mercoledì, marzo 16, 2022

Sette gocce in sette giorni: romanzi vissuti in una settimana

Quando mi approccio ad un romanzo non mi lascio mai influenzare dalla mole o dal numero corposo delle pagine. Raramente mi accingo a vivere quella storia, quell’opera intimidita dal numero corposo di parole, sillogismi, perifrasi. Mi siedo sulla mia poltrona preferita, mi immergo a tal punto che mi lascia sedurre dal canto dolce e melodioso del suo autore o autrice, non avendo più bisogno di credere che la sua lettura possa terminare nell’immediato o durare più di quel che credevo. Qualunque sia il caso, io sono felice. Felice perché in entrambi i casi penso che quello è quel compagno di viaggio che mi ha scelto, o io ho scelto – a seconda dei casi -, e se il nostro tempo a disposizione è illimitato ben che venga. 

Questo post però nasce dal bisogno di parlarvi di romanzi che ho letto, in un momento imprecisato della mia vita, e che per caso o per fortuna abbiano previsto viaggi brevi da poltrona. Checchè si sia trattato di letture mai vissute o già vissute non ha importanza. Conta che il loro richiamo, così forte e dall’aura potente come figure mitologiche, mi abbia affascinato a tal punto da tesserne le lodi. Comporre lodi, improbabili quisquilie sentimentali e sdolcinate che forse non hanno un senso se non per me stessa. Quasi tutti hanno sconcertato e rapito il mio cuore, nello spettacolo della vita di straordinaria varietà.

Titolo: Una scrittura femminile azzurro pallido
Autore: Franz Werfel
Prezzo: 10 €
Casa editrice: Adelphi
N° di pagine: 131
Trama: Una lettera vergata in una «scrittura femminile azzurro pallido» fa riaffiorare la storia di un amore cancellato, simile a «una tomba interrata che nessuno riesce più a localizzare», nella memoria di un brillante funzionario viennese dal «cuore guasto».


 





La recensione:


Tutti noi siamo chiamati a rispondere di quello che facciamo. Non si dà soltanto la vita, ma la morte, la menzogna, il dolore, la colpa. Soprattutto la colpa.

 

Perché questa volta mi sono trovata in questa situazione? Non lo so. Talvolta non è il mio corpo, ma la mia anima a sussurrare cose, farmi agire senza che io me ne accorga. Forse questo è uno di quei tanti casi in cui si dice che un lettore fa parte se non addirittura diventa parte di una storia. Non un semplice spettatore, ma un personaggio che si muove assieme a tutti gli altri, in un caos fantasmagorico di voci e suoni in cui mi mossi disinvolta, incurante dell’eleganza, della raffinatezza, di alcuni assetti imitativi di letteratura di cui Werfel fece personale. Mi piacciono quei romanzi che ammettono storie e non fingono di esserlo, sebbene trapelino tanta verità. Tante certezze, tante possibilità.
Questo piccolo ma splendido romanzo fu quel compagno di viaggio che mi indusse a divorarne le pagine senza che io me ne accorgessi. L’amore, quell’ottenebrante e irresistibile desiderio di cadere, quell’ebbrezza di felicità, era un battesimo magico che era capitato persino al protagonista. Leonida. Un uomo un po' viscido ma uscito dal nulla della notte, borioso e spocchioso, fermamente convinto di essere uscito da un unico dispositivo di cui lui è il capostipite, un Dio sceso in terra che presto o tardi, in un misto di forme estreme e d’intolleranza volge le spalle ad occasioni di salvezza che tuttavia rimodelleranno il suo spirito. Mi sono resa conto che non sarebbe stato facile instaurarne un rapporto, e invece di giudicarlo negativamente, ho letto la sua storia con curiosità e avidità. Al buon Leonida la vita gli aveva riservato una spiacevole sorpresa: una vecchia fiamma aveva chiesto di lui, e quando una lettera vergata di una scrittura femminile color azzurro cobalto giunse nella sua splendida dimora, come tutti, in un primo momento dubitò fosse capitato a lui. Forse l’arrivo di questa lettera sortì effetti contrastanti perché la storia che l’autore si porta dentro la sentì come mia. Un modo per mantenere un contatto col passato, un tipo di alchimia per alcuni inspiegabile che ha dato vita a un legame che avrebbe accorciato le distanze, riempiendo il mio animo di dolcezza e stupore. Riuscire a guardarsi dentro con gli occhi di un altro serve sempre, ed anche questa è stata un tipo di esperienza che in un modo o nell’altro ho vissuto sulla mia pelle.
Così destabilizzante, quasi romantico e sensibile, con una finta motivazione che oltrepassa i limiti dell’impossibile, travolta da una realtà che presto sarebbe stata la sua, fra virgole di luce che trasmettono euforia, smarrimento, in una piccola cittadina la cui melodia si diffuse fluida, animata da una volontà propria.
In un pomeriggio di metà inverno, mentre l'odio, la violenza e gli attacchi terroristici dilagavano come una malattia, una sferzata di luce aveva illuminato l'oscurità come un fulmine. Una lunga lettera vergata d’inchiostro azzurro che intimidirono l’ozioso Leonida, ma che, nella sua bellezza, trovò la forza e il coraggio di sfidare il mondo e tutte le sue convenzioni. Ripristinando gli elementi, oltrepassando i confini dello spazio e del tempo. Nella tempesta impetuosa della vita, che in un primo momento potrebbe scaldare al sole e in un successivo andare in frantumi contro gli scogli, così ripetitiva e noiosa, in cui persiste una certa malinconia. Un forte e insano senso di malessere, in quanto lui e la sua amata compagna non hanno saputo lasciarsi contagiare neppure dalla fugacità di un misero atto di felicità investita inevitabilmente anche dal più insignificante. Circondati da lavoratori umili, ma bigotti imprigionati nella solida cella della diffidenza e dell'ignoranza.
Tra le sue pagine mi sono nutrita di una certa tristezza pensando al tempo che, ai personaggi di questo romanzo, non è stato concesso. Alla mancata libertà d'azione, ai giorni in cui hanno avvertito intensamente il peso delle aspettative di qualcun altro, che non li appartenevano. Rendendoli ciò che non avrebbero voluto essere, ma che sono stati: ragazzi sfortunati che hanno dovuto fare i conti con la vita e tutto ciò che ne conseguì.
Quello di Franz Werfel è uno di quei rari casi in cui una storia apparentemente banale, fin troppo semplice, cela un chè di profondo, travolgente, romantico, dolce che mi ha soddisfatta come desideravo, e che è un bellissimo affresco sulla solitudine, il desiderio di essere integrati nel mondo degli altri. Il racconto d'amore di un uomo solo e incompreso, che non ha mai voluto essere tale, e della sua mancata metà. Sul periodo di transizione all'età adulta, fragile nell'anima e appassionato come un magico tramonto che, emanando una luce intensa cattura il cuore in una stretta ferrea non lasciandolo più. Un’analisi prettamente realistica su un tema molto caro ai poeti romantici: l'anima. Descritta come una grande attrice, che la morte sperimenta in continuazione. Libera di interpretare qualunque situazione, cavalcare qualunque onda gigantesca.

