sabato, luglio 10, 2021

Gocce d'inchiostro: Un bosco di pecore e acciaio - Natsu Miyashita

A destare la mia attenzione fu il silenzio. Questo romanzo ha riposato sulla soglia di una finestra luminosa dall’aria luminosa e vaporosa in un costante fracasso a cui la mente ci ha fatto l’abitudine già da un pezzo. Poi, improvvisamente, quella parte di me che resta all’erta anche quando l’altra riposa si rese conto che stava succedendo qualcosa di nuovo e si allarmò. Il rumoroso, insolito spettacolo messo in scena in questi giorni fu indetto da un’autrice giapponese che, fra il quieto e l’ordinario, offrì al mio sguardo la struttura di un’esoscheletro letterario che necessita di una rifinitura ma che nonostante tutto ha raggiunto il mio cuore. Una minuscola barchetta si stanziava dinanzi alla frastagliata cresta di un monte roccioso, lontanissimo da me, immerso nella luce, la cui anima presto o tardi si sarebbe levata nell’etere fra le voci altisonanti di altre voci, altri suoni.

Titolo: Un bosco di pecore e acciaio
Autore: Natsu Miyashita
Casa editrice: Mondadori
Prezzo: 19, 50 €
N° di pagine: 209
Trama: Una palestra vuota, un grande pianoforte aperto e le dita di un uomo che toccano i tasti facendone uscire una melodia dolce, una melodia che è un fremito di rami e uno stormire di fronde, un odore di bosco sul far della sera. Tamura ha diciassette anni e in piedi, solo, nella palestra deserta, ascolta rapito quei suoni. È una folgorazione. L’uomo non è un pianista, ma un accordatore. Sta chino sul pianoforte con i suoi attrezzi e si piega sulle viscere di legno dello strumento per trarne una musica che a Tamura parla di un mondo lontano, dei boschi della sua infanzia di cui ha una lancinante nostalgia. È l’inizio di una passione, e di un’ossessione. Tamura frequenta la scuola per accordatori e inizia a lavorare sodo: studia materie difficilissime e dedica ogni momento libero alla ricerca di quel suono magico che aveva udito un giorno nella palestra della scuola. Un suono in grado di evocare un mondo intero, il bosco in cui i suoi odori, la luce filtrata dal verde, il vento tra le foglie, l’acqua sotto le radici, il canto di una ghiandaia e il languore nel cuore del protagonista. Un suono familiare che però gli sfuggirà a lungo, non riuscendo egli ad accordare legno e corde nel modo esatto. Perché per saper accordare la musica è necessario avere un talento e quel talento è qualcosa di similissimo all’amore.


La recensione:

 

La musica non è fatta per competere. Puoi anche entrare in competizione con qualcuno, ma si sa chi sarà il vincitore: chi ne ha tratto beneficio!

 

