sabato, dicembre 31, 2022

The lost review: ultime letture dell'anno 2022 parte 2

Il momento di parlarvi della seconda carrellata di romanzi letti in questo 2022 oramai concluso prosegue imerpeterrito lungo il suo cammino, sul finire di un altro anno, cui giunsi inaspettatamente ma con una carrozza sferragliante e rumorosa che trainata da simpatici uomini e amici, abbracciai la vita e queste nuove creature di penna - nuove per me - con la consapevolezza di recitare una parte o farne parte, addirittura. Non accontentandomi più in seguito di osservare ciò che ci circonda senza andare avanti e compiere qualche passo in più ma mantenendo viva quell'attenzione, quell'emozione, quei sentimenti che fagocitano irrimediabilmente in un viaggio picaresco i cui episodi snocciolati avvengono gradulamente come un racconto d'appendice. Apparentemente complessi, romanzi beli da tenere in considerazione ma costellati da innumerevoli personaggi che hanno accresciuto il tono sarcastico e ilare, dagli archetipi miei famigliari.

 Titolo: La famiglia Karnowski
Autore: I J Singer
Casa editrice: Adelphi

Prezzo: 12 €
N° di pagine: 500
Trama: «... Un capolavoro, al quale auguro un grande successo. "La famiglia Karnowski" è un grandioso romanzo che racconta la storia di tre generazioni ebraiche, dal 1860 al 1940. Gli eventi trascorrono: i personaggi crescono, maturano, si avvicinano alla morte; tutto è corposo e robusto, mentre dall'alto Israel Singer guarda le cose con uno sguardo sovrano e imperturbabile». (Pietro Citati)


La recensione:

Una serie di diapositive mi hanno surclassato il cervello, e una delle tante mi indusse a pormi alcune domande a cui non ho avuto delle risposte, ma sforzandosi di evitare il concetto di << già sentito >> mi ha indotta a divorare queste pagine non lasciandomi intaccare da niente e nessuno. Perché scrivo questo? Perché sulle prime La famiglia Karnowski mi sembrava un romanzetto come tanti altri. Le vicende di una famiglia qualunque, proiettate sulle soglie della Seconda guerra mondiale, che in un certo senso avrebbe dovuto colpire per il loro modo per come sono sopravvissuti a certi colpi raziali, quale importanza avrebbero avuto i personaggi, senza però sbottonarsi più di tanto.
I J Salinger, tuttavia, sebbene fu la prima volta che lo accolsi in questo salotto letterario, spiegava che il suo non fosse alcun intento personale. Solo raccontare le vicende di una famiglia, a mio avviso autobiografica, il cui linguaggio asciutto e lucidissimo avrebbe donato cultura, informazione, impartire una certa rigidità ma anche delle basi solide che avrebbero condotto dinanzi alla retta via, avrebbe donato un destino migliore e estirpare ogni cattiveria. Abbracciando le tradizioni con una certa fedeltà, in cui Galia è quell’isolotto immerso nell’ignoranza, nella forza e nella rivalsa che presto o tardi avrebbe avuto un certo respiro.
Perché non ci si rialza o ci si pone con una certa indifferenza, dinanzi a questo tipo di romanzi, mentre l’orchestra della vita ha creato dal nulla una sinfonia dilaniante e sconcertante da squarciare persino i timpani? Se qualche lettore, che ha letto prima di me questo romanzo, c’è riuscito, beh, ci sarebbe da concedergli qualche buon merito. Fa sempre tanto freddo, un freddo sia nel corpo sia nell’anima, nei romanzi russi, una brezza rigida che attanaglia le viscere, fiammeggiando esclusivamente solo sul vasto momento in cui vi è una sorta di ricongiunzione fra anime, che si trattino di amanti, amaci, genitori non ha importanza. E’ qualcosa che scalda e che ti induce ad ascoltare anziché vedere << divertendosi >> maggiormente dall’esterno, fra un pubblico troppo giovane o adulto e famiglie venute lì pur di trovare anche un misero tozzo di pane che stavano già avanzando lungo una strada da cui non c’è alcuna via d’uscita. Qualche fila più avanti i membri di una famiglia notariale, protagonista di questa bella storia, si mosse tranquillamente fra schiere di pionieri, rivoluzionari, dottori che sgomitano furiosamente pur di farsi spazio nella società e che io, seriamente, sapevo di dover asssitere.