Valutazione d’inchiostro: 4


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Titolo: Marie aspetta Marie
Autore: Madeleine Bourdhouxe
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: 16 €
N° di pagine: 145
Trama: In questo secondo romanzo della Bourdouxhe (che Jonathan Coe ha definito «una delle più belle scoperte letterarie degli ultimi anni») non siamo più nella grigia e fuligginosa periferia di Liegi, bensì nella douceur de vivre della Parigi della fine degli anni Trenta; e se Élisa, la struggente protagonista della Donna di Gilles, viveva nell'attesa, nel dono di sé, nella devozione assoluta per un marito di cui tutto sapeva accogliere e perdonare, Marie (che pure ama profondamente il suo, di marito) scopre la violenza della passione quando, su una spiaggia della Costa Azzurra, incrocia lo sguardo di un ragazzo di vent'anni dalle spalle sottili, i fianchi stretti e le lunghe gambe abbronzate. Un pomeriggio si incontrano, come per caso, su un sentiero che costeggia il mare e, su un pezzetto di carta che lei non getterà, lui scrive un numero di telefono. Che Marie chiamerà, tornata a Parigi, dalla cabina telefonica di un caffè.


La recensione:

 

Ma lasciamoci ogni volta, senza lacrime, e senza arrivederci. Separiamoci senza promesse e senza tenerci la mano, perché il nostro amore è una cosa viva.

 

Questo lungo racconto, se così lo si può definire, è una delle dichiarazioni d’amore che poche autrici come Madeleine Bourdhouxhe hanno intrappolato dalla risacca disomogenea del tempo. Nemmeno duecento pagine di palpiti, sussulti, sfregamenti del cuore, spasmi e stupori che furono composti quando la mia nonna emise il primo vagito sul mondo, qualche mese di stesura forzata e appassionata durante i quali taccuini, bozze, parole estrapolate a caso furono quegli effetti collaterali che la indussero a concentrarsi sul compito che si era prefissata, ovvero raccontare la storia della vita di una persona qualunque senza raccontarla come una storia di una persona qualunque quanto inzuppata di un chè di soave, dolce, calore, intrappolato in un ambiente famigliare che tuttavia bisogna indovinare, interpretare in cui ci si muove con difficoltà, quasi ansimando, quasi la paura e la sicurezza oscillano come elementi indivisibili. Procedendo per momenti continui che compongono un arazzo bellissimo, affascinante, intimo e introspettivo, malgrado il vuoto, il silenzio che ha assordato le mie piccole orecchie, ho immaginato questa ragazza non come una figura fatta esclusivamente di carta e inchiostro quanto un essere umano in carne e ossa che, isolata dal mondo, la sua storia si risolse in qualcosa di simile a una commedia drammatica francese, o a qualcosa di più che una semplice storia: un lungo tuffo nel rigore intellettuale e morale il cui eco proviene da gesti, echi, volti di passaggio in cui si ribadisce continuamente il diritto di vivere una vita diversa. Del resto, un’altra sua omonima eroina letteraria, si guardò allo specchio per esaminare ciò che nascondeva il suo volto, la sua anima, giungendo alla conclusione che non sarebbe mai stata in grado di riconoscersi, senza dubbio incrementato dall’impossibilità di poter vivere in una realtà ricca e soddisfacente.
Quella de Marie aspetta Marie è la più bella dichiarazione gestuale e intenzionale di proporre un mondo governato da dogmi e paradigmi in cui l’amore, la passione dei sensi è sopita nel bel mezzo di forme di attesa, l’incertezza di un mondo bizzarro pieno di cose non dette, una forza bruta che tiene sotto il suo gioco, che studia qualunque assetto tragico e inevitabile, nonostante si mira ad ottenere l’ottimismo, una certa forza morale, una certa esaltazione dalle stesse fantasie.
Come con La donna di Gilles, durante il processo di lettura, il mio cuore non ha smesso un attimo di sussultare. Le mie viscere si contrarono in continuazione, una massa informa si incastrò nel mio cuore, pareva che un groppo allo stomaco si fosse incastrato sul mio intestino e che questa nave su cui ero salpata non mi avrebbe permesso di scendere tanto facilmente. Evidentemente non avevo scuse per andarmene. Misi una certa dose di interesse, per non parlare di diffidenza, nel momento in cui Marie aspetta Marie approdò nel mio cerchio personale. Il miglior beneficio dell’anima. E quando tutto finì mi è sembrato di svegliarmi da un sogno chiarissimo il cui messaggio fu alquanto chiaro: perché non ero partita prima, questo bellissimo viaggio dovevo viverlo prima! Ripenso a tutte le storie d’amore che negli anni ho letto. Ma che cos’è l’amore? Un puro infuocato sguardo. Un cerchio d’attrazione. Quanti, almeno una volta nella vita, credendo non di non viverlo, ignoravano di averlo sotto gli occhi? Anche se poi non succede nulla: l’amore sboccia, sfoga nei momenti più impensabili. Allora? Capita che si cada fra gli incauti sussulti del cuore che non se ne è del tutto consapevoli, predestinati a questo tipo di sentimento.
L’amore diviene interpretazione di un mondo con assetti e sfumature diverse. Anche questo romanzo ha lasciato un segno del suo passaggio, e da ciò ho appreso che se certe cose vanno vissute è perché detengono un motivo. Il nostro stato d’animo spesso coincide con l’emozioni, con l’ambiente circostante, la libertà è intrappolata in una bolla di solitudine, insoddisfazione che dovrebbe scovare un equilibrio esteriore in un mondo di affetti domestici, gesti abituali, operazioni abituali …. E avanti a sragionare.
L’amore diviene interpretazione di un mondo con assetti e sfumature diverse. Anche questo romanzo ha lasciato un segno del suo passaggio, e da ciò ho appreso che se certe cose vanno vissute è perché detengono un motivo. Il nostro stato d’animo spesso coincide con l’emozioni, con l’ambiente circostante, la libertà è intrappolata in una bolla di solitudine, insoddisfazione che dovrebbe scovare un equilibrio esteriore in un mondo di affetti domestici, gesti abituali, operazioni abituali …. E avanti a sragionare.
Marie, vive sulla pelle la bellezza di certe emozioni, non scovando tuttavia alcuna soluzione ai suoi problemi, perché non si riesce a scorgere un granchè da un presente che in ogni momento possibile trasfiguri malesseri, dolori interiori, drammi che languiscono in forme di solitudine e vittimismo. Non c’è soluzione a tali problemi del destino perché si osserva la vita come scritta da qualcun altro, oppure la si può vedere come scritta da noi in ogni momento. Entrambe le versioni sono vere. Ogni decisione può essere presa da noi in base a una libera scelta o presa perché uno era predestinato a prenderla. Non fa niente per evitarlo. Ci si allontana ma impossibile; l’aura lucente della sua anima lo trascina all’indietro. In questo modo, questa lettura ha avuto un effetto assolutamente magnetico per me poiché ho accolto la storia della dolce Marie così come qualche tempo fa feci con la dolce Gilles. Ignara che, se non avesse dato retta alle condizioni del suo cuore, non sarebbe stata vittima di affranti e lotte interiori gravi. Ma il destino talvolta è ineluttabile e la profezia è una sorta di rituale da cui non se ne libera tanto facilmente: serve a far accadere quel che gli uomini di loro scelta non avrebbero fatto. Ma come capirlo? Come interpretare l’amore anche quando è egoista, crudele, tragico?
Penso alla potenza dei sentimenti che questa lettura ha sortito così bene. Chi sono io, per decantare le lodi di questa lettura? Una banalissima ragazza di ventinove anni che è stata colpita da un dolore profondo e mal espresso, che sa di lacrime ancora versate, sofferenza, disgusto, inquietudine che non ha più l’aspetto di terribile di rivolta o incredulità. Piegata su un fianco per trascendere nella naturalezza del tempo, trascinata nella crudeltà e nella follia. Fra mutamenti vari che rispondono sia ad una visione esteriore sia interiore, il tutto avvolto nel più rigoroso dei segreti.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo


