Tra le cose strane che talvolta la vita mi pone dinanzi come un pugno ancora bruciante sul viso è che sembra esistano interpretazioni, etimotologie che nemmeno io a volte riesco a dare un senso, a plasmarne la persona ma un insieme di identità contradditorie che cospirano contro di me, ogni volta che mi imbatto in qualcosa o qualcuno il cui richiamo è stato un suono profondo e roco. Bussola mi ha letteralmente chiamata, con uno schietto e sonoro monito d’attenzione, circondando la mia aura silenziosa e chiusa in se stessa sussurrando una storia che mi ha permesso di vivere sulla pelle la bellezza di un viaggio in cui ho potuto ritrovarmi e ritrovare un popolo, svariate etniee e culture che rivitalizzano una realtà locale che i clichè coloniali avevano spostato altrove. In un paese maledetto, terra di dolore e di morte in cui ogni cosa è fatta di sangue, che in un mare di interpretazioni filosofiche, linguistiche e morali interferiscono con la possibilità di fare esperienza di questa vita che non è nostra. La miseria di uomini e donne che è colma della poesia degli antichi, le superstizioni che fanno viaggiare nel tempo, scorgendo quelle ferite dell’anima che avrebbero aiutato a comprendere ogni cosa. Quelli che non amano un tipo di narrazione densa, che inzuppa la tua anima di sillogismi e sillabari intrappolati in un’atmosfera ovattata, irrespirabile tendono a interpretare questo romanzo come un polpettone etico e solenne. Forse fin troppo, per i palati più sensibili. Eppure è questa strada, quella di aver sciorinato le sue innumerevoli opinioni sulla politica, sulla bellezza di un artefatto mistico che avrebbe indotto chiunque a porlo dinanzi alla retta via, disvelando la verità, che non avrei potuto leggere questo mondo come un susseguirsi di coincidenze, incontri fortuiti che danno un senso all’insieme, che disegnano una matassa di fenomeni sviluppando reciproche avversioni, follie, patologie, ossessioni che coesistono in forme distorte di intimità e coinvolgimento..
Autore: Mathias Enard
Casa editrice: EO
Prezzo: 19 €
N° di pagine: 418
Trama: Con questo straordinario romanzo-fiume uno dei più prestigiosi e raffinati autori francesi ha vinto il Premio Goncourt nel 2016. È la storia d’amore tra Franz, uno specialista dell’Oriente, e Sarah, anch’essa studiosa delle civiltà orientali, un amore che dura anni e si snoda attraverso Europa, Iran, Siria e Turchia, attraverso timidezze, tradimenti, equivoci, passioni, rifiuti, incontri, partenze e ritrovamenti. Ma è anche la storia di un altro amore tormentato: quello tra l’occidente e l’oriente. Un amore raccontato attraverso le centinaia di storie di donne e uomini europei che nel corso dei secoli hanno dedicato le loro vite (e spesso le hanno perse tragicamente) all’inseguimento di questa passione “impossibile”. Con un’erudizione impressionante che non offusca mai il piacere della lettura, Enard racconta le vite avventurose e appassionate di quanti hanno scelto di viaggiare in Oriente, immergersi in quelle culture, vivere tra palazzi da Mille e una notte e suk variopinti, perdersi nei fumi dell’oppio, innamorarsi di donne e uomini misteriosi. Scorrono sotto gli occhi del lettore le immagini di scrittori, avventurieri, musicisti e viaggiatrici che si sono lasciati ammaliare dall’esotismo e dalla sensualità di luoghi come la Persia, Costantinopoli, Palmira; luoghi di questa passione divisa tra miraggio e illusione da una parte, e vite reali e ben concrete dall’altra. Cos’è stato l’orientalismo? Un miraggio del deserto favorito dai fumi dell’oppio e dai profumi delle spezie, o un vero incontro tra culture diverse ma complementari, una bisognosa dell’altra, alla continua ricerca dell’Altro che ci completa? Si è parlato per questo romanzo-capolavoro di “erotismo della cultura”, la sbalorditiva erudizione che sorregge le sue cinquecento pagine è un piacere, il frutto di una sensualità da cui il lettore si lascia cullare come fosse in un magico palazzo.