Cosa sappiamo effettivamente della musica? Qual è la sua provenienza? Cosa fare per scavare a fondo nella sua anima, per scrutarla attentamente? Quella della musica è una delle tante argomentazioni spirituali di cui non si ha una vera e propria risposta. Perché scrivo questo? Perché a certe risposte dell’anima non c’è fondamento. L’uomo è sempre l’uomo e i suoi mali sono gli stessi. Eppure è capace di distinguere ciò che è dotato di un anima e ciò che non lo è, un fatto davvero eccezionale. Sortisce un certo effetto, ma non sappiamo di più. Non sono un’esperta in questo settore. Il solo responsabile è l’anima. Ed io amo parlare di cose o forme che possiedono un anima..
Questo romanzo, così come tanti altri romanzi che ho letto in passato, possiede un anima. L’anima di chi legge, di chi sente, vede, ascolta, i cui messaggi furono sferzate negli occhi per i quali non vidi una vera e propria origine. Quasi sempre rimandati nei casi in cui si ritiene necessario un intervento letterario.
Originariamente, la lettura non procedeva spedita come credevo. Un lavoro ben ponderato, riflessivo, efficiente, è solo una parte dell’intera opera. Ci sono stati temi trattati che hanno fatto vibrare il mio cuore di una melodia tutta sua, che man mano che si procede con il suo ritmo lento e sincopato hanno sortito un certo fascino che via via è andato a scemare. E per questo credo che Un bosco di pecore e acciaio sia una storia molto dolce da conservare, tenere nascosto, ma il cui amore che Tamura riserva al suo amato pianoforte stona con l’anima del romanzo in se. L’idea di associare il tutto a una melodia dal suono enigmatico, esprime qualcosa di terribilmente nostalgico. L’inverno, l’aria secca e umida sono alcuni di quegli elementi che coincidono con Tamura, piccolo grande poeta giapponese che da sempre desidera perseguire il suo sogno: diventare un pianista. Quasi una farfalla che fatica ad uscire dal barattolo, ma che se indirizzata a poter trovare quella giusta vibrazione – limpida, ampia, lontanissima dal terrore agitato – affinchè essa possa spiccare il volo, risplendere, libera di sprigionarsi.
Tamura mai avrebbe creduto che la miglior cura per ottenere ciò sarebbe stata la fase sperimentale delle sue prodezze. Prodotta in forma personale ed impersonale, che seguiremo sin dal primo momento in cui saremo invasi dalle note soavi di un pianoforte. E solo dopo avremmo riscontrato i suoi effetti. Quali sarebbero stati i primi risultati di questa cura sperimentale? Eccezionalmente buoni, per Tamura, soddisfacenti per me, che avrei voluto vivere qualcosa di maggiormente intenso ma che in un certo senso ha accettato questo assetto spirituale di ristabilire l’equilibrio perduto. Ma in un certo me l’ero immaginata: la letteratura orientale, a eccezione di Murakami Haruki, non mi soddisfa come desidero. Non sono mai garanzie, solo esperimenti. E alla fine sono contenta del risultato.
Oramai sono abituata a questi esperimenti e questo romanzo, a dire il vero, subentrò repentinamente mediante la chiamata dolce, intensa, quieta. Bello come un sogno ma certo come la realtà in cui la musica è il vero e proprio effetto scatenante. Innesca un meccanismo di autodifesa, di benessere e pura magia. È una medicina per l’anima che su di me ha avuto un effetto secondario perché non è entrato nell’immediato nel sangue come invece è stato per Tamura, che ha assorbito in maniera quasi ossessiva.
Una lettura molto dolce e carina che non considero indimenticabile o necessaria, ma che in un certo senso ha alimentato in me l’amore già forte in partenza che io ripongo per il Giappone e per Murakami Haruki a cui mi fiondo quasi sempre spedita, senza pensarci per più di un secondo. Parlare però con Tamura e la sua autrice ha sortito effetti che non credevo: ha relegato infausti pensieri in una zona remota del mio cervello. E non uscendo proprio allo scoperto, piuttosto ascoltando ciò che avrebbero dovuto dirmi, e che hanno poi egregiamente fatto, con coraggio e sicurezza nel riporre irreversibili squarci di anima al prossimo, mettere a nudo se stessi, conferendo quelle giuste e adatte nozioni per cui è stato così importante imboccare una strada, quella della musica classica, e il rapporto intrinseco che si è instaurato. E quello che ci fa presente l’autrice è che ognuno di noi va alla ricerca di una melodia, di una parte del nostro spirito in cui l’anima può sentirsi beata e che, come il mito di Orfeo, rappresenta in un certo senso il nucleo di questa collaborazione che ne evidenziano i motivi. E, in particolare, cercare qualcosa che è sempre difficile ottenere: la libertà. Abbattere qualunque barriera, valicare qualunque muro affinchè si possa rimediare sulle mancanze del passato. La musica conferisce bellezza, conforto, parsimonia, finchè ogni cosa vada al suo posto.
Allegoria della stessa musica, del paesaggio ritratto in copertina o, addirittura, del titolo posto, nonché riflessione sul talento, sull’anima, sull’emozione, sulla creatività colmo di una certa determinazione, che tuttavia cozza con l’aura drammatica e malinconica che trapelano dalle sue pagine.
 

<< Si vive anche senza talento. Però, da qualche parte dentro di noi, ci crediamo: quello che non vediamo nemmeno dopo aver superato le diecimila ore, forse lo vedremo impiegandone ventimila. Piuttosto che vedere presto, non è più importante vedere altro e grande? >>

 

Valutazione d’inchiostro: 3 e mezzo

4 commenti:

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