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Titolo: Svegliami a mezzanotte
Autore: Fuani Marino
Casa editrice: Einaudi
Prezzo: 17 €
N° di pagine: 168
Trama: Un tardo pomeriggio di luglio in un'anonima località di villeggiatura, dopo una giornata passata al mare, una giovane donna, da poco diventata madre, sale all'ultimo piano di una palazzina. Non guarda giú. Si appoggia al davanzale e si getta nel vuoto. Perché l'ha fatto, perché ha voluto suicidarsi? Non lo sappiamo. E forse, in quel momento, non lo sa nemmeno lei. Ma quel tentativo di suicidio non ha avuto successo e oggi, quella giovane donna, vuole capire. Fuani Marino è sopravvissuta a quel gesto e alle cicatrici che ha lasciato sul suo corpo e nella sua vita. Ma le cicatrici possono anche essere una traccia da ripercorrere, un sentiero per trasformare la memoria in scrittura. Marino decide cosí di usare gli strumenti della letteratura per ricostruire una storia vera, la propria. In parte memoir, in parte racconto della depressione dal di dentro e storia di una guarigione, anamnesi familiare e storia culturale di come la poesia e l'arte hanno raccontato il disturbo bipolare dell'umore, riflessione sulla solitudine in cui vengono lasciate le donne (e le madri in particolare) e ancora studio di come neuroscienze, chimica e psichiatria definiscano quel labile confine tra salute e sofferenza: Svegliami a mezzanotte è un testo incandescente nel guardare senza autoindulgenza, anzi a tratti con affilata autoironia, in fondo al buio. Disturbante come a volte è la vita, ma luminoso nella speranza che sa regalare.

La recensione: 

Non esiste una verità circoscritta: la nostra idea di quel che è veramente accaduto non può che provenire da qualcuno, e questa è la realtà che proviene da me.

 

Molte storie trapelano messaggi che, qualunque sia la mole o la copertina con cui essi sono rivestite, inebetiscono e allietano lo spirito. Altri, invece, che esuli da qualunque forma di felicità, comprensione scavano a fondo della tua anima non dando peso a ciò che potrebbe comportare la sua lettura, ma tuffandosi dentro il libro con il desiderio insopprimibile di un atto di comprensione. Leggere la storia che la Marino si porta dentro è stato davvero bello, oltre che destabilizzante e comprensiva. Del resto non credo l’autrice abbia riscontrato non poche difficoltà nel riporre i suoi pensieri, nero su bianco, la cui vita gli crollò letteralmente addosso nel momento in cui meno se lo sarebbe aspettata. Non solo la sua famiglia le promise affetto, cure, attenzioni attente e meticolose, ma si erano ripromessi di non abbandonarla più nemmeno per un secondo. La sua anima perse vigore, brillantezza nel momento in cui fu risucchiata da un enorme buco nero, che in un primo momento si credette fosse il posto più adatto. In realtà erano solo i primi sintomi di una forma di depressione che, come la Marino, molti sono affetti, e da cui sembra non esserci alcuna via d’uscita. La normalità è qualcosa di mero e utopico.
Normali. Ma cosa significa effettivamente la parola normale? Niente che ci permetta di non farci sentire come lei, calarci nei suoi panni, aggrapparsi ad uno scoglio nel momento di più facile insorgenza che sconvolse del tutto la sua vita, a cui fu sequestrata la felicità, la sopravvivenza, la lucida perdita della coscienza, della mancanza di entusiasmo in cui non si riesce a rassegnarsi a vedere al di là d ciò che siamo diventati. O meglio, che è diventata. Un corpo privo di anima di cui queste pagine sono una confessione lanciata dalla soglia morale della sua insoddisfazione, che parla di libertà mancata, la possibilità di un imperfetta individualità, un silenzio assordante alimentato dalla paura, dalla realtà che sforna e deforma ogni cosa.
Non ho mai prestato attenzione agli autori italiani come in questo periodo della mia vita in cui ho constatato come vanno a braccetto col mio modo di leggere il mondo della cui esistenza tuttavia ero a conoscenza già da qualche anno, ma come  un’entità ignota, inesplorata e pertanto meravigliosa e bellissima che avrei dovuto prendere parte. La storia della Marino si mosse velocemente e dirimpetto nel mio cuore, studiandone la scorza, l’intensità di sentimenti che, sin dalle prime pagine, mi hanno indotta a comprenderne le passioni, le emozioni che muovono le cose, che hanno mosso questa giovane eroina dinanzi all’abisso del nulla, del terrificante e del tragico, considerando le possibilità di constatare la bellezza di certe tematiche. Così perfettamente in sintonia ai miei sentimenti, che non hanno indugiato – nemmeno per un istante – a guardare altrove. E ora all’improvviso, col mondo ancora sottosopra e distante dal mio cerchio personale, senza nient’altro che carta e inchiostro, mi sono concentrata su cose che i miei occhi non avevano ancora visto, sulla magnificenza di certe entità distorte che mi erano ancora sconosciuti. Se << malattia >> a questo punto diviene una parola forse fin troppo ripetitiva, eccessiva, un termine troppo blando per esprimere tutto ciò, può però avvicinarmi a ciò che ho provato leggendo Svegliami a mezzanotte. Avvolta da qualcosa di asettico, ameno, il cui umore tocca apici di dramma e sconforto. Raggiunse la sua intensità in maniera alquanto solenne in cui la solitudine, lo sconforto, il rancore,  sembrano trasparire dal suo aspetto facendoci così sentire accolti con un violento abbandono, una forma di repressione immersa in una condizione d’inerzia o ristagno. Prendendo parte ad un episodio inimmaginabile in cui la stessa si intravede appena sullo sfondo di una dramma sconvolgente. Perché è proprio qui che è come se si guardasse dinanzi a uno specchio, che rivela e denuncia nelle sue caducità e illusioni chi sono i veri personaggi, com’è la nostra anima, e che osservandola osserviamo anche noi stessi. La vita di ognuno di noi, il nostro sentirci perpetuamente insoddisfatti di voler raggiungere qualcosa che effettivamente non avremo mai, e che ci è sempre sfuggito di mano. La traiettoria di una luce di cui non sarà mai immersa, è il modo per cui questo romanzo mi prese alla sprovvista. Riverbera nella notte, nella solitudine del cuore, nella ricerca affannosa di vivere e sopravvivere, in sconfortanti fantasticherie che pulsano nel cuore, mettono a posto qualcosa dentro di noi. In un’epoca di recuperi, in cui si abbracciano le tradizioni, false imitazioni, in cui le passioni vivaci, impetuose, scuotono l’anima con una certa irruenza, pazienza, disperazione. Scosso da eventi che non hanno un loro perché ma dentro al quale si dispiegano i brevi e tormentati transiti della passione umana.