Perché sapevo tutto questo? Tutti sanno, anzi… Perché? Perché quella della Seconda guerra mondiale fu uno dei disastri apocalittici della storia, assieme a tanti altri, ma che reca una certa sofferenza. Si sta sotto il potere, la dipendenza di un’anarchia, e le vicende, i contratempi che caratterizzarono le vicende umane dove furono? Chi si interessò mai ad estrarle dalla soffitta buia e polverosa del tempo? Molti autori, certamente, se si getta uno sguardo a quegli artisti contemporanei del Novecento, invocarono ciò come clichè, inizio ad un processo di assesto alla banalizzazione, ma è proprio la solennità con cui è descritto tutto ciò che rendono certe opere dei veri e propri capisaldi della letteratura. Ciò di cui sono assolutamente certa, è che io non ero ancora nata e ciò che leggo non sono altro che vivide testimonianze, manifestazioni di chi li visse sulla propria pelle. Leggerli però mi è alquanto sufficiente: arricchisce il mio bagaglio culturale, specie nel constatare di credere a ciò che noi sappiamo effettivamente.
Mentre ripongo queste poche righe, le cocenti sensazioni che la lettura de La famiglia Karnowski vorticano furiosamente attorno a me, immaginando il morbo fatale che, senza che nessuno desiderasse contrarre, nasceva e si deformava dentro di noi. Le vicende narrate in questo romanzo furono anche vicende che sentì come mie in quanto opera insita nel territorio bolscevico che ci permette di vedere ogni cosa: osservare ogni marchingegno, interpretare qualunque meccanismo, atrofizzando ciò che è necessario spingendoci di nascosto ad combattere ciò che ci avrebbe riservato.
Diffamazioni, legami recisi, famiglie i cui membri sono mutilati… In questa marmaglia, però, ecco apparire una piccola marmaglia, madre, padre e figli. Qualunque cosa deve uscire, prende vita mediante un disegno amorfo, astratto di un dipinto su tela. E quando accade, quando il cervello sembra azzerarsi, si accende un eco di vibrazione che possiede linfa, si lancia dritto dritto dinanzi al nostro cuore.
Il profumo agro dolce del combattimento, un cambiamento, sembra espandersi dalle pagine come un pericolo crescente; nell’ombra di La famiglia Karnowski, nell’aria e nel silenzio, una bella ma non bellissima storia famigliare che alla fine mi ha colpita tantissimo. Concisa e un po’ acerba e lenta nella sua maturazione, a mio avviso, in una confusa e mortale apprensione, si fa strada con vigore e intensità sull’asfalto polveroso di una terra così traboccante d’interesse. Dov’era nascosta la sua forza? Efficace, ma non sin dall’inizio, avanzerà nei nostri cuori attraverso conturbamenti morali e previsioni di mosse, che getteranno una certa inquietudine fra masse di carni instabili e maldestre, entità create altrove … nel momento in cui una viaggiatrice crede di non scorgere in queste pagine alcuna parvenza di amore. Eppure è fra provocazioni di crisi d’angoscia, distinzioni, allontanamenti, brutali incomprensioni, in una città circondata dall’innocenza e dalla ripugnanza, con gli stessi colori dell’inferno, uno studioso, col suo diario, creò l’ennesimo ritratto che, in un montaggio di scene attraverso il quale ci fece conoscere il suo punto di vista personale, ci inoltrò in una sequela di fotogrammi, brevi e repentini, sequenze d’immagini nitide e colorate che evoca un lutto interiore, una confidenza alla speranza e alla felicità, al vivere non un sogno camuffato in incubo ma vecchie ruggini che io ignoravo non completamente.
La sua operosità procede con lo scandirsi dell’orologio della vita, e questo romanzo è in un certo senso macchiato di sangue e polvere, popolato da anime vagabonde che assistono allo spettacolo ripugnante della guerra, sopportando con qualunque sacrificio questo disordine. Figli macchiati dal peccato che tuttavia possiedono quella forza spirituale per elevarsi alla luce: non la percepiscono, la ottengono con forza e determinazione. Osservano una tela dipinta d’azzurro mutarsi d’argento o grigio al colore della pioggia.
Viaggio del cuore umano logorante ma lucidissimo la cui melodia mi ha permesso di assistere all’avanzata di ombre che corrono verso la supremazia, la superiorità oscurando ogni cosa. Un’enorme quantità d’informazioni su ciò che fu più caro per l’autore che lentamente si sono fissate nel mio cuore, assetata di sapere e amore consapevole di quanto ancora non basti ciò che ho conosciuto.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo

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Titolo: Eugenio Onegin
Autore: Aleksandr Puskin
Casa editrice: Bur Rizzoli
Prezzo: 11 €
N° di pagine: 640
Trama: Questa raccolta di capitoli multicolori è il frutto trasandato dei miei piaceri, delle mie insonnie, del facile estro, degli anni immaturi e di quelli appassiti, delle fredde osservazioni della ragione e delle note dolorose del cuore.” Così Puškin stesso spiega l’Eugenio Onegin, romanzo in versi che ha ispirato l’omonima opera lirica di Cajkovskij. Eugenio Onegin è un giovane istruito alle migliori scuole francesi, egoista e annoiato, che dopo aver ricevuto un’eredità si trasferisce da Pietroburgo in campagna. Lì inizia a frequentare la casa della signora Larin, che vive con le due figlie, Tatiana e Olga. Dal cinismo di Onegin, la tristezza di Tatiana e le frivolezze di Olga nascono giochi di ironia, cenni aforistici e ammiccamenti verbali che permeano di poesia il capolavoro di Puškin.

La recensione:

 

Noi tutti, a poco a poco e in qualche modo, abbiamo imparato qualcosa, così, con l’educazione grazie a Dio, da noi. Ma risplendere in società è davvero difficile.

 

Ho trascorso gli ultimi giorni di dicembre immersa come in un sogno. Arrivai tardi, l’ultima a giungere fra le braccia di questo capolavoro, e il silenzio delle mie riflessioni mi rassicurano, come se leggendo comprendessi che non avevo offeso nessuno in particolare e che l’inesauribile pazienza dei libri porta anche a questo. Fu così che ho accesso a una cripta che ha la parvenza di un qualcosa di inspiegabilmente meraviglioso, apparentemente freddo e unico ma dal cuore tenero in cui la sensibilità del cuore umano, la bellezza dei sentimenti sono segnati da segni di natura innata. Dopo aver mostrato la sua parvenza, Puskin non nascose che quelle ritratte in queste pagine era pregno di vita e di luminosa poesia, elevati pensieri accolti con scherzo, isteria ma anche tanta malinconia, profondità, sensibilità che sotto il manto di mille bufere induce a dover lottare con ogni cosa, lascia segni di malsana tristezza, pregna dei sospiri di una Russia tenebrosa , sofferta ma tanto cara e amata. Diario intimo e intellettuale dell’autore, nonché riassunto di speranze, illusioni, allusioni razionalmente basate sul nulla, in scarabocchi di sangue. L’anima era surclassata da preoccupazioni e tormenti vari che solo quando lo spirito si acquieterà darà vita a questo poema. A questo splendido delirio in versi in cui il dolce tormento della gloria commuovono il sangue, mediante una lira immaginaria l’anima peregrina nel mondo. Slanci di un sogno verginale, incanti di una semplicità pura e profonda in cui la stessa letteratura si fonde con contenuti amorosi, mirabili, che si sposano con elementi classici quasi come atto di salvezza, sospingono alla pace, provocano una serie di fallimenti che inzuppano ogni cosa, condannano dritto dritto dinanzi l’insoddisfazione, la tragedia, la bellezza.
La splendida copertina con cui è rivestito questo romanzo, quasi vestito da un morbido pastrano per proteggersi dal freddo irriverente dell’inverno, ammiccava dalla mensola di una libreria troppo piena come una tentazione, un richiamo a vagare senza meta nell’aria, di cui tuttavia non fui sospinta ma accolta con caloroso abbraccio.
Eugenio Onegin fu concepito dall’autore come mezzo per detenere una vita tranquilla, stagnare la bellezza di luoghi che ristagnano l’anima, esplicano l’anima dello stesso Puskin quasi come un’immagine segreta di cui fu colto mediante l’apparizione delle Muse, fecero rivivere questo delirio sacro con quello dei poeti italiani, aperto a tutto ciò che è bello, elevato all’anima pura e nobile. E, come altri poeti, detentore di un potere, una forza in cui presto o tardi avrebbe intaccato qualunque cosa, persino le nostre fragili membra, sarebbe rimasto ingarbugliato dalla beatitudine, invaso da tempestosi errori mal contenute, zeppo di entità indistinguibili che ravvivano la speranza al punto che non si inaridisca, non diventi crudele e insensibile.
La tesi di Puskin era che l’uomo moderno non deve lasciarsi trascinare dall’inesorabile strisciare del mondo, credendo di aver trovato per caso il paradiso terrestre, un secondo Giardino dell’Eden. In un certo senso l’autore vi giunse in questo giardino, scrivendo qualcosa il cui tono è << reale >> ma ricco di numerose intrusioni che cambiano al mutare degli eventi, quanto la veridicità della stessa magia scaturita da questa splendida tortura in versi la cui bellezza è sottoposta dall’impossibilità di svegliarsi, ma completamente staccata dall’individuo come essere limitato ma vivo mediante quel fuoco del cuore umano quasi del tutto spento, che solo l’amore può ravvivare.
Mi è sembrato di dimorare in questo mondo dorato, ma opaco, freddo in cui il cuore prese una strada tutta sua, in cui gli uomini vivono nella semplicità e nell’innocenza, senza obblighi di leggi, senza costrizioni, contenti solo di compiacere sé stessi. Ciò di cui si scorge che supera ogni figurazione invettiva che solo i poeti potevano comporre, come tutte le poesie o i poemi amorosi teso a rappresentare la condizione di un giovane innamorato, il concetto e il desiderio della filosofia medesima. La scoperta di essere ciò che non si è, di sognare e poi destarsi all’improvviso fu l’impulso che stimolò il pensiero utopico, la scintilla che nutrì la speranza nella perfettibilità della vita umana: la condizione secondo cui l’uomo sarebbe stato quel che avrebbe potuto essere, autenticità di un figlio di Dio.
Quasi uno stato di innocenza che stona con l’aura magnetica, accesa del romanzo che per alcuni hanno classificato Eugenin come una sorta di bestia feroce, demone in forma umana. Ai miei occhi, un sognatore dall’anima semplice, pura, che non si tira indietro dinanzi a niente e nessuno, e che mitiga l’insostenibile pesantezza del mondo culminando nella parte del << buon poeta >>, che pose i fondamenti teorici classici della letteratura italiana e greca, nella convinzione dura a morire che l’unico uomo buono è quello che non si lascia condizionare da niente e nessuno ma completamente libero.
Basandosi sostanzialmente sul nobile Petrarca, sulla sua narrazione prosaica, sul suo amore per i poeti italiani e greci, Eugenio Onegin è amico del sognante amore di cui lo stesso sogno di cui è impregnato costituisce un’immagine segreta ma un po' distorta alimentata dalla presenza di una figura inspiratoria. Romantico per natura, per lo spirito del tempo, aperto a tutto ciò che è bello, elevato all’anima pura e bella, meravigliosa riesposizione di ciò che è avvenuto per Puskin in questo Giardino dell’Eden di cui ho fatto cenno prima: solo, ampliato dalla bellezza di un paesaggio le cui descrizioni, le cui stagioni coincidono con quelle dell’anima, con l’approccio con cui si << vivono >> certe emozioni, rappresentate nel suo valore complessivo per tutto il poema. Racconto che ha assunto un significato speciale, per me, che in altri tempi non avrei considerato: trattato assurdamente surreale di un amore che diventa cronaca di vita di un uomo qualunque. Quasi una Torre di Babele che si profilò come un’estrema immagine dinanzi a lui, prima che il mondo si svegliasse veramente.

 

Beato davvero l’umile innamorato che legge i suoi sogni all’oggetto del canto e dell’amore: alla ridente e languida bellezza! Beato davvero.. anche se, forse, la bella intanto è distratta da altri pensieri.

 

Valutazione d’inchiostro: 5


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Titolo: Le notti di Salem
Autore: Stephen King
Casa editrice: Pickwick
Prezzo: 12,90 €
N° di pagine: 656
Trama: Una casa abbandonata, un paesino sperduto, vampiri assetati di sangue. Quando il giovane Stephen King decise di trapiantare Bram Stoker nel New England sapeva che la sua idea, nonostante le apparenze, era buona, ma forse neanche la sua fervida immaginazione avrebbe saputo dire quanto. Era il 1975 e, da allora, il racconto dell'avvento del Male a Jerusalem's Lot, meglio conosciuta come 'salem's Lot, non ha mai cessato di terrorizzare milioni di lettori, consacrando il suo autore come maestro dell'horror. Questo piccolo classico contemporaneo viene ora riproposto in un'edizione illustrata arricchita da una nuova introduzione, due racconti e un sostanzioso apparato che raccoglie le pagine eliminate nella stesura finale.

