giovedì, ottobre 28, 2021

Una porta tra le parole: Rebecca la prima moglie e Rebecca

Succede che, quando un’opera mi appassiona finisco sempre per restare a bocca aperta. Con una limitata visione del romanzo, del testo in sé, appunto perché da essere consenziente ma umano prendo atto della mia effimera visione, fuori dall’Io, realtà discutibili e non fra quella percezione di ciò che conosco e non conosco. Esattamente come ciò che mi trasmise la lettura del romanzo di Daphne Du Maurier, che dopo una recensione sentita e appassionata, mi indusse a divorarne la trasposizione cinematografica. Vedere come registri di calibro come Hitchock ed altri avessero visto in quest’opera un piccolo tesoro di inestimabile bellezza, la cui anima avrebbe preservato nel cuore di molti per tanto tempo. E per l’appunto nella mia, che sapevo ben poco di ciò che vi avrebbe trovato fra le sue pagine, fatte di inchiostro e parole ma inondate di quel forte senso di inadeguatezza, di separazione che tuttavia non è svanito.
Così, come con tanti altri romanzi, una situazione del genere mi indusse a tornare in questo posto vedendolo però con i miei stessi occhi. Non appena scocca la scintilla si innesca in me un sentimento in cui l’ammirazione, il fascino mi inducono a guardarmi dentro per accorgermi che quella dei libri non è esattamente quel genere di esperienza separata che la si vive, come sostengono molti, ma pura e sofisticata realtà poiché niente esiste senza la sua totalità. Ma è un meccanismo che si innesca grazie a me. Comprenderne già la sua natura è già di per se una liberazione: la liberazione dell’illusione che tutto ciò non sia vero, non sia mai accaduto, poiché elemento a se stante,, per prendere coscienza della sua perfetta unità col tutto. Individualità significa anche limitazione. L’elemento essenziale però è che quando il richiamo di una storia è davvero impellente lasciarla andare diviene alquanto difficile. Non c’è bisogno di eventi o situazioni eclatanti per diventare qualcosa, perlomeno è ciò cui aspira la protagonista di questa storia. Una donna senza nome avvolta nella nebbia del mistero di una prima moglie il cui ricordo è difficilissimo da scacciare, al punto tale da divenire ossessivo e onnipresente. Si, perché è quello che è. Un ‘ossessione, una rincorsa alla sopravvivenza, alla comprensione. Non c’è niente da fare. Preservare il ricordo di una persona amata e cara a volte non basta. C’è semplicemente da capire il perché.

E questo fu l’interrogatorio che mi divorò le viscere. Nonostante siano trascorse una manciata di settimane, il ricordo di questa storia si riconosce nella sua splendida Totalità. Il suo ricordo è ancora forte e insito in me, e non farò niente affinchè svanisca. La letteratura però è anche questa. Saper prendere la giusta strada senza aver bisogno di una guida. Da qui la necessità di uno spirito, un guru che rompa l’oscurità dell’ignoranza, la classica storia con cui da secoli lettori di ogni sesso e razza vi hanno soggiornato. Dovevo solo comprenderla anche io questa necessità. Non importava quando, né come.
In Rebecca la prima moglie ci sono stanze dai lunghi corridoi, fantasmi che si aggirano come ospiti indesiderati, cameriere e maggiordomi diffidenti di abbracciare una mentalità diversa da quella del passato. Ma qua contava la somma dell’emozioni, di ciò che la protagonista di questa storia dovrà subire per riscattarsi. Appropriarsi di ciò che non ha mai avuto. Quasi un lungo pellegrinaggio dinanzi al lungo e lento cammino della Redenzione.
La trasposizione cinematografica degli anni quaranta e quella moderna del 2020 rendono giustizia a pagine di << diario >> attraverso cui non seguiremo esclusivamente le vicissitudini di questa esile ed anonima figura ma ci induce a guardarsi dentro, a conoscersi senza un adeguato strumento di conoscenza. Nient’altro che non sia celato dai sensi capaci di vedere, sentire, toccare, annusare il mondo della materia, il mondo dei sensi, e quello nella sua totalità. 

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