Valutazione d’inchiostro: 4


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Titolo: Una rosa sola
Autore: Muriel Barbery
Casa editrice: EO
Prezzo: 16, 50 €
N° di pagine: 170
Trama: Con questo romanzo potente e profondo, un ritorno alla narrativa realista dopo la parentesi fantastica, un’avventura nelle travagliate metamorfosi dell’animo umano, ritroviamo con piacere l’inconfondibile voce dell’autrice dell’Eleganza del riccio.
Rosa fa la botanica, ha quarant’anni, vive a Parigi ed è tristissima. O, per meglio dire, è depressa. Conosce i fiori, ma non li guarda; le piacciono gli uomini, ma solo per una sera; niente la appassiona, niente riesce a smuoverla dalla cappa plumbea in cui trascorrono le sue giornate, la vita le sembra un faticoso percorso senza senso.

Così è quasi per forza d’inerzia che parte per Kyōto per assistere all’apertura del testamento del padre. Di lui non sa niente, sa solo che è giapponese e che quarant’anni prima ha avuto un’effimera relazione con la madre. Non l’ha conosciuto da vivo, va a conoscerlo da morto.

Ma il Giappone è un altro pianeta e, anche se in un primo tempo le ciotoline da tè e i vialetti di sabbia rastrellata le fanno soltanto rabbia, piano piano si fa strada in lei una consapevolezza del profondo che la porterà a rivalutare se stessa e a vedere con un altro occhio quelle che fino a quel momento le erano apparse solo un’interminabile serie di disgrazie. Accompagnata nel suo viaggio di rinascita da Paul, belga trapiantato in Giappone, fedelissimo segretario del padre, Rosa conoscerà un nuovo concetto di bellezza che la porterà a elaborare un nuovo concetto di amore e quindi di vita.

Ma il Giappone è un altro pianeta e, anche se in un primo tempo le ciotoline da tè e i vialetti di sabbia rastrellata le fanno soltanto rabbia, piano piano si fa strada in lei una consapevolezza del profondo che la porterà a rivalutare se stessa e a vedere con un altro occhio quelle che fino a quel momento le erano apparse solo un’interminabile serie di disgrazie. Accompagnata nel suo viaggio di rinascita da Paul, belga trapiantato in Giappone, fedelissimo segretario del padre, Rosa conoscerà un nuovo concetto di bellezza che la porterà a elaborare un nuovo concetto di amore e quindi di vita.
Ma il Giappone è un altro pianeta e, anche se in un primo tempo le ciotoline da tè e i vialetti di sabbia rastrellata le fanno soltanto rabbia, piano piano si fa strada in lei una consapevolezza del profondo che la porterà a rivalutare se stessa e a vedere con un altro occhio quelle che fino a quel momento le erano apparse solo un’interminabile serie di disgrazie. Accompagnata nel suo viaggio di rinascita da Paul, belga trapiantato in Giappone, fedelissimo segretario del padre, Rosa conoscerà un nuovo concetto di bellezza che la porterà a elaborare un nuovo concetto di amore e quindi di vita.
Ma il Giappone è un altro pianeta e, anche se in un primo tempo le ciotoline da tè e i vialetti di sabbia rastrellata le fanno soltanto rabbia, piano piano si fa strada in lei una consapevolezza del profondo che la porterà a rivalutare se stessa e a vedere con un altro occhio quelle che fino a quel momento le erano apparse solo un’interminabile serie di disgrazie. Accompagnata nel suo viaggio di rinascita da Paul, belga trapiantato in Giappone, fedelissimo segretario del padre, Rosa conoscerà un nuovo concetto di bellezza che la porterà a elaborare un nuovo concetto di amore e quindi di vita.
Ma il Giappone è un altro pianeta e, anche se in un primo tempo le ciotoline da tè e i vialetti di sabbia rastrellata le fanno soltanto rabbia, piano piano si fa strada in lei una consapevolezza del profondo che la porterà a rivalutare se stessa e a vedere con un altro occhio quelle che fino a quel momento le erano apparse solo un’interminabile serie di disgrazie. Accompagnata nel suo viaggio di rinascita da Paul, belga trapiantato in Giappone, fedelissimo segretario del padre, Rosa conoscerà un nuovo concetto di bellezza che la porterà a elaborare un nuovo concetto di amore e quindi di vita.

La recensione:

 

Sono prigioniera della terra, eppure sono la possibilità della vita, plasmati per trasmettere le radici e il distacco dal suolo la pesantezza e la leggerezza, la potenza dell’azione a dispetto delle prigioni.

 