La recensione:

Non credo si scordano facilmente le prime volte. Checchè si tratti di persone, di cose o oggetti, non penso dimenticherò mai quel momento in cui il Destino si frappose fra noi e ci indusse ad incontrarci.
Quando parlo di romanzi, di letteratura, rischio quasi sempre di apparire sdolcinata, quasi ridicola. Non me ne rendo conto, ma trattasi di un tipo di amore che non ha a che fare con la ragione. È qualcosa di potente che, in un momento imprecisato della mia vita, fu gettato come un seme nel mio spirito e, negli anni, alimentato come un fiore bellissimo ma delicato.
Dio benedica i libri!
E benedica pure la banalità del Caso, le coincidenze, se vogliamo così definirli, che delle volte ti inducono a scoprire un chè di straordinario, irrimediabilmente bello. Poi, dopo un sorriso abbozzato, ci si immerge fra le pagine di qualcosa che forse, in altri tempi, non avrei dato alcuna chance.
Col senno di poi, non avrei dedicato così tanto tempo a Stephen King. Con questa lettura non nego che anche io, per disgrazia o per fortuna, sono caduta nel tunnel kinghiano e da umilissima fan dell’autore, ho abbracciato questa ennesima storia consapevole che mi avrebbe portato chissà dove, ma completamente assorta da non saper distinguere la realtà dalla finzione.
Sono davvero contenta che quel contatto iniziale che nacque qualche tempo fa con 22/11/69 adesso sia divenuto puro e semplice interesse. Pian pianino recupererò ogni suo titolo, i nostri incontri saranno numerosi e ripetibili sortendo l’effetto che desidero, e in definitiva scuotendomi. Perché anche se tendenzialmente i temi trattati sembrano tutti gli stessi, non posso fare a meno di pensare che quelle raccontate sono delle vere e proprie allusioni. A cosa? Ad una realtà circostante squallida e insostenibile, che non si esprime chiaramente tramite parole quanto emozioni. La paura, lo stato d’animo intaccato da qualcosa di indomabile trasmettono si un forte senso di angoscia ma accrescono anche l’irreversibile consapevolezza che non può esistere il Bene senza il Male. Ogni essere umano si macchia di gesti che lo guidano dinanzi a un mondo limitato ma eterogeneo, e nel quale ci si domanda cosa accadrebbe se l’uno esistesse senza l’altro. Uno strato sottile come il ghiaccio dona immagini incerte, annebbia i sensi, infonde sicurezza di ciò che apparentemente sembra irreale in definitiva lo è, riconosciuto quasi come un gesto irriverente, diretto.
Le notti di Salem ha la stessa solennità del grande classico di Bram Stoker, di cui la storia è un chiaro e preciso riferimento. Tesoro inestimabile di sorprese pervaso da una certa forza la cui paura ha a che fare con ciò che più si prova impossibile da esorcizzare.
Non avevo altra scelta ed era già straordinariamente affascinante l'idea che, se avessi trovato l'opportunità di tralasciare momentaneamente qualche lettura, il mio istinto avrebbe confermato come la curiosità non si sarebbe smorzata se non prima avessi anch'io varcato la soglia di questo straordinario paesino.
La notte in cui mi ci recai, tuttavia, fu stranissima. Una ragazza di soli trent’anni, amante della buona letteratura e del buon cibo, pareva vivesse un sogno che in pochissimo tempo si trasformò in incubo, in un incredibile odissea famigliare che disgraziatamente l’ha indotta a buttarsi su se stessa e che da qui dipesero le sorti delle sue onorevoli gesta. Evidentemente cercavo una scusa per capire o comprendere al meglio quale fosse la vera causa di questa storia. Con il mio immancabile blocnotes, giunsi in una città sconosciuta, orribilante e puzzolente, coperta da una spessa coltre di sporcizia e fumo. Dovevo scoprire i motivi per cui gli abitanti temevano Jerusalem’s Lot, quali fossero le vere cause che condusse innumerevoli vittime alla morte, con in mano una valutazione valida che mi facesse considerare questa lettura onorevole e soddisfacente. Sono stata decisamente soddisfatta, anche se non così tanto da annoverarla fra le mie preferite.
Addentrandomi fra le vecchie e scalcinate mura di questa città mi parve un chiarissimo messaggio che la vera essenza dell'intero romanzo è racchiusa nella sua anima: in ciò che la nostra mente "vede", sente o percepisce a cui bisogna affidarsi pur di non affogare come un piccolo vascello. La morte è il tema primordiale su cui ruota l'intero romanzo. Ma questo non è nulla in confronto a quello che avrebbe potuto accadere. Niente che mi disse quali fossero state le varie cause o conseguenze che indussero i personaggi a restare soli, allontanati e additati da chiunque, nel bel mezzo del nulla.
Le storie che ritraggono la mente umana come meccanismo di autodifesa o che alimentano le ossessioni o possessioni di una normalissima famiglia, producono quasi sempre un certo effetto su di me. Non mi stancherò mai di leggerle! Certo, perché il palazzo oscuro e misterioso della nostra coscienza sa che prenderà spesso un vascello che la condurrà chissà dove. Per questo Le notti di Salem ha avuto un certo effetto su di me… E avanti che un romanzo simile non lo si può di certo rinnegare. Il bello in tutto questo è che talvolta non ci sono soluzioni a certi tipi di <<problemi>>, perché si può vedere come la vita è vissuta e scritta da ognuno di noi diversamente. Si tratta di una conclusione a cui sono arrivata, dopo aver concluso la lettura. Intesa a seconda di come noi la giudichiamo o com'era predestinata ad essere giudicata.
Non è questo forse uno dei tanti dilemmi dell'essere lettore?!? Stephen King mi ha raccontato una storia sotto certi varsi particolare, sotto altri magnetica che mi ha trasmesso un certo dolore, un certo dispiacere per il mancato affetto, il calore che si può ricevere da una famiglia, specialmente quando si è in balia di un dolore che supera qualunque previsione.
L'uomo non completamente libero perché mosso da ogni spirale di eventi; ossessioni e possessioni, promesse ad una rinascita che verrà messa a dura prova, il tutto condensato in un suggestivo disegno a tinte fosche che avrebbe potuto lasciare una cicatrice sul petto. Un racconto suggestivo, bizzarro ma ammaliante che è un inno alla letteratura horror. Una storia che consiglierei a tutti gli amanti delle storie spaventose e non solo, che illustra le teorie dell'esistenza umana nella sua morsa angosciante.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: L’insostenibile leggerezza dell’essere
Autore: Milan Kundera
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 12 €
N° di pagine: 318
Trama: Protetto da un titolo enigmatico, che si imprime nella memoria come una frase musicale, questo romanzo obbedisce fedelmente al precetto di Hermann Broch: «Scoprire ciò che solo un romanzo permette di scoprire». Questa scoperta romanzesca non si limita all’evocazione di alcuni personaggi e delle loro complicate storie d’amore, anche se qui Tomáš, Teresa, Sabina, Franz esistono per noi subito, dopo pochi tocchi, con una concretezza irriducibile e quasi dolorosa. Dare vita a un personaggio significa per Kundera «andare sino in fondo a certe situazioni, a certi motivi, magari a certe parole, che sono la materia stessa di cui è fatto». Entra allora in scena un ulteriore personaggio: l’autore. Il suo volto è in ombra, al centro del quadrilatero amoroso formato dai protagonisti del romanzo: e quei quattro vertici cambiano continuamente le loro posizioni intorno a lui, allontanati e riuniti dal caso e dalle persecuzioni della storia, oscillanti fra un libertinismo freddo e quella specie di compassione che è «la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia, delle emozioni». All’interno di quel quadrilatero si intreccia una molteplicità di fili: un filo è un dettaglio fisiologico, un altro è una questione metafisica, un filo è un atroce aneddoto storico, un filo è un’immagine. Tutto è variazione, incessante esplorazione del possibile. Con diderotiana leggerezza, Kundera riesce a schiudere, dietro i singoli fatti, altrettante domande penetranti e le compone poi come voci polifoniche, fino a darci una vertigine che ci riconduce alla nostra esperienza costante e muta. Ritroviamo così certe cose che hanno invaso la nostra vita e tendono a passare innominate dalla letteratura, schiacciata dal loro peso: la trasformazione del mondo intero in una immensa «trappola», la cancellazione dell’esistenza come in quelle fotografie ritoccate dove i sovietici fanno sparire le facce dei personaggi caduti in disgrazia.