La recensione:
Non siamo né all’altezza
dell’amore né all’altezza della morte. Per questo ci vorrebbe il risveglio, la
consapevolezza. E invece non produciamo altro che succo di cadavere, tutto
quello che esce da noi è soltanto un elisir di sofferenza.
Leggere romanzi di questo tipo, in un certo senso, fungono da monito alla tua anima semplice e appassionata. Perché scrivo questo? Perché certe letture sono il presente e il futuro, perché la nostra coscienza inevitabilmente chiede di andare a passo svelto dopo certi incontri, dopo lo sciorinare concitato di idiomi, dogmi che sprigionano una sinfonia malinconica che non torna mai indietro, definizione stessa del dramma, consapevoli della finitudine da cui è impossibile scorgere alcuna forma di rifugio, consolazione o comprensione. E fu così che mi ritrovai a vagare per una strada gremita di gente di ogni sesso, razza, veloce come potrebbero camminare due persone senza mettersi a correre, fin quando il rumore fragoroso dello scambio fra culture, le diversità etniche, avrebbero indotto a guardarsi dentro con gli occhi di un altro, sedotti da una trasformazione dai ritmi e dalla sonorità che sono una continua ricerca del se. Si cerca continuamente quella specie di guarigione che dovrebbe sconfiggere la bile nera con il viaggio, il sapere, il misticismo, in cui il tempo è ragionato e circoscritto in suoni. Conoscere così una distorta variazione della propria coscienza nelle regioni dell’Oriente, piuttosto che la sua alterità, adoperandosi per la bellezza di certi strumenti dai ritmi e dai modi sincopati ma solenni. L’obiettivo sarebbe quello di comprendere e cogliere l’origine di questo canto, quello che crediamo di sentire, aspirare, aspettarci, resuscitare inzuppato dal silenzio mediante cui l’arte, la gioia, il piacere, la sofferenza sono un anfratto da cui bisognerebbe evidenziare la luce. Una malattia evasiva come la ruggine, una cultura sterminata in cui ogni frase, gesto o azione è un universo a parte. Una coperta che ti avvolge nel suo groviglio esacerbato.
Interrompere un flusso di coscienza così esorbitante, eclatante, non che ce ne fosse bisogno poiché è un piatto ricco e strafogante di pietanze che ho classificato splendide, ammalianti, per un lettore semplice e debole forse indigeste, ma affogato nel respiro di uno stato di prostrazione, malinconia, decadenza, quasi un caos generale in cui il mondo è in gabbia e nel quale molti cedono alla paranoia e perdono il senso. Un incubo perduto nel tempo così solenne, sonoro, diversissimo da qualunque cosa avessi mai letto sin ora, in cui il mio cuore si è sorpreso a fremere di un amore ardente per questa città, queste voci affinchè fosse colto il senso di questo richiamo. Il senso di una malinconia unica che ha turbato le sue notti, le sue giornate, in bilico fra modernità e antichità. Enard guarda se stesso, si guarda attorno sciorinando ferite che pulsano ancora nella sua anima proiettate in un mondo che traballa, la volontà di spezzare l’essere come aspetto volontario. Non questo romanzo a colpire, quanto le situazioni relative all’educazione, l’evoluzione che evolve e si dissolve prima di riformarsi nel grande tutto. L’oppio avrebbe mitigato ogni << malanno>>, avrebbe fatto scomparire qualunque assetto effervescente della coscienza trasportandoci nell’universale. Le continue disgressioni politiche e sociali avrebbero trovato sfogo in dichiarazioni di bellezza e disperazione assoluta, che inevitabilmente mettono a nudo la nostra anima. Immerso in qualcosa di estremamente malinconico, illogico che ispira una certa poetica, una certa bellezza, musicalità, l’utopia che avrebbe aspirato a qualunque forma di follia, proiettando un’ombra inquieta sul cuore di chi legge. Dio forse avrebbe messo a posto qualcosa, ci avrebbe relegato in un presente in cui due visioni contraddistinte avrebbero spiccato nel bel mezzo del nulla: quello urbano e meraviglioso, e quello debordante e erotico che trascina nella scadenza e nel vuoto. Il deserto avrebbe illuminato la nostra anima, ci avrebbe trasportato fra le braccia di Dio. L’amore è quel sogno utopico che pur aspirando a raggiungerlo non sarebbe stato in grado di raggelare completamente la nostra anima.