Di Muriel Barbery il suo elegante romanzo ha lasciato un solco profondo nel mio cuore, che non credo né il tempo né lo spazio potranno mai più colmare. Questa sua nuova fatica, nuova per me, possedeva un’anima di cui sinceramente ho diffidato, per qualche secondo, di poter conoscere. Voglio dire, oramai è chiaro e senza alcun dubbio che in questo mancato angolo di Paradiso di libri e recensioni non ne mancheranno mai. Sono la linfa vitale del mio esser, e pur quanto mi renda conto non sia del tutto buono abbandonarsi completamente a certe << quinsquiglie >> come sostengono qualcuno, io vivo per i libri. Mi sono trasformata in quel genere di lettrice orgogliosa, intelligente, che non si fa intimorire da niente e nessuno, ma insieme a quella capacità di impavidità ha acquisito un certo fiuto per quel genere di storie che io considero validissime. O almeno la maggior parte delle volte in cui avverto che un romanzo, una lettura possa soddisfarmi ecco che accade.
Con Una rosa sola avevo supposto qualcosa di simile e sono felice di constatare come sia stato così, come la Barbery aveva fatto nuovamente centro, e che tutta la verità dei miei sentimenti trapelano da queste poche righe. L’altro pomeriggio mi recai in un bellissimo posto in cui non apprezzai completamente la proprietaria, ma in cui il tempo trascorso con lei fu a dir poco piacevole. Lei era una botanica, un’amante del giardinaggio, e considerava le rose come prototipi di vita, gemme brillanti che li si vede fiorire e poi morire la cui osservazione suscita tristezza, ma anche un tipo di felicità totalmente pura e intensa che acceca col suo bagliore. Restia a qualunque forma di felicità, anima che vaga lungo la riva dell’assurdo il cui vuoto incolmabile causato da una famiglia quasi sempre assente ha rovinato la sua vita. La sua anima completamente rovesciata e mai più ripresa in cui il disincanto di un sogno apparentemente bello fungono da apertura dell’anima. L’anima, del resto, è colei che avrebbe dovuto fonderci col passato, il presente e il futuro. Avrebbe dovuto inscenare legami con la storia, una successione di fantasmi che si sarebbero dovuti ripercuotere nel presente dirigendosi in un'unica direzione.
Che cosa era disposta a fare per raggiungere anche solo uno sprazzo di felicità? Quanto si è disposti a perseverare, anche a costo di fare uno strappo alla regola, mettendo la solitudine, l’insofferenza, l’insoddisfazione sullo stesso piano dell’entusiasmo totale e appassionato? Solo un abbraccio caldo o una parola di conforto l’avrebbero qualificata, l’avrebbero resa viva, qualcosa di equivalente al disgusto che ho letto fra le righe quando lei si era voltata e osservato attentamente il suo spirito non potendo fare nient’altro che riflettere sulle proprie conseguenze.
Scrivendo un romanzo piuttosto breve, l’autrice non poteva sapere che dalla lettura di certe storie la mia anima ne esce irrimediabilmente guasta. Avendo letto tanto e leggendo tante storie di questo tipo spero sempre che certi racconti cantino alla mia anima semplice ma appassionata. E non solo vi ho risieduto affascinata, ammaliata dalla bellezza di un paesaggio bucolico che mi indusse a guadagnare un certo rispetto, ma vivere in questo minuscolo involucro letterario come un’improvvisa vertiginosa sensazione di ascoltare noi stessi. Ciò che ci sussurra il cuore, poiché quello che ho letto suonava quasi identico alla vita di molti di noi.
Fra un viaggio e un altro si rischia quasi sempre di confondersi, lasciare dietro qualche strascico, qualche rimasuglio di storia precedente – così impossibile da staccare – nel quale spesso desidero protrarne il suo ricordo evitando qualunque romanzo possa non coincidere con la mia anima. E quasi sempre i suggerimenti non si rivelano i più adatti, fremente di riscontrarne fra le sue pagine quella magia riscontrata precedentemente. Ma la lettura di Una rosa sola, che ho ignorato impunemente per due anni, è stata così bello che mi ha concesso di toccare l’anima di questo romanzo.
Del tutto inaspettato, ma anche voluto perché la situazione che stiamo vivendo stava già sfuggendomi un po’ di mano e i miei intenti di cibarmi di letture su letture aveva boicottato quella folle idea di smaltire ogni romanzo accumulato da mesi e mesi e sembrava non ci fosse niente e nessuno che mi avrebbe distolto dai miei intenti. Che dovessi così avventurarmi in lande desolate e sconosciute, in meno di tre giorni, dopo letture di svariato tipo, ho affrontato e interpretato il << magico >> mondo dell’autrice, circumnavigato da un folle cantastorie che ebbe il potere di trasformare la vita in un fiume cangiante, l’epopea di macchiette in bianco e nero in un posto confortevole e comprensibile si rivelò quell’unico spazio bianco che solo grazie all’arte potrà elevarci ad interpretare il linguaggio contorto della vita. Qualunque sfaccettatura, che essa sia pregna di passione o estetica, pur di dare un certo valore. In un’atmosfera ovattata, “relegato” poi scomodamente sul ripiano di una libreria fin troppo capiente, in compagnia di tanti altri autori già letti e amati intensamente. Abili cantastorie, schietti, spesso malinconici e depressi, che mi colpirono proprio per il loro essere tranquilli e disinvolti: scambiarsi facezie con altri compagni di penna senza alcuna faida visionaria che spesso incorre fra i più grandi autori, dai quali mi sono state rivolte numerose domande sul mio essere, sul mio modo di fare, che sfociano quasi sempre in vicende bellissime e indimenticabili. Ed ecco che qualche giorno dopo, come L’eleganza del riccio anche questo romanzo si disperse nello spazio ristretto della mia camera, dimorò elegantemente, maestosamente, quasi impercettibilmente, in illusioni rocambolesche che decretano quell’eterna lotta del reale sul possibile.
Alimentato dalla stessa forza delle passioni, sospese in un vuoto cosmico che ancora non fa sentire l’inattuabilità di certe battaglie, un viaggio dell’anima che attanaglia lo stomaco, nella sua inafferrabilità, guidandoci inconsapevole ad imboccare strade che ci inducono a fermarci sui nostri passi, riflettere, e solo dopo giudicare cosa e chi ci circonda veramente.
Ed effettivamente è una visione pessimistica ma veritiera della maggior parte di quegli individui che cooperano, instaurano legami, ma solitari nel giudicare o criticare ciò che ha veramente importanza. Ora la vita avrebbe avuto più senso, il ricordare è un tesoro inestimabile e il silenzio di cui è impregnato così opprimente quasi da impedirci di respirare in un'unica massa schiacciante sembrava avesse acquistato una certa forma, ma l’interesse era soprattutto per ciò che si ritiene scontato o inutile per rivelarci la verità, saper andare al di là delle cose, dotato del candore di un bambino e del cinismo di un adulto che ha un chè di ammirevole, non si vergogna per essere diverso, così come non ammette di essere rimasto saldamente ancorato a idee, pensieri o nozioni da concezioni filosofiche relative al pensiero antico.
A dispetto de L’eleganza del riccio una lettura emotiva e non razionale, che mi travolse con la forza e la potenza di un moto perpetuo e perenne. L’assurdo, l’irrazionale, l’inappagamento, la ricerca perenne di scovare se stessi coincide con l’idea di essere parti razionali di un tutto che osservano la vita, spesso lamentandosi su ciò che si ha e su ciò che si aspira ad avere, così apparentemente privi di passioni, desideri, amore, destinati a rimanere stupidi, brutti, sottomessi a quelle forme contorte o idee che lo edificano, lo innalzeranno verso trampolini di lancio dalle alture vertiginose, nonostante alterati dal processo naturale delle cose. Così ciechi dinanzi alle crudeltà, alla violenza, all’impossibilità di provare amore se non mediante un processo catartico.
Tutto questo racchiuso in nemmeno duecento pagine, consapevole di star contemplando il frammento di vita di un’amante della botanica qualunque, una donna di mezza età inavvicinabile e incomprensibile, in cui il suo processo di << rinascita >> affiorerà dal buio di un vasto fondale.
L’atmosfera malinconica, oppressiva, quasi soffocante, i colori vellutati ma color ruggine, lo sfarzo e quel sentore di inquietudine che aleggia tutt’intorno, il concetto di vita che evidenziano le sue pagine è intrinseco nel messaggio dietro al quale si nascondono ogni inimmaginabile pensiero, ogni stramba idea, che ti inducono a vivere in un tipo di illusione che ti sconvolge in quanto la percezione di desiderare ciò che bene per noi stessi non coincide con il processo crudele e meccanico della vita determinano il tipo di persona che siamo.
Romanzo che potrebbe rientrare nel sentimentalismo, nella vacuità di certe emozioni in cui la protagonista è un’anima alla deriva che si trascina quasi sempre nel fango, nella crudeltà, nell’indifferenza, come uno squarcio di luce che ne risalta le tenebre. Dipingendo la storia di una donna che, in un modo o nell’altro, desidera solo essere compresa, che non si discosta dall’idea di tristezza o rammarico che suscitano le sue pagine, in quanto ogni forma di gioia o contentezza è un soffio di vento che a malapena si riesce ad avvertire.