La recensione:

 

Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive un vita soltanto e non si può né controllarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future.

 

Man mano che ci avviciniamo alla fine dell’anno, i giorni passano senza che io me ne renda conto, le sorprese che quest’anno mi ha riservato a quanto pare non hanno avuto ancora termine. Ma questo non è nulla in confronto a ciò che mi ha riservato questa lettura, ciò che provai quando finalmente vi giunsi. Perché da quant’è leggo non avevo mai desiderato leggere qualcosa di Milan Kundera. Che piacere scoprirlo, conoscerlo, cominciare ad inoltrarsi verso una strada da cui non avrò via di scampo, anche se sapevo dovesse essere così. Sembrerebbe un caso interessante. Devo dire la verità, però: prima di adesso non provavo assolutamente niente. La sua chiamata era sorda, non raggiungeva le piccole membrane delle mie orecchie. Ma adesso… ora si che sono davvero contenta. Aver valicato uno scoglio come questo, e osservare il paesaggio circostanze: davvero meraviglioso! Mi spiace solo non aver colto prima i continui solleciti di chi ha letto questo grande romanzo.
Grande ma non capolavoro per eccellenza, come sono soliti giudicare i critici letterari, che ho letto come immersa in un sogno. Ho camminato lungo le strade della Boemia, respirando a fondo il profumo della libertà, perché dietro a ogni pagina si nascondeva un’avventura. Il futuro è un’incognita cui nessuno sa definire, professare. Si entra in uno spazio magico che decanta così bene le divinità, assaporando la dolce leggerezza dell’essere. Stato di duplicità fra dramma e tragedia, peso insostenibile che grava sull’anima come un fardello troppo pesante. Così eloquente nel suo essere imperfetto, sbocco comunicativo o, ancora, attività estetica, quasi scherzo dell’immaginazione che ha un suo valore. Il senso di finitudine si congela in figure dalla luce vivida, si fissa sullo sfondo come una fotografia, nella dimensione dell’irreversibile,
Il romanzo di Kundera inconsapevolmente aspira ad emanciparsi e ottenere i propri diritti, analizzandoli chirurgicamente - perlopiù quelli che si nascondono dall’altra parte - sbarazzando tutto ciò che non ha una sua validità. Quasi si vuol rincorrere il mondo impadronendosi di lui, inzuppato dalla volontà dell’uomo che mira a sottolineare come le scelte di una persona appaiono irrilevanti se confrontati con la vita stessa. Su questo sfondo, il tono così reale di cui la parola è un buon processo di catarsi individuale e collettivo. Senza mai sfiorare l’oggetto delle angosce e dei tormenti di Thomas, Sabina, Franz, Teresa che si scoprono quasi sempre in fuga da se stessi, rincorrono l’ideale romantico di cui non ne conosceranno mai l’origine. Non nascono da un corpo materno quanto da una frase, una metafora contenente come un guscio una verità fondamentale. E quando si finisce di leggere è vuoto, quasi mi avessero tolto la mia stessa pelle.
Ero rimasta sola, ho pensato, dopo aver concluso questa lettura, qualche giorno dopo. Non ci sono più le loro voci che schiamazzavano nelle stanze polverose della mia anima. Seguono solo momenti di incertezza, dispiacere in cui un paio di volte ho maledetto me stessa per non aver desiderato prima tutto questo. Ma alla fine sono riemersa dalle tenebre: perché il mio è un temperamento solido, meno tetro della media, che non si lascia intaccare da niente e nessuno, quanto lasciarsi travolgere dall’emozioni… quelle mi fregano sempre! Forse il mondo è uno schifo anche su carta: chi sono io per biasimarlo? Anzi, non faccio parte di quella cerchia di lettori che hanno odiato questa lettura. Bensì ne è rimasta piacevolmente conquistata, quasi immersa ancora in uno stato di impasse che non riesco a dare una sua forma. Alcuna spiegazione possibile. L’eternità è un tema ricorrente che l’autore fissa nelle sue arti e nella letteratura il cui mondo si basa sull’inesistenza del ritorno, perché ogni cosa è perdonato e quindi cinicamente permesso.
La descrizione della vita di coppia di ognuno di noi, no? Riflettendo, quante volte desideriamo un ritorno al passato, un mutamento delle cose quando avranno una nuova vita, cosa esse diverrebbero se la stupidità non avesse intaccato ogni cosa? La vita umana è costruita come una composizione musicale, l’uomo è perennemente spinto dal senso della bellezza che trasforma un evento casuale in un motivo che va poi a scriversi nella sua vita. Così realista e metafisico, estenuante e doloroso.
È forse questo la miglior chiave di lettura per leggere e interpretare quest’opera? Si dispera, certo, per le continue divagazioni, gli innumerevoli interventi dell’autore, le nozioni filosofiche, le frustate sessuali a volte inappropriate, ma mai troppo a lungo. Dopotutto, dico fra me, non bisogna fare tutta l’erba un fascio. Questa lettura mi è servita, ha giovato alla mia anima, al mio essere. Non più una ragazzina, ma una trent’enne con qualche esperienza alle spalle, che sono l’ala della mia formazione caratteriale. Proprio io, che forse cinque anni fa non avrebbe compreso assolutamente niente. Ma la me di cinque anni fa ignorava tante cose. Non avrebbe potuto capire Thomas, il suo sentirsi << inadatto >> a non poter osservare la realtà circostante chirurgicamente, come dice lui. Non sarei stata in grado di vedere oltre, rispondere non solo all’anima di queste figure ma anche alla mia. Soprattutto la mia.
Ispirata da queste nozioni filosofiche, scopro di aver scovato un altro autore da tenere assolutamente d’occhio. Il momento di avvicinarsi alla sua anima era giunto. Avrei potuto farlo prima, ma… tant’è. Questo nuovo anno mi vedrà sicuramente tornare a passare del tempo in sua compagnia, forse ancora meglio di prima. Penso al paradosso della situazione: perché più lontana ero meno avvertivo l’esigenza di conoscerlo. E adesso, quanto più la situazione mi aveva risucchiata, mi assorbì completamente, tanto maggiore è la libertà di spaziare. A invischiarmi non tanto le tematiche in sé, quanto il connubio fra romanzo e saggio, inzuppato da nozioni filosofiche che ne accrescono il tono quasi elegiaco, che per qualche momento mi è sembrato volesse allontanarmi da questa dimensione tentando di cercarla, ma trovarla spontaneamente, per restarci quando l’avrei localizzata. Ed ecco che un’altra lettura aveva assunto vita indipendente. Da me, dalla mia volontà. Possessore di un’anima, di una sua voce, che ha gracchiato per qualche tempo prima che la ascoltassi completamente, trionfo di mente e cuore. Spiritualità ed emozioni, quasi atto d’eroismo che per alcuni si è rivelata come un’impresa titanica. Per me, una bellissima metafora concepita non da un grembo materno, quanto da un connubio di frasi che si sono avvicendate, lungo la corrente di un fiume,

