova il suo mezzo paradossale; nella beffa dell’infantilismo, il suo trauma archetipico.

La recensione:

Ogni popolo sembra avere un proprio mito della creazione e del modo in cui l’uomo venne al mondo. La storia di cui vi parlo quest’oggi, il pensiero che ne ho ricavato dopo qualche settimana dalla fine della sua lettura, ricordano, mi hanno ricordato, alcuni testi letti in precedenza. Se mi ci soffermo, e rifletto, romanzi di questo tipo ne ho letto a bizzeffe, da quant’è che sono cresciuta, sono << cresciute >> le mie letture, i miei interessi vertono su fronti più fragorosi e importanti: un giorno la vita ci regala qualcosa di bello e inaspettato, che silenziosamente coincide con il tuo spirito, e ciò che credevamo importante cambia e muta faccia. Ho poi letto tanto, scritto chilometriche recensioni, nel tempo, prima di asserire questo, e quel minimo di esperienze che ho attinto e che giorno dopo giorno attingo dal mio bagaglio culturale hanno poi maturato frutti che, in casi di questo tipo, mi sono stati fondamentali. Gustosi, predominanti, inaspettati e irruenti come un’improvvisa tempesta, ma di cui nessuno può interferire e scatenare qualche inghippo. Il Caso, dunque, decise che abbracciassi l’opera celeberrima, ma non per me che non ne conoscevo l’esistenza, di un uomo che quando fu in vita fu un grande combattente. La vita era così brutalmente intrappolata nell’impossibilità di essere libero, di parlare dei difetti, delle sfortune altrui quanto chiodo fisso instillato nell’anima di chiunque, gravido di conseguenze fatali. Tormentarsi, prodigarsi, offrirsi e immolarsi mediante insoddisfazioni altrui, grazie alle istituzioni culturali, avrebbe ribaltato ogni cosa. L’artista a questo proposito avrebbe dovuto comprendere la vita, sognando di saziare se stesso con la Bellezza, il Buono e la Verità. Ma imitare, confrontarla, altri non è che illusione di avere e possedere qualcosa e la libertà sarebbe stata quell’unica fonte di sostentamento da cui nemmeno il progresso culturale, inzaccherato dal rifiuto di crescere, era racchiuso nell’impossibilità di sapersi guardare quasi ossessivamente, purchè non ci si annoia. Simulacro di un tipo di erotismo in cui il mondo è chiaramente un paradosso.
Una bella scoperta, non c’è che dire! Ma si trattava di dover comprendere, capire quegli elementi che erano disseminati tutt’intorno per comprendere la società di quel tempo, anima derivata di un paese particolarmente fertile di presenze incompiute, inferiori, transitorie dove il dolore, la tristezza, la pazzia , l’incompiutezza vagano, e un sogno torbido conduce in un regno in cui ogni cosa ci imbarazza, ci infastidisce, ci soffoca perchè capitati nel tempo della gioventù, intrappolati in un luogo giovane e vecchio, superato e inaspettato e inattuale. Un sogno contraddittorio, con lo spirito e il tempo, al passo della storia così inesorabile e piccolo, velato dietro ogni forma critica, costruttiva di libertà istituzionale di pensiero che hanno infarcito gruppi di ideali, infettare i propri gusti idealistici.
Una tremenda impotenza trasforma la realtà dell’irreale in un mondo reale, raccontando anfratti idealistici che hanno come protagonisti elementi della gioventù intellettuale, impossibilitati a vivere, il dramma della separazione, il rimorso dell’artificio, lo squallore della noia, il ridicolo della finzione, la fatica dell’anacronismo, la follia del divertimento.
Ferdydruke è costruito su un'altura estremamente filosofica, qui esposto nella forma di uno spumeggiante e spensierato romanzo d’appendice, che ho letto con curiosità ma anche una certa diffidenza perchè intimorita dall’idea che potesse fare un brutto scivolone. Il nazionalismo avrebbe potuto trionfare sull’immortalità di certi desideri, sull’immaturità di poter rivelare idee fra nazionalisti, ebrei, massoni che celebrano qualcosa di losco. L’autore solleva così una critica picaresca alla società in cui ogni cosa è rappresentata con humor, gioia, cattiveria, inzuppato di forme esistenziali che si fondano tuttavia sul vuoto, sul nulla. Il regime nazista ridusse i cittadini alla condizione di bambini ossessionati dal desiderio di assecondare il bisogno della gente di trovare un senso ad ogni cosa, aggrappandosi alla figura di un padre che possa guidare.
Romanzo sull’identità che va alla ricerca di una Forma, una forma tuttavia inesistente, scruta l’anima di chiunque e qualunque cosa, là dove l’archetipo della signorilità iscritta nel corpo, grava ed impossibilita lo sviluppo. la maturazione. Ed ecco che la velata critica sollevata nei riguardi della società, la nobiltà terriera, il mondo contadino e quello borghesiano,  che si credono moderni, avrebbero dovuto trionfare sul crollo irreversibile di un mondo vicino sempre più sull’orlo del precipizio della guerra, dalla faccia cupa e micidiale e ridicola di un mondo di marionette truccate. La letteratura satirica sberleffa così queste forme di nonsense, trasforma un elevato grado di speculazione filosofica in tentativi disperati di usare la parola letteraria come forma oscura di magia, racchiusa nelle istituzioni scolastiche, poiché sottomessi all’irriducibile e complicato complotto dialettico della Forma.
Allegoria di un mondo in cui gli uomini sono testimoni di qualcosa di schifoso, orripilante, e che all'alba della sua giovinezza sprofonda nelle parole o nelle smorfie, Ferdydurke è una fucina che si forgia sulla maturità poiché le parole hanno un semplice legame col corpo, strutturato in un buio informe e indefinito, sospingendo verso la cultura e l'impossibilità di elevarci. Perciò ci si nasconde dietro smorfie, maschere, di cui Giuso diviene forma di contraddizione la cui lotta fra caos e ordine, senso e insensatezza si manifestano dietro forme oscene e orripilanti.
Grandissima scala dalla cui imponente visione vi sono schiere di anime affamate e sfinite, che sprigionano nell’aria l’eco di una profonda innocenza, come un doloroso paradosso ogni cosa diviene ridicola, soffocata da una spontaneità primogenita la cui satira dà così vita a una visione grottesca, della realtà resa equivocabile e provocatoria.
Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

2 commenti:

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