Bussola ricostruisce ogni cosa, ogni pezzo, ogni anfratto, ogni conseguenza di popoli la cui essenza sta lentamente per precipitare nel bel mezzo del nulla mediante cui, dalla sua essenza sarebbe stato possibile scovare qualunque assetto cognitivo ed etico. Il titolo infatti è un antefatto mistico che dovrebbe condurci dinanzi alla retta via, quella che ci avrebbe portato dinanzi alla Verità, pulendo qualunque residuo di putrefazione così tangibile e bevibile.
Per scrivere un romanzo del genere credo sia stato necessario rinunciare alla sua banalissima vita di terrestre, girovagando verso un lungo percorso che conduca lungo la contemplazione, che sprigionando una melodia bellissima che francamente non avevo ancora ascoltato incise un segno sull’anima che ha risuonato come fede sovrabbondante mentre la melodia rappresentava la pace divina. Una specie di utopia, realtà illusoria cui inevitabilmente si aspira. Quella cui aspiriamo un po’ tutti noi, no? Profanando quello che è un girotondo, una ruota del Destino a cui si tenta di fuggire.
Bussola, così come tante altre letture affrontate in passato, mi ha permesso di scoprire me stessa, esistendo perché il suo autore aveva decretato la sua presenza sul mondo, raccogliendo mediante parole ed eventi della sua travagliata vita un insieme di identità contradditorie, in compagnia di figure spezzate da istanti sbagliati, erronei, non predestinati a niente e nessuno. Con una compagnia così schietta ma tendenzialmente malinconica, mi sentì coinvolta, affamata di conoscenza e sapere. Un vero e proprio viaggio, insomma! Sensazionale, avvincente, triste, profondo, compassionevole, comprensivo il cui linguaggio forbito, talvolta frustante talvolta incomprensibile, tessono una tela di punti di forza che a mio avviso sono il capostipite dell’intero romanzo. Un bagaglio d’esperienza culturale, un amore inesorabile per la musica e la letteratura, un tesoro di inestimabile bellezza che ha avuto il potere di attrarmi nella sua orbita e farmi travolgere completamente. Il carismatico Fran, la sua storia d’amore con la bella Sarah, le sue interminabili e personalissime opinioni sulla politica, le guerre razziali, la libertà concessa ad un individuo, nonostante il colore della sua pelle, la razza o il sesso, tirarono fuori un’opera estremamente convenzionale, ma fatalista e moralista che ha abbracciato svariate situazioni che mediante scrittura hanno acquistato una loro forma. Nonostante ogni cosa sia avvolta in un sudario di inquieta neutralità, nonostante ci si nasconda dal passato, dalle tentazioni non facendoci più sentire così fragili e insicuri come un tempo. E l’autore è stato così bravo a farmi sentire così tranquilla, a mio agio nel muovermi in un luogo che non concede alcuna parvenza di moderazione, catapultata in un presente che ha la parvenza di qualcosa di antico e catastrofico. Distrutto viaggi mediante la povertà, la carestia, i massacri, facendo però restare intatta la nostra identità come se immersi in un sogno ad occhi aperti. Il mio universo era stato completamente travolto da un forte disincanto spirituale.
L’essere è sempre
in questa distanza, da qualche parte fra un sé insondabile e l’altro dentro di
se. Nella sensazione del tempo. Nell’amore che è l’impossibilità della fusione
fra se, e l’altro. Nell’arte, nell’esperienza dell’alterità.
Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo
Libro interessante, ottima recensione, grazie
RispondiEliminaA te 🤗
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