Valutazione d’inchiostro: 4 e mezzo


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Titolo: Taccuino di una donna timida
Autore: Orsola Nemi
Prezzo: 13 €
Casa editrice: Bompiani
N° di pagine: 176
Trama: Tra il 1955 e il 1965 Orsola Nemi raccoglie bozzetti, pensieri e poemetti che documentano una vita trascorsa in grandi case zeppe di libri e di gatti, aperte su giardini e orizzonti nei quali la fantasia ha spazio per correre ed esprimersi. Curiosa, sempre incantata dalla natura, osserva avvenimenti del mondo vegetale e animale, che paragona a quello degli uomini e su cui fa riflessioni profonde; e insieme nota e annota i grandi avvenimenti mondiali facendoli suoi, commentandoli e interpretandoli. Che sia trasognata o caustica, lieve o lancinante, sceglie sempre una lingua meditata e preziosa per consegnare agli occhi dei lettori, lei, donna timida, una visione del mondo che di timido non ha nulla.

La recensione:

 

Non si può capire in che maniera, in un mondo come il nostro dove, a ben guardare, Bellezza e Tragedia sono i padroni della scena, vi sia posto anche per gli imbecilli importanti.

 

Un taccuino, una pagina di diario, un foglio bianco. Che significato attribuiamo alla scrittura? Scrivere ha indotto grandi autori a valicare i confini dell’impossibile, raggiungere quasi l’Iperunario e arrivare …. Già. Arrivare dove? Beh, in luoghi non propriamente specifici ma appaganti, bellissimi, posti fatti di pomeriggi e magari anche sere in cui perdersi fra le pagine di un libro è uno dei piaceri più straordinari che la vita possa regalarci. Amante della letteratura, quella buona soprattutto, so oramai riconoscere come il mondo si era spostato in paludi limatrose, putride, e che sopravvivere equivale a essere una delle tante anime in arrivo che risiederà in questa landa desolata abituandosi a qualunque situazione. Mi conosco abbastanza bene per sapere che non avrei riscontrato alcun problema ad ambientarmi. Del resto, quando mai è così? E in questo breve ma interessante saggio sapevo che ambientarsi sarebbe stato alquanto facile. Perché? Perché i romanzi che parlano di anima, la squarciano o la mettono a nudo destano da sempre un certo fascino su di me, decisa a sfruttare qualunque possibilità pur di inserirmi.
Orsola Nemi, scrittrice, poetessa, amata da critici e politici ma sconosciuta sino a qualche settimana fa per me, redasse queste pagine con nient’altro che l’intento di documentare la vita, la sua vita, trascorsa in mezzo ai libri, nei quali la fantasia ha un certo sfogo. La sua è una visione trasognata, caustica, lieve, lancinante in cui paragone il mondo naturale all’uomo ma senza offesa dell’armonia, quasi un’indicazione per scrivere cose fantastiche e strane. A tal proposito la parola funse da convenzione, contrappeso in cui gli stessi pensieri sembrano inesprimibili, irriconoscibili, ogni capitolo è costellato da massime di vita, pensieri in cui l’illusione di trovare nella negazione paure o regole sintattiche documenta una Valle dell’Eden mancata in cui ci si affanna a contrastare un dolore insopprimibile e insormontabile. Il suono del mondo, quello dei suoi pensieri ecco che si leva sulla volta celeste lasciando in un certo senso una traccia del loro passaggio, configurando così una forte opposizione tra questo << movimento >> dell’anima e il suo modo di osservare la realtà circostante. Riporre queste poche righe avrebbe riflettuto la sua anima, affinchè le parole fossero libere dalla solida cella delle restrinzioni non ottenendo praticamente nulla se non un profondo e insano stato di estasi per la parola scritta.
L’autrice si assunse l’onere di mantenere le sue posizioni visive e sociali, compito che assolse raggiungendo il cuore di chi legge in una posizione di spicco da quello del mondo circostante, e una volta arrivato ai vertici la smania di allontanarsi, di fare nuove scoperte, percorrere il mondo affinchè certi segreti insulsi limitano il cammino, conducono lungo una strada  segnata dall’abitudine. È stato così che quest’opera entrò nelle stanze oscurate del mio animo, sbarcando negli ultimi giorni del mese di febbraio, arrivando a possedere il mio cuore ritrovandomi ad ascoltare gli incauti sussulti di un cuore estremamente dolce ma sofferente.
Un diario: una sequela di confessioni, segreti che parlano al cuore con pazienza e parsimonia, si sistemarono in un angolo della mia coscienza, illustrando la virtù di questa donna meditando sulle tempeste emotive che subì in prima persona, specialmente quando si riflette sul significato intrinseco di relazionarsi col mondo, se avrebbe mai trovato il coraggio di resistere a qualcosa più grande di lei. Un opera che nella sua brevità, non insegna granchè ma getta ombre complesse e incrociate su svariati aspetti, che disgraziatamente alla fine verteranno in una disgrazia, il cui ricordo tuttavia continua a restare, a permanere, a parlare di tutto e niente, il cui brivido di piacere che mi ha attraversato sin dal primo momento in cui mi sono approcciata alla sua lettura svanirà lentamente nell’atmosfera.
Valutazione d’inchiostro: 3
 
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Titolo: Amore colpevole
Autore: Anna Tolstoja
Casa editrice: La tartaruga
Prezzo: 17 €
N° di pagine: 208
Trama: Anna ama la natura, legge, dipinge e sogna un amore puro e ideale. Ha solo diciotto anni quando il trentacinquenne principe Prozorskij la chiede in sposa. Convinta di aver trovato in lui il vero amore, dovrà invece scontrarsi con un marito capace di concepire il sentimento solo come possesso carnale. Sarà un amico del principe, Bechmetev, un artista, a farle conoscere quella consonanza di anime in cui crede. E anche se Anna deciderà di restare al fianco del marito e dei figli e di combattere per salvare il suo matrimonio, sarà lui, Prozorskij, consumato dal dubbio e dalla gelosia, a trasformare irrimediabilmente quell'amore puro, a cui Anna è disposta a sacrificare tutto, in un «amore colpevole». Il destino di Sof'ja Tolstaja, l'amatissima moglie di Lev Tolstoj, fu quello di vivere all'ombra di un uomo di genio, rinunciando alla sua passione per la scrittura. Ma ora questo romanzo, che vide la luce solo diciassette anni dopo la morte dell'autrice, restituisce al lettore la sua voce, che colpì Tolstoj per la sua «forza di verità e semplicità». "Amore colpevole", la risposta di Sof'ja alla "Sonata a Kreutzer", è la storia parzialmente autobiografica di Sof'ja e Lev, un romanzo sulla gelosia, la sfiducia e il disprezzo che logorano ogni matrimonio.