 

Soltanto il Caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il Caso ci parla. Cerchiamo di leggervi dentro come gli zingari leggono le immagini formate dai fondi del caffè in una tazzina.

 

Valutazione d’inchiostro: 5


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Titolo: Sogno di una notte di mezza estate
Autore: William Shakespeare
Casa editrice: Rizzoli
Prezzo: 8, 50 €
N° di pagine: 408
Trama: Fate e folletti popolano il mondo fantastico di questa commedia di Shakespeare, lieve e raffinata, in cui amori e tradimenti si susseguono con comicità e grazia incantevole. Dalla bellissima Titania, regina delle fate, innamorata perdutamente di un uomo dalla testa d'asino, al comico e irresistibile Bottom fino al capriccioso folletto Puck, i cui errori nel somministrare i filtri d'amore muovono le sottili trame della vicenda. Una commedia lieve e briosa, ricca di improvvisazioni e colpi di scena, che inaugura un nuovo tipo di rappresentazione nel panorama shakespeariano, e che viene qui presentata nella celebre traduzione di Gabriele Baldini in un'edizione rinnovata a cura di Fernando Cioni.

La recensione:

Lotterò per amore; siamo fatte per essere corteggiate e non per farlo. Ti seguirò, e farò dell'inferno un paradiso se morirò per mano di chi amo.

Due coppie che incorrono un amore romantico e illusorio - dal candore non completamente purissimo, violato da una qualche forma di non castità. Amanti illuminati dall'acquoso bagliore della luna che lusinga per la sua contemplazione, confonde per la sua bellezza, ma che sembra piangere per il loro amore proibito. Questa è la storia di un sogno. Di quattro anime gemelle che combattono battaglie sconfinate tra sovrani di Fate e folletti pasticcioni. Questo è un quadro prettamente irreale del sentimento amoroso che, nel romanzo di Shakespeare, funge da bisogno primordiale di appartenenza, in cui l'uno non riesce a vivere senza l'altro. Non esige cambiamenti, ne vuole compierli. Spontaneo e irruento, in bilico tra il reale e il possibile in cui i personaggi, al momento del loro ricongiungimento, si fondono  insieme salvando le loro anime da un mondo di ipocrisia e irrazionalità.
Amando leggere autori romantici e, in particolare, storie forti in cui i protagonisti si ribellano alle convenzioni imposte dalla posizione sociale, pur di coronare il loro sogno d'amore, Sogno di una notte di mezza estate - in questi ultimi giorni di dicembre - mi ha colta impreparata. Avevo letto, fino ad ora, soltanto le prime righe di quello che è il resoconto di una proiezione astrale imprigionata sulle pagine bianche di un romanzo: sparute e intense dichiarazioni d'amore di quattro coppie e dei loro tormenti. Leggerlo tutto d'un fiato, a distanza d'anni, mi ha permesso di vedere quest'ennesima commedia shakespeariana sotto una nuova luce, e intuire come tutto sembrasse estremamente profondo, tragico, romantico. Solenne e illusorio. Con una vastità di temi trattati, ma con la luna perennemente presente, che apre e chiude la commedia e lascia intravedere possibilità nefaste fino al momento in cui si giunge alla benedizione degli amanti.
L'originalità sta nel modo in cui è raccontata. Il forte senso di malessere che trasmette la separazione degli amanti; l'amore che dà un significato ai discorsi per la sua lotta alla sopravvivenza; l'inferno visto come una sorta di paradiso, in balia alla morte, Sogno di una notte di mezza estate è una prodigiosa varietà poetica che ammalia e affascina. Ci sono voluti anni. Qualche piccola esperienza alle spalle, ma, alla fine, è riuscito a condurmi fra le braccia di amanti tormentati e insoddisfatti, in un luogo che immaginavo di conoscere. E non credo che, ai romanzi di questo tipo, non bisogna dare una seconda possibilità. Remota o piccolissima, ma pur sempre una possibilità.
Un bellissimo racconto romantico. Una finestra sul mondo dell'amore che, sono certa, non riuscirà a non sposarsi nei nostri pensieri.

Valutazione d’inchiostro: 4

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Titolo: Il regno
Autore: Emmanuel Carrère
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 14 €
N° di pagine: 428
Trama: "In un certo periodo della mia vita sono stato cristiano" scrive Emmanuel Carrère nella quarta di copertina dell'edizione francese del Regno. "Lo sono stato per tre anni. Non lo sono più". Due decenni dopo, tuttavia, prova il bisogno di "tornarci su", di ripercorrere i sentieri del Nuovo Testamento: non da credente, questa volta, bensì "da investigatore". Senza mai dimenticarsi di essere prima di tutto un romanziere. Così, conducendo la sua inchiesta su "quella piccola setta ebraica che sarebbe diventata il cristianesimo", Carrère fa rivivere davanti ai nostri occhi gli uomini e gli eventi del I secolo dopo Cristo quasi fossero a noi contemporanei: in primo luogo l'ebreo Saulo, persecutore dei cristiani, e il medico macedone Luca (quelli che oggi conosciamo come l'apostolo Paolo e l'evangelista Luca); ma anche il giovane Timoteo, Filippo di Cesarea, Giacomo, Pietro, Nerone e il suo precettore Seneca, lo storico Flavio Giuseppe e l'imperatore Costantino - e l'incendio di Roma, la guerra giudaica, la persecuzione dei cristiani; riuscendo a trasformare tutto ciò, è stato scritto, "in un'avventura erudita ed esaltante, un'avventura screziata di autoderisione e di un sense of humour che per certi versi ricorda Brian di Nazareth dei Monty Python". Al tempo stesso, come già in "Limonov", Carrère ci racconta di sé, e di sua moglie, della sua madrina, di uno psicoanalista sagace, del suo amico buddhista, di una baby-sitter squinternata, di un video porno trovato in rete, di Philip K. Dick...

La recensione:

Le nostre miserie nascono tute dall’amor proprio, e il mio è particolarmente dispotico, pungolato com’è dal mio mestiere.

 

Ci sono voluti quasi tre anni affinchè questo romanzo giungesse nella mia lista delle letture dell’anno, e qualche settimana purchè lo assimilassi e ordinassi le idee, dividendo ciò che mi piacque da ciò che invece mi ha indotta a storcere il naso, racogliendo in un bel mucchio secondo quella che poi avrei dato vita in una recensione. Questa massa informe di pensieri, dunque, fu il risultato di questa recensione, i miei più sentiti pensieri riguardo una delle tante opere sfornate da un autore francese che amo tanto che, sulle prime, mi trasmise piacevoli sensazioni. Mi risucchiò in un mondo doloroso e mutevole da cui non c’è alcuna via d’uscita, le cui fattezze sono molto simili a quelli della realtà circostante ma un po' meno accessibile. Perché meno accessibile? Perché quello ritratto in questo saggio, perché di un saggio o diario personale si tratta, contengono un numero spropositato, quasi nauseante di pensieri relativi al concetto di cristianesimo, religione. Nulla di personale, ma … che noia! Non credo che avremmo avuto bisogno di questa ennesima manfrina per sentirci dire che Dio non esiste, e che Il regno a cui fa riferimento è ciò che è profondamente sentito e promesso, ma che ci si lascia sfuggire come fiati di vapore nel bel mezzo dell’atmosfera. Niente che un saggio o un testo religioso non esplichi, ma che scritto con una certa spocchia, gesti narcisistici che sembrano quasi << conviverci >> a cambiare il nostro Credo, trasposti in sceneggiate, aspetti del pensiero dell’autore che non ho condiviso ma che rispetto il cui tempo di cui Carrerè sostiene e a cui bisogna dedicarsi non è coinciso con quello che attribuisco al sapore agrodolce della vita. La meravigliosa imperfezione del reale, quasi un tentativo di scovare una verità assoluta quanto smontare l’ingranaggio dell’ennesima opera letteraria.
Lasciare un libro a metà non è nella mia natura, e pur quanto avessi compreso, dopo le prime cinquanta pagine, dove l’autore volesse andare a parare, lessi con l’acerrima convinzione di comprenderlo. Perché Carrere si lasciò << sedurre >> dall’idea che Dio prima o poi avrebbe risposto ai suoi innumerevoli quesiti? Non promuovendo niente in particolare se non mettere in evidenzia il rapporto che si cela fra uomo e Dio, in particolare il suo, e l’atto di unione in preghiera avrebbe permesso di abbattere qualunque barriera. Disvelando zone opache della sua coscienza, malintesi, preoccupazioni poiché se si osserva attentamente le cose che ci circondano la verità sarebbe spuntata a galla. Sarebbe stata pregna di luce e non più di oscurità.
A cosa ero stata invitata? Ad un congresso letterario e filosofico che altri non è che un resoconto di documenti scritti in un periodo particolare della vita dell’autore, che tuttavia questa volta non mi vide partecipe o entusiasta. Il mio giudizio non allude a niente che non si avvicini a una sufficienza, poiché quando acquistai Il regno immaginai qualcos’altro. Quando lo vidi fulgere di una luce tutta sua, sullo scaffale di una libreria sin troppo piena, ero contentissima ed entusiasta di portarlo con me a casa. Nonostante la sua lettura avvenne quasi tre anni dopo, nonostante qualcuno mi aveva già avvertita: ogni esperienza è lezione di vita. Ma non avevo bisogno di questa cantonata per rivalutare Emmanuel Carrère. Ero già certa del valore letterario dei suoi romanzi, e sebbene questa opera non sia stato un chiaro esempio non credo relegherò l’autore in una stanza remota della mia coscienza. Anzi, presto gli darò quel giusto riscatto con la lettura di qualche altro suo romanzo. Ma non adesso. La posta in gioco era troppo alta: il mio intento di smaltire la pila della vergogna è quasi sempre più cristallino e acquistare un altro romanzo dell’autore avrebbe comportato a danni non certamente gravi ma che avrebbero stravolto la mia routine letteraria.
Adesso che è tutto finito, quando osserverò i miei amati libri, ricorderò Il regno come quel vascello letterario apparentemente confortevole in cui vi ho soggiornato per tanto tempo ma la cui meta è stata troppo poco soddisfacente. La fede, interconnessa non solo nell’ambito spirituale ma anche in altri contesti, è un unione che si creda dipenda da noi ma in realtà è dovuta da colui che crede in Dio. L’abbandono, lo slancio avrebbe dovuto condurci in luoghi in cui non si vuole mettere piede o che non si conosce, e dunque affidarsi al Creatore avrebbe equivalso ad arricchirci, bearci della bellezza della vita. Instillata dalla speranza come qualcosa di genuino, spontaneo, connesso al significato vero di felicità che è invece celato nell’esercizio della vita, delle virtù, nella pace dell’anima in cui si è influenzati dagli effetti.
Quella de Il regno è una visione personalissima dell’autore che, personalmente, non ho condiviso. Quale importanza ha la religione nella nostra vita soprattutto nel momento in cui ci si affida a qualcuno che non esiste, ma è onnipotente e assoluto, destando attenzione negli stolti o nei creduloni? Carrerè scrive questo romanzo per rispondere a queste domande e, soprattutto nello scoprire quanto potenziale si cela nella possibilità di non esserne completamente influenzati.