La recensione:

 

A volte, quando corro, ho la sensazione che mi basterebbe puntare un po’ di più i piedi per spiccare il volo. Anche l’anima deve essere sempre pronta a spiccare il volo …nell’infinito.

 

Certi romanzi possiedono un certo stile. Detengono il forte bisogno selvaggio di essere se stessi, solo e unicamente se stessi, perfino a costo di offendere chi avesse letto, un animo testardo che affascina sempre la mia anima semplice ma appassionata, che ho visto in questa storia una donna intrappolata nel suo corpo, quello di ragazzina, una donna che non ha mai abbandonato i suoi principi, che non ha mai smesso di essere del tutto libera e indipendente fin quando Dio l’accolse nel suo abbraccio, esattamente ciò che accadrà prima o poi a tutti noi.
Anna Tolstoj, la moglie del grande poeta e scrittore russo, aveva un animo audace, un temperamento apparentemente forte, duro che tuttavia si lascerà contagiare dai dettami di un cuore che sussulta a ogni reazione amorosa. Nonostante gli innumerevoli tentativi di astenersi, annullarsi, il suo cuore è turbato dalle stesse eterne angosce. E al di là di questi imperativi, c’era la confutazione da parte della stessa autrice secondo cui i sentimenti, la mancata libertà, l’idea di poter cambiare un mondo che in quel momento si stava avviando verso la distruzione più totale.
A questo mio ennesimo viaggio spericolato si aggiunse il tentativo di comprendere come e perché mi fossi piombata qui, in un paesino della Russia sul finire del 1800, piena di strane storie da ascoltare e sentire. Ogni giorno è portatore di speranze, eventi, sensazioni che mi sconvolgono completamente; il richiamo al vecchio e al nuovo, è sempre così prepotente  che negli ultimi tempi mi sono trovata ad amare certe storie molto più di quel che credevo.
La protagonista della storia che mi è stata letteralmente sbattuta sotto il naso abitava in una casetta a un piano in una lunga fila di casette tutte uguali, incastrate fra due avvallamenti, il cui accesso conduceva in un posto meraviglioso: una biblioteca. L’immagine della mia felicità. Non il luogo più adatto da scegliere fra posti diversissimi e migliori – il Cimitero dei libri dimenticati è un esempio -  ma quel covo di incontri e scontri che picchieranno sulla testa di Anna con prepotenza e ossessione, quasi una confessione lanciata dalla soglia del suo animo. Ogni cosa era descritta benissimo. Accettare quell’ineluttabile accettazione del mondo così com’è e di noi stessi in quanto esseri sostanzialmente completi, sono alcuni di quegli elementi che evidenziano la personalità di Anna formata dallo stesso sistema, che la opprime e la induce a entrarne a far parte.
Gioisco nel pensare di essere capitata in un luogo che ha sortito nell’immediato un certo fascino, a vedermi lì camminare silenziosa, a parlare dei fatti della loro vita, e quasi sempre devo cercare di contenermi per non scoppiare a ridere all’idea che qualcuno che ai giorni nostri avrebbe volto le spalle a tutto e tutti per raggiungere i suoi scopi potesse invece soffrire in questo modo, senza però ottenere effettivamente niente. Si, poiché Anna si vedeva come dominata dalla presenza di un luogo da cui vorrebbe allontanarsi, così trascurato e malinconico. Dominata da una forte riluttanza del vivere, a osservare il mondo che la circonda. Ciò che vede o sente ha un suo peso e una sua vivacità di cui non è abituata. Persino le cose sgradevoli sembrano essere degne d’attenzione perché anch’esse sono parte di lei. Il passato non poteva tenerla avvinta quando il presente è così ricco, quando le stesse sorprese della vita hanno il potere di offuscare persino le cose più impensabili.
Ero io che stavo suggerendo tutto questo, o effettivamente Anna aveva bisogno di capire che per intensificare lo splendore del suo animo, la sensazione di giovinezza e tenerezza che questa fuga dovrebbe conferire perdono in lei quei pochi contorni che aveva assunto. Allegoria di una mancata libertà, sopravvalutata e vana che impedisce ogni cosa, causata da disordini, dalla decimazione di un sistema che ti induce a non poter fare altrimenti. Ed io che la incitavo a fare tutto questo. Non mi parve però che Anna mi avesse sentito.
In Amore colpevole ho visto il preludio di uno scenario meraviglioso che avrebbe potuto diventare più grande e maestoso. Se quelli che lo hanno abbandonato non avessero considerato il loro ritorno alla stregua di una risa, non avrebbero visto come la Russia era quel luogo oscuro, svuotato di fascino e ricchezza di cui la stessa autrice avvertì sensazioni avvicendarsi come ombre sempre più ostili di cui la società fu oscurata da un’ombra più oscura della guerra civile. L’autrice avvertì un certo dissenso, in tutto ciò, perciò descrisse così bene questa storia. L’irritante egualitarismo della vita rurale, sentimenti ambivalenti o ignoranti nei confronti del passato, la nebulosità di valori, l’assenza di cultura, e la povertà intellettuale che si riscontra in quest’opera e in altre pubblicate dall’autrice descrive quell’età dell’oro in cui la gerarchia sociale, la libertà personale, il rispetto per il prossimo e il passato e una consapevolezza di quei valori che dominano la vita dell’alta società. C’è un vincolo che lega i valori di una società e il suo ambiente sociale, l’esistenza vuota dei personaggi e la sua correttezza. Ma comprendendo l’ambiente possiamo comprendere le persone.
Algido e impenetrabile, circondato da quella patina di emozioni che ti scavano dentro, romanzo che affonda le sue radici nel cuore di chi legge non badando a niente e nessuno se a ciò che potrebbe intaccare la sua anima semplice e lucente.
Non solo quella pantomima scissione fra vecchio e nuovo in cui il vecchio sembra mescolarsi al nuovo con estrema cura, ma il bisogno impellente di scovare quella via di fuga, una libertà intrinseca a qualunque forma di possessione e ossessione, slancio di azioni e pensieri che si tramutano in impulsi emotivi la cui ondata è però talmente travolgente da aprire varchi nel cuore. La veridicità di certi fatti che sono stati sottoposti dall’impossibilità dell’uomo di adottarsi al progresso, in cui alla fine Anna resterà ancorata ai suoi obiettivi, che non ha mai abbandonato i suoi principi, non ha mai toccato la corruzione, venduta ma essere audace di cui l’ignoranza dei paesini di provincia, l’assetto sociale non avrebbero potuto prevalere. Piuttosto cambiare prospettiva, visione del mondo.