Valutazione d’inchiostro: 2

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Titolo: Macbeth
Autore: William Shakespeare
Casa editrice: Feltrinelli
Prezzo: 9 €
N° di pagine: 250
Trama: Macbeth torna vittorioso dal campo di battaglia e tre streghe gli profetizzano un glorioso destino, ivi compresa la Corona di Scozia. La sete di potere, condivisa e stimolata anche dalla moglie Lady Macbeth, lo spinge al delitto e infine all'amaro disinganno, per cui l'esistenza non è che 'una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla'.
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La recensione:

Il mio commiato con un maestro della letteratura inglese come Shakespeare fu così brusco che per qualche anno, precisamente da quant'è che lessi Amleto, lo ignorai impunemente. Sullo scaffale di una libreria sempre più grande, Macbeth e Otello avevano atteso il momento più adatto per cui mi accorgessi di loro. Incapace di fare alcunché, se non attendere pazientemente, rimasero lì, seduti, inermi, pronti ad attaccarmi nel momento in cui invasi il loro territorio. L'eco dei miei passi si spense man mano mi inoltravo in un fatiscente castello, rimuginando su ciò che avevo visto, fin quando mi dissi che le parole adoperate nel realizzare ed estrapolare qualcosa dal nulla non meritavano che un post tutto speciale. Un post in cui mi premuro di analizzare non un romanzo, dunque, ma entrambi i poemi tragici, che a eccezione dell'Amleto mi fece dimenticare quanto fosse in realtà bella la prosa shakesperiana. Poiché sono drammi che colgono frammenti di realtà, disordini politici e morali e sociali, con un fardello di fannulloni che non possono solo che arrabbiarsi con il Fato, in parte inconsapevoli di atti generati dalle loro stesse sorti.
Accompagnata come da un invito, ho così finalmente preso parte a due di questi famosissimi e splendidi viaggi. Niente mi avrebbe fatto cambiare idea, niente mi avrebbe distolto dal volere di benedire questa mia nobile impresa mediante l'architettata menzogna letteraria creata dall'autore, cosa che naturalmente ha sortito un certo fascino.
I miei occhi color nocciola si posarono cautamente e attentamente nel leggere le parole dello scrittore. Avevo preso sul serio l'incarico di colmare una grossa lacuna letteraria come quella di leggere e completare il Macbeth e Otello non soltanto rispettando la storia, ne criticando o giudicando un passato dei personaggi, le loro scelte o, per essere più precisi, la condizione di 'disagio' che vivono perennemente. Sapevo non si trattasse di una lettura semplice, ma la semplicità in questo caso ha superato ampiamente i miei poveri sentimenti, che teoricamente non si aspettavano niente, perché ero stata io ad abbandonarli e non il contrario. 
Nelle ore che seguirono mi chiesi se i sentimenti che aleggiano ancora nel mio cuore fosse amore, fascino o ancor più un semplice righello per misurare ogni cosa: la storia, lo scrittore, i temi. Ho avvertito così bene tutto quello che Shakespeare volle esprimere e riempire in poche pagine, che al giorno d'oggi hanno un valore inestimabile, e dopo qualche minuto di riflessione ho compreso che c'è una risposta possibile a quella domanda dall'enunciato così sinuoso: si, ho avvertito ogni cosa. Perché tutta la letteratura, ogni rimasuglio di forma d'amore deriva da un grande letterato come William Shakespeare.
Eppure, quando me lo trovai davanti mi sentii a disagio. Quasi fuori posto. Non ho le conoscenze adatte per scrivere e parlare di letteratura inglese, ma la letteratura americana e inglese arde nel mio petto. La luce tremula di una candela illuminava a stento la scena, tenendo in ombra i loro volti. Nessuno disse nulla, perché non c'era nulla da aggiungere. Macbeth, valoroso e coraggioso, e Otello, re di Scozia e marito di Desdemona, compierono atti impuri che si sono limitati a muoversi lentamente attorno a me. E da ciò ne deriva la ferma consapevolezza che si trattano di due gorghi inesorabili di amori e orrori. Poiché così foschi, cruenti, ricchi di dogmi politici e razziali in cui domina il male in ogni sua forma e sostanza. Sfoga nel potere, nelle ambizioni, medianti foschi e torbidi inganni che prevaleranno su ogni cosa.

Valutazione d’inchiostro: 5

2 commenti:

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