Valutazione d’inchiostro: 4


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Titolo: Il grande Gatsby
Autore: Francis Scott Fitzgerald
Casa editrice: Feltrinelli
Prezzo: 8,50 €
N° di pagine: 230
Trama: Il grande Gatsby ovvero l'età del jazz: luci, party, belle auto e vestiti da cocktail, ma dietro la tenerezza della notte si cela la sua oscurità, la sua durezza, il senso di solitudine con il quale può strangolare anche la vita più promettente. Il giovane Nick Carraway, voce narrante del romanzo, si trasferisce a New York nell'estate del 1922. Affitta una casa nella prestigiosa e sognante Long Island, brulicante di nuovi ricchi disperatamente impegnati a festeggiarsi a vicenda. Un vicino di casa colpisce Nick in modo particolare: si tratta di un misterioso Jay Gatsby, che abita in una casa smisurata e vistosa, riempiendola ogni sabato sera di invitati alle sue stravaganti feste. Eppure vive in una disperata solitudine e si innamorerà immensamente della cugina sposata di Nick, Daisy.


La recensione:

        

La vita sembra molto più di successo se la si vede da una finestra sola, dopo tutto.      

        

Fitzgerald, mediante un uomo di bassa statura, avvenente ed educato, mi raccontò l'episodio che lo privò della sua sicurezza. La persona che egli amò di più, in un periodo piuttosto turbolento della sua vita, incarnato in una figura pulita, dura e categorica, immersa nello scetticismo universale, che altri non era che l'alter ego dello stesso Fitzgerald o nemesi di una figura che col tempo e gli anni molti lettori hanno amato e coccolato. Mi fece sentire stranita, sorpresa di questa intensità che pervadevano queste pagine autobiografiche, proiettate in un "luogo" senza passato che l'autore ha creato dal nulla, dal rozzo vigore che invita i vecchi eufemismi e dal destino troppo invadente che conducono i personaggi lungo una scorciatoia che porta al niente. Molti lettori, fra cui la sottoscritta, non sono stati in grado di cancellare dalla memoria, ne desiderano si cancelli il suo nome dalla memoria, e rievocano la figura di Gatsby esattamente come Dick Diver, la cui figura emerse dal passato come un immagine ben definita, con una voce apprezzabile, uno sguardo profondo di occhi intensi, accesi e astratti, e una bocca sensuale che avrebbe fatto innamorare qualsiasi donna avrebbe incontrato sul suo cammino. Lo scorso weekend, mentre era perso nei suoi pensieri, vide la mia figura piccola ed esile avvicinarsi al suo orecchio e sussurrargli qualcosa; quello che non sapevo era che lo stesso Gatsby, nel suo temperamento forte e un po' distaccato, trapelava qualcosa di nebuloso, preoccupato, vago, drammatico persino, che involontariamente me lo aveva fatto designare come qualcuno a cui è stata strappata la felicità. Ogni rimasuglio di speranza, addirittura di vita, che vaga lungo la riva dell'assurdo; eppure Gatsby, così come Dick, sono due figure conosciute e "osannate" come uomini che possono fare qualunque cosa gli capiti fra le mani. Uomini ricchi e potenti, che avanzano verso nuvole evanescenti, che poi fluttuano verso il cielo. Uomini piuttosto avvenenti, possessori di garbo speciale come parti integranti della loro vita, passata e futura, non dettata dalle circostanze.
Mi è sembrato troppo poco, troppo frettolosa questa lettura, questo tempo trascorso in sua compagnia; accettare la separazione è stato un passo alquanto difficoltoso. Queste due figure hanno avuto in comune la predisposizione di nutrire una certa avversione, una certa paura verso la vita. Talvolta ho avuto l'impressione di aver affiancato un uomo vuoto come un guscio. Ho avvertito tutto il peso della sua tristezza. Come potevo aiutarlo? Gatsby si crogiolava nel suo dolore, si deperiva senza che io potessi fare qualcosa.
Eppure, quanto è stato grande il suo bisogno d'amore! Quanti sono stati innumerevoli ed infinitesimali i sentimenti che nutriva per la bella ma antipatica Dasy, e come si illuminava quando la vedeva comparire nel vialetto con la sua mini car tirata a lucido. Che razza di stupida sono stata io! Quando, dopo la conoscenza di certi personaggi, si incomincia a riprendere conoscenza di ciò che ci circonda, della realtà che ci circonda, una delle prime constatazione che si fanno, uno dei primi, inevitabili segreti che si hanno quando si termina di leggere certi romanzi, sono le sensazioni. Ancora adesso non riesco a tenerli a bada, ma cosa avrei dovuto fare? Spegnere l'interruttore del cervello, e lasciarmi andare alle sorti di un fato egoista e crudele? Trasferirmi in un nuovo corpo? Proprio no. La luce che ho visto scorgere, crescere, e poi sfavillare come meravigliose scintille sono divenute più forte man mano che leggevo.
Il congegno artificioso delle emozioni, dei ricordi, esposti quasi sempre ai venti della vita, uno stile nevrotico e frenetico, mi hanno consentito di calarmi nel vivo di un mondo al'apparenza popolato da cartoni animati, di personaggi drammatici che scontano fino alla fine il mestiere della vita. Accadimenti tutti diretti verso la dissolutezza di Gatsby, ma anche di Nick, Dasy, con tracce di autolesionismo autobiografico.
E' stato davvero impossibile spiegare la bella storia di Il grande Gatsby … o meglio dire dello stesso Fitzgerald. Complesso e un po' algido, nel grande bazar della vita, in cui si preferisce la qualità alla quantità, divenuto famoso per la sua somiglianza con lo scrittore americano.
Una selvaggia immersione dell'anima, un tuffo di tutti i colori in un'unica tinta scura, una debole cantilena americana che continua a corteggiare il mondo, trascese con una certa durezza, con autocontrollo e disciplina del secolo. Sullo sfondo di un crepuscolo verde, in una New York un po' affollata e colorata, fra feste, cockteil e pianoforti che sprigionavano una splendida melodia.
Una storia che sembra fluttuare leggermente verso il cielo come una pista da ballo sui piani, dando al lettore la sensazione di essere solo nell'universo, sfamata da una miriade di parole, scaldata da un'unica luce al mondo. Con personaggi che brillano, si espandono, lusingati della mia presenza, ed io della loro, rimpiangendo nel silenzio delle loro riflessioni il mondo che si sono lasciati alle spalle. Affacciandosi indirettamente sull'oceano, pronti per un cambio di rotta, un rimescolamento di atomi che avrebbero formato la molecola essenziale di un nuovo popolo. 

La simpatia umana ha dei limiti,e noi eravamo contenti di lasciare svanire le loro tragiche discussioni con le luci della città alle nostre spalle.

Valutazione d'inchiostro